Pacs e unioni civili. Dalla realtà non emerge la domanda

unioni civiliAvvenire, 10 gennaio 2007

Eugenia Roccella

Nei prossimi giorni, al vertice governativo di Caserta e nella Commissione giustizia, si riaprirà il dibattito su pacs e unioni civili. Di nuovo, qualcuno ci racconterà della difficile vita dei conviventi, che non possono andare a trovare il compagno in ospedale e in carcere, non hanno il diritto di ereditare, e a cui addirittura sarebbe negata “la possibilità di depositare fiori al cimitero”, come ha dichiarato Aurelio Mancuso, segretario nazionale di Arcigay, attuale presidente della Liff, Lega italiana delle famiglie di fatto.

Nonostante l’ampia eco che i mezzi di comunicazione riservano a questi argomenti, un dato balza immediatamente agli occhi: non ci sono piazze piene di conviventi che premono per avere una legge, non ci sono associazioni traboccanti di iscritti, non c’è una richiesta urgente della società civile.

In Italia le coppie di fatto sono appena il 3,9% del totale, e l’unica organizzazione che le rappresenta è appunto la Liff, fondata dal deputato Franco Grillini, storico leader del movimento omosessuale. Chi sceglie di non sposarsi, in genere lo fa per mantenersi libero da impegni troppo vincolanti, e se cambia idea ricorre al vecchio, affidabile istituto del matrimonio.

Ritenere che sia necessaria un’ulteriore opzione, per promettersi fedeltà e aiuto, ma solo a tempo determinato e fino a un certo punto, equivarrebbe a considerare i cittadini come persone incapaci di assumersi le proprie responsabilità, perennemente affidate alla tutela dello Stato. Tutto ciò vale se dobbiamo credere alle dichiarazioni esplicite dei politici, e se l’intenzione sotterranea non è quella di creare alternative alla famiglia, distruggendone la resistenza e la centralità nella società italiana. In altri Paesi la situazione è diversa: le coppie di fatto sono una realtà diffusa e riconoscerle può servire ad arginare i danni che ne derivano.

Un recente rapporto inglese, per esempio, indica proprio nella proliferazione delle unioni di fatto, con il carico di instabilità e precarietà economica e affettiva che comportano per i figli, la causa principale della preoccupante situazione di degrado sociale in Gran Bretagna. Ma in Italia, nonostante il crollo delle nascite, la famiglia è forte, e infatti i fenomeni di criminalità giovanile, di marginalità sociale, di povertà e abbandono dei più deboli restano limitati.

Forse è proprio questa forza perdurante, a provocare l’atteggiamento di attrazione e ripulsa che si riflette nella domanda di riconoscimento giuridico delle convivenze: chi critica la famiglia, come luogo coercitivo che soffoca le libertà dei singoli, è spesso la stessa persona che chiede di poterla imitare. Si sostiene che è una gabbia, e poi si reclama a gran voce qualche sbarra; si rifiuta il matrimonio, però si vorrebbe almeno un mezzo giuramento, una firma sul registro, una foto con l’assessore.

L’impressione è che più che di una richiesta che nasce dal basso si tratti di una battaglia culturale, nata proprio allo scopo di promuovere la richiesta che non c’è, e di scardinare il modello classico della famiglia (al singolare). Come ha efficacemente dimostrato Francesco D’Agostino sul primo numero di “è famiglia”, non esiste nessun vuoto legislativo, non ci sono diritti fondamentali negati, e le pochissime situazioni incerte si potrebbero risolvere con semplici atti amministrativi.

Se poi il vero problema è quello di offrire una legittimazione pubblica e garanzie giuridiche alle coppie omosessuali, magari in vista della possibilità di adottare, si apre un altro capitolo, su cui però bisogna avere l’onestà di discutere con chiarezza.

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5 gennaio 2006  

«Coppie di fatto, non c’è l’esigenza di una legge»

Intervista a Francesco D’Agostino

di Francesco Riccardi

«Diciamolo francamente: non ci sono esigenze sociali tali da giustificare una legge sulle coppie di fatto». Francesco D’Agostino, ordinario di Filosofia del diritto all’Università di Tor Vergata e presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica, va subito al nocciolo della questione. Professore, un passo indietro. Il dibattito su un’eventuale regolamentazione delle convivenze more uxorio si è riacceso da qualche settimana e a sentire alcune forze politiche si tratta addirittura di una necessità alla quale mettere mano con urgenza.

Ma è veramente così?

Niente affatto. Quando si progetta una nuova legge bisogna innanzitutto individuare quali siano le esigenze sociali concrete che la norma dovrebbe promuovere o regolamentare. Nel caso delle coppie di fatto ho la netta impressione che ci siano esclusivamente esigenze di legittimazione simbolica e nessuna esigenza sociale reale e concreta da tutelare. Se non esigenze così marginali e limitate, che potrebbero essere tranquillamente risolte addirittura senza ricorrere allo strumento della legge, ma con una normativa di tipo amministrativo.

Ma è corretto parlare di “diritti” oggi negati ai conviventi o non stiamo piuttosto discutendo di una semplice richiesta di agevolazioni?

Se intendiamo riferirci ai “diritti sociali” che l’intero ordinamento deve riconoscere alle persone per il loro status, entriamo in un terreno molto scivoloso. Perché si potrebbe, in generale, sostenere che lo status di convivenza giustifica il riconoscimento pubblico di alcuni diritti da parte dello Stato. Però, così facendo, correremmo l’enorme rischio di giuridicizzare tutte le convivenze, imponendo legalmente uno status anche a quelle persone che – pur convivendo – desiderano mantenere intenzionalmente il loro rapporto nella prospettiva della più assoluta precarietà e libertà.

Sarebbe un paradosso. La scelta della convivenza, nella gran parte dei casi, è giustificata dagli stessi partner proprio come il rifiuto di un vincolo esterno alla coppia. È anche vero però che – una parte almeno delle coppie di fatto – chiede una qualche forma di riconoscimento.

Appunto. Ma se – come vorrebbero i sostenitori dei progetti di legge – si intende tutelare solo quei conviventi che chiedono di essere registrati come tali, allora esiste già un istituto che risponde assai efficacemente a queste esigenze: il matrimonio. Ne discende una domanda fondamentale: perché queste coppie di fatto intendono rinunciare volontariamente al matrimonio ma vorrebbero accedere a un pacs, o comunque a un qualche “patto di convivenza”?

Non sarà perché il matrimonio pone degli obblighi, accanto al riconoscimento di diritti, mentre attraverso i pacs si pretende il riconoscimento di diritti senza corrispondenti doveri, senza obblighi? Se questa fosse la verità, occorrerebbe interrogarsi a fondo sul perché lo Stato dovrebbe tutelare delle coppie che pretendono diritti ma non vogliono assumersi doveri. Il patto di convivenza, infatti, si configura come un rapporto giuridico parassitario a carico della comunità.

Torniamo allora alla questione di come rispondere ad alcune esigenze, facendo qualche esempio: i sostenitori della legge dicono che il convivente non può subentrare nel contratto d’affitto o che non è autorizzato ad assistere il partner malato in ospedale o detenuto in carcere.

La questione della persistenza di un contratto d’affitto nel caso di premorienza di uno dei due conviventi è in realtà già stata ampiamente risolta da numerose sentenze della magistratura, anche ai massimi livelli. Da tempo quindi questo beneficio è riconosciuto. Così pure sarebbe sufficiente un atto amministrativo per risolvere definitivamente il problema dell’assistenza in ospedale o in carcere.

Occorre prendere in considerazione anche la tutela di tipo patrimoniale, però…

Per la quale già oggi nulla vieta al convivente more uxorio di ricorrere agli strumenti del diritto volontario stipulando una polizza assicurativa o una pensione integrativa a beneficio del partner. Così pure può redigere testamento in suo favore. Diverso il caso delle pensioni di reversibilità. Ma mi sembra che il costo dell’operazione sia un argomento che sta facendo riflettere in primis i sostenitori…

Gli strumenti del diritto privato sono utilizzabili già oggi senza ulteriori interventi legislativi, oppure è auspicabile introdurre una sorta di contratto-tipo per le parti?

Sono convinto che già oggi non ci sia bisogno di alcuna modifica legislativa. Basta il diritto che c’è, a condizione che gli stessi conviventi lo vogliano utilizzare. Sento dire che tutto questo sarebbe «troppo oneroso» per le coppie di fatto, come dire che è troppo faticoso e costoso fare testamento, spetta alla legge stabilire una successione legittima per i conviventi.

È paradossale che chi ragiona in una prospettiva liberale chiami in causa sempre lo Stato, anziché favorire tutti quegli strumenti che fanno perno sulla responsabilità dei singoli. Non si può sempre rincorrere la pigrizia e l’ignavia di chi “non ci pensa”. Quanto a un contratto-tipo lo vedo possibile solo per regolamentare non le convivenze more-uxorio, semmai quelle temporanee, extra-affettive che coinvolgono ad esempio lavoratori in trasferta, studenti che condividono appartamenti…

La Costituzione, all’articolo 29, è molto chiara nel riconoscere i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Tuttavia, i sostenitori di una regolamentazione delle unioni di fatto fanno appello all’articolo 2 della Costituzione, che fa riferimento alle “diverse formazioni sociali” ove si svolge la personalità dell’individuo. È un argomento valido?

No, si tratta di un’interpretazione arbitraria e forzata, come se l’articolo 2 fosse stato scritto per riconoscere valore costituzionale, oltre che ai diritti del singolo, anche ai diritti di qualsiasi formazione sociale alla quale il singolo si trovasse ad appartenere. Non è così: l’art. 2 vuole solo sottolineare che ogni uomo ha diritti inviolabili e che questi diritti gli vanno riconosciuti sempre, sia come singolo sia quando egli si trovi ad essere integrato in formazioni sociali che potrebbero anche – se mancasse un chiaro dettato costituzionale – limitarli. L’art. 2 non può essere invocato per giustificare una particolare rilevanza costituzionale ad alcuna “formazione sociale”: quando la Costituzione ha voluto farlo (come nel caso dei sindacati o dei partiti politici) lo ha detto espressamente.

Nelle bozze delle proposte di legge circolate finora si specifica che i conviventi possono essere anche dello stesso sesso. La registrazione, così, sarebbe un riconoscimento pubblico ed esplicito delle coppie omosessuali.

Alla fine temo sia questo il vero obiettivo che molte forze politiche e culturali si prefiggono: il riconoscimento giuridico e istituzionale delle coppie gay. Ma dobbiamo domandarci: esistono delle ragioni sociali per dare riconoscimento pubblico alle coppie omosessuali? Restando nell’ambito del diritto, osserviamo che le convivenze omosessuali tra maggiorenni pur essendo assolutamente lecite, non hanno rilievo pubblico, perché non esiste un autentico interesse della società a tutelare queste unioni, in quanto costitutivamente sterili. In estrema sintesi: la società in ogni tempo e in ogni cultura tutela il matrimonio perché esso, ed esso soltanto, fondando la famiglia garantisce nel modo migliore l’ordine delle generazioni.

C’è però un altro argomento più sottile che – ancorché non esplicitato – porterebbe all’equiparazione di fatto tra famiglie “tradizionali” e coppie omosessuali: la possibilità dell’adozione per queste ultime.

Certo, se accettassimo l’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali, la parificazione sarebbe difficilmente negabile. Ma noi dobbiamo partire da un’ottica completamente diversa: la procreazione e l’allevamento di un bambino devono essere legati per il suo stesso bene ai ruoli genitoriali come ruoli sessualmente differenziati. Lo dice il diritto, lo dice il senso comune, ma lo sostiene soprattutto la psicologia dell’età evolutiva. Permettere tali adozioni equivarrebbe a effettuare un esperimento sociale di estrema pericolosità, nel quale i bambini orfani dati in adozione sarebbero ridotti a mere cavie.