L’ipocrisia della pace

militari in missionePagine di difesa 9 novembre 2006

di Roberto Iannarelli

Negli ultimi anni locuzioni come ‘missioni militari di pace’, ‘soldati di pace’ e persino ‘ministero della Pace’ al posto di quello ‘della Difesa’ (ritenuto forse non sufficientemente pacifico) hanno trovato larghi consensi, purtroppo, non solo in certe frange pseudo pacifiste ma più in generale nel linguaggio politico e mass mediatico italiano. È necessario sottolineare come una tale operazione, oltre a essere un inganno verso i cittadini, insinui un enorme pericolo all’interno delle Forze armate.

Il soldato deve applicare un principio di avalutatività nell’esercizio della propria professione, rispettando solo le regole d’ingaggio e i principi umanitari delle convenzioni e del diritto internazionali. In un paese democratico, le valutazioni di altra natura, spettano esclusivamente alla politica.

Il giovane soldato, se da una parte è sottoposto a un addestramento militare di durata relativamente breve, dall’altra subisce costantemente sia un ormai consolidato processo di svilimento dei valori patriottici sia un più recente fenomeno di condizionamento consistente nell’esagerata evidenziazione del ruolo pacifico del soldato e della missione, ovvero della pace come unico elemento giustificativo per imbracciare un fucile, sempre che questo sillogismo possa avere una qualche coerenza interna.

Per commemorare il 4 novembre, il logo ufficiale della Difesa è stato quello di un soldato donna che stringe fra le braccia un bambino. Sul mensile ‘Il nuovo giornale dei militari’ altro soldato e altro bambino. A meno di non voler sostenere che il soldato sia un automa, è necessario riflettere seriamente su come la psiche dell’uomo soldato elaborerà questi due contrastanti messaggi e sottolineare come il dubbio potrà pericolosamente insorgere anche nel momento peggiore, quello della battaglia, pregiudicando la necessità di un’alta prontezza operativa, del riflesso automatico al combattimento, mettendo in grave pericolo sia se stesso che i commilitoni e gli eventuali alleati, che non sanno a priori quanto chi gli sta affianco abbia più o meno ‘assorbito’ questi concetti.

Dubbio che si aggiungerà poi a quello di quanto potrebbe costargli un fatale errore di valutazione sul campo di battaglia (accadimento fisiologico in quei frangenti), come ben sanno quei soldati accusati di aver sparato a un’ambulanza nella cosiddetta ‘battaglia dei ponti’ in Iraq.

Se invece si dà per assodato che il soldato non è un essere avulso dalla società in cui vive e che deve obbligatoriamente essere interpretato nella sua sfera psicologica, allora lo si deve salvaguardare dal costante e pesante bombardamento tendenzialmente negativo e devalorizzante, in modo da non creare divergenti interpretazioni sulle modalità di esplicazione del proprio ruolo all’interno delle Forze armate e della società civile.

Segnale d’allarme di una situazione ormai giunta alla saturazione, è dato dal fatto che gli stessi militari (si vedano recenti interviste a giovani soldati) parlano di loro stessi con un linguaggio che non si addice a una forza combattente, bensì ad altri meritori organismi che però nulla hanno da spartire con le Forze armate. Perfino osservatori non particolarmente vicini ai militari hanno segnalato il fenomeno.

Sarebbe bello poter risolvere il problema esercitando forme di censura, ma il lavoro da fare è molto più lungo e faticoso, di carattere squisitamente politico attraverso la ricostruzione morale e civile del nostro Paese. In caso contrario, viene da domandarsi da dove attingeranno le future Forze armate i loro soldati. Dai giovani no global, pacifisti, disobbedienti?

E se parte di questi giovani, per assurdo, si piegherà giocoforza a un lavoro come militare per sbarcare il lunario, le Forze Armate e la nazione quale affidamento potranno mai fare su tale personale? O ci si dichiara totalmente pacifisti e si abrogano le Forze armate oppure si accetta l’esigenza di avere “soldati di guerra”, il che certo non fomenterebbe la creazione di truppe assetate di sangue o di mercenari, bensì darebbe al Paese strumenti tecnici d’offesa adeguati.

Quanto detto non significa che i militari non possano essere impiegati in operazioni di peace-keeping o peace-enforcing e neppure che non debbano essere in prima linea in caso di calamità o in situazioni ove è necessaria una azione congiunta con le forze di polizia. Le missioni militari di pace sono d’altronde sancite dal combinato disposto degli articoli 41 e 42 della Carta delle Nazioni Unite e dall’articolo 11 della Costituzione italiana.

Significa invece che, dopo aver ribadito con forza che anche in questo tipo di impiego devono essere garantiti ai militari tutti i mezzi strumentali, politici e giuridici per esercitare il loro mandato in piena sicurezza, ben venga la chiamata a questi compiti extra, purché nessuno (mass-media e mondo politico) strumentalizzi il mondo militare affibbiandogli etichette che non gli competono e che i soldati aborriscono.