A favore della pena di morte?

pena_morteIn «Il Domenicale», 18 novembre 2006, p. 3.

di Giacomo Samek Lodovici

La condanna a morte di Saddam Hussein (come già, nei mesi scorsi, l’assassinio del piccolo Tommaso Onofri) riporta prepotentemente in auge il dibattito sulla pena di morte. Su questo tema la Chiesa cattolica viene sovente accusata di incoerenza e disumanità, perché, così si dice, come si può essere favorevoli alla pena di morte e contrari all’aborto? Qual è dunque la posizione cattolica riguardo alla pena di morte? Per comprenderla bisogna brevemente interrogarsi sulle funzioni della pena.

Oggigiorno nel mondo cattolico si ammettono due funzioni della pena: 1) rieducativa: ha lo scopo di produrre il pentimento del reo; 2) deterrente-difensiva: la pena ha lo scopo di evitare nuove minacce all’incolumità della società, esercitando un’azione intimidatrice nei confronti del reo e di coloro che potrebbero emularlo.

Ora, queste due funzioni delle pena non possono essere esclusive. Se la funzione rieducativa fosse esclusiva bisognerebbe rilasciare un assassino che si sia pentito del suo delitto anche se non ha fatto un solo giorno di carcere; se fosse esclusiva la funzione deterrente si potrebbe prendere uno capro espiatorio e punirlo come monito per i potenziali criminali.

Insomma, queste due funzioni debbono essere integrate da una terza, quella retributiva, come dicono Aristotele (Etica Nicomachea, 1132a 7 e ss.), S. Tommaso (Somma teologica, II-II, q. 108, a. 4) [1], Kant (Metafisica dei Costumi, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto di Immanuel Kant, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, Torino 1965, pp. 521-522), Hegel (Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1965, § 97 e ss) e il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 2266 [2]). Quest’ultimo, per esempio, dice che “la pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa”.

La pena come retribuzione, come scriveva anche Vittorio Mathieu (Perché punire? Rusconi 1978) è il corrispettivo, proporzionato, del male commesso dal reo, che ristabilisce la giustizia. Infatti, ciascun uomo vive con gli altri in un rapporto di uguaglianza, di reciprocità, di simmetria dei diritti, che viene cancellato dal reo, il quale ottiene un vantaggio indebito a spese degli altri. Perciò, come chi ha guadagnato un vantaggio ingiusto deve risarcirlo, come chi si è arricchito illecitamente deve restituire ciò che ha rubato e come una squadra sportiva che ha barato deve essere penalizzata, così il reo deve subire una pena afflittiva per scontare il male che ha compiuto. Afflittiva perché il reo ha prevaricato con la sua volontà e la sua libertà sulla volontà e la libertà dei suoi simili, perciò la pena deve affliggere la sua volontà e la sua libertà per riequilibrare il male che egli ha compiuto (Tommaso, Somma teologica, II-II, q. 108, a. 4) [3].

In effetti, il reo può pentirsi solo percepisce la pena come retribuzione per un male commesso; ed è possibile rigettare la logica del capro espiatorio solo se la pena è la retribuzione proporzionata di una colpa.

Inoltre, il reo, prevaricando sui suoi simili, ha abdicato alla propria dignità (ibidem, q. 64, a. 2, ad 3) perciò la pena, facendogli espiare il male compiuto, gli restituisce quella dignità che ha perso; in tal modo, come già diceva Platone, il reo può essere paragonato ad  un malato: “forse il farsi curare dal medico è piacevole e coloro che si fanno curare provano piacere?”. Ovviamente no, però “è utile”: “infatti il malato si libera da un gran male e per questo trova vantaggioso sopportare il dolore e guarire”.

Ora, “chi è più infelice fra due malati nel corpo e nell’anima [il malato nell’anima è il reo]? Colui che si fa curare dal medico e si libera dal male, oppure colui che non si fa curare e continua a tenersi il male? […] quello che non si fa curare”. Perciò, prosegue Platone, “la liberazione dal male più grande, cioè dalla malvagità” equivale a “scontare la pena” e “la giustizia [la pena] fa in un certo senso rinsavire e rende più giusti e costituisce la medicina della malvagità”. Pertanto, la cosa peggiore che può capitare ad un uomo non è commettere ingiustizia, ma commettere ingiustizia e non venire punito, perché chi non viene punito non recupera la propria dignità che ha leso: “fare ingiustizia e non scontare la pena è veramente il più grande e il primo di tutti i mali” (Gorgia, 478 A – 479 E).

Ciò significa che, per Platone, esiste un diritto-dovere dello Stato di punire, ma anche un diritto del reo di essere punito dallo Stato (qualche volta, sebbene raramente, il reo ne è consapevole), perché la pena gli consente di recuperare la propria dignità (cfr. anche Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 100).

Prima obiezione: qual è la differenza con la vendetta? Come spiega S. Tommaso (Somma Teologica, II-II, q. 108, a. 1) la vendetta vuole danneggiare il reo; invece la pena come retribuzione ha un’intenzione diversa: ristabilire l’uguaglianza infranta dal reo e ridargli la dignità che egli ha perso, quindi non vuole il male del reo, bensì il suo bene. Infatti, fare del male a qualcuno non vuol dire sempre commettere un male morale: il padre che punisce il figlio che ha sbagliato gli fa male, ma non fa del male morale, anzi fa del bene morale e fa il bene del figlio: «a coloro che amiamo possiamo infatti arrecare un male materiale […] per la loro correzione» (Tommaso d’Aquino, De caritate, a. 8, ad 10).

Seconda obiezione: qual è la differenza con la legge del taglione? In Kant ed Hegel la retribuzione si sovrappone al taglione, nondimeno bisogna distinguerla da esso: la pena dev’essere sì proporzionata, però non guarda solo ai fatti (occhio per occhio), bensì anche alle intenzioni, alla consapevolezza e alla premeditazione del reo (Aristotele, Etica Nicomachea, 1132b 21 ss); inoltre la logica del taglione colpisce anche chi non c’entra (se x uccide i figli di y, y per ritorsione uccide i figli di x), mentre la pena come retribuzione affligge solo il responsabile di un crimine.

Terza obiezione: il male compiuto non si può cancellare e la pena aggiunge un nuovo male a quello già compiuto. Risposta: in realtà, nessuno pretende che il male sia cancellato; con la pena si vuole ristabilire l’uguaglianza tra gli uomini e restituire la dignità al reo, quindi la pena non aggiunge un nuovo male a quello già esistente, bensì fa del bene.

È vero che il cristianesimo dice di perdonare, ma il perdono concerne il colpevole e non cancella né la colpa, né la pena: nel sacramento della confessione il penitente è perdonato, ma non la sua colpa, né la sua pena, tanto è vero che egli riceve una penitenza.

Se la pena fosse solo rieducativa, sempre nel sacramento della confessione non avrebbe senso comminare la penitenza al peccatore, che è già pentito. Perciò, visto che la penitenza della confessione non ha una funzione rieducativa e visto che è tanto lieve da non avere alcuna efficacia deterrente, vuol dire che essa ha una funzione retributiva.

Un altro clamoroso esempio cristiano di pena retributiva è l’inferno, come si comprende chiaramente dal fatto che esso perdurerà anche dopo la fine del mondo. Infatti, è chiaro che dopo la fine del mondo la pena dell’inferno non può avere una funzione rieducativa, in quanto i dannati non possono essere rieducati, né una funzione preventiva ed intimidatrice, perché non esiste più nessuno che sulla terra possa ricavare un monito da essa: dunque dopo la fine del mondo l’inferno conserva solo una funzione retributiva.

S. Tommaso dice che “l’uomo sorpassa ciò che è dovuto alla sua misura quando preferisce la volontà propria alla volontà di Dio, soddisfacendola contro l’ordinamento di Dio. E questa disuguaglianza viene eliminata quando contro la sua volontà l’uomo è costretto a soffrire qualche cosa conforme all’ordinamento divino. Perciò è necessario che i peccati degli uomini siano puniti da Dio” (Somma contro i Gentili, III, CXL). Ora, “la giustizia divina, per custodire l’equità nell’universo, esige la punizione delle colpe e la ricompensa degli atti buoni (Ibidem, CXLII) e, come dice ancora Tommaso, “Dio per certi peccati infligge delle pene eterne per custodire il debito ordine del creato” (Ibidem, CXLV). Inoltre Tommaso spiega che la pena eterna deve essere afflittiva: “Coloro […] che peccano contro Dio devono essere puniti non solo con l’esclusione perpetua dalla beatitudine, ma anche con delle pene afflittive”(ibidem).

È vero che il vangelo dice di porgere l’altra guancia, ma ciò non esclude la liceità della legittima difesa che, dice il Catechismo, «oltre che un diritto, può anche essere un grave dovere, per chi è responsabile della vita degli altri» (n. 2265): infatti, io posso scegliere di porgere l’altra guancia se qualcuno aggredisce me, ma ho il dovere di reagire se qualcuno aggredisce chi è sotto la mia responsabilità (per es. se io sono un padre e qualcuno aggredisce mio figlio, oppure se sono un governante e qualcuno mette in pericolo i cittadini che io devo tutelare).

Applichiamo dunque questo discorso sulla pena alla pena di morte.

Ebbene, l’insegnamento cattolico distingue la giustificazione teorica della pena di morte dall’opportunità della sua applicazione pratica, in un caso concreto. Ci sono dei crimini con dei requisiti in presenza dei quali la pena capitale può essere teoricamente giusta; però questi requisiti debbono essere riscontrati in concreto e questo riscontro è quasi inesistente.

I.

Dal punto di vista retributivo la pena dev’essere proporzionata al male compiuto, perciò in linea di principio non si può escludere che esistano crimini straordinariamente efferati che solo la pena di morte può riequilibrare (cfr. Kant, Metafisica dei Costumi, cit., pp. 522-523). Come dice S. Tommaso: “L’uccisione di un uomo […] può essere ordinata sia all’esecuzione della giustizia [pena di morte] sia all’appagamento dell’ira [vendetta]. […] nel primo caso si avrà un atto di virtù, e nel secondo un atto peccaminoso” (Somma teologica, I-II, q. 1, a. 3, ad 3).

Però, in concreto, è molto difficile (contrariamente a quello che dicono Kant ed Hegel) stabilire quando si configura questa proporzione, quanto il reo fosse veramente consapevole della malvagità di ciò che stava facendo, quanto fosse libero, ecc. e ciò rende difficilissimo comprendere quando sia opportuna l’applicazione della pena di morte in una situazione concreta. È vero che queste difficoltà si presentano ogni volta che un giudice umano deve irrogare una pena, ma nel caso della pena di morte l’errore è molto più grave ed è irreversibile.

II.

Dal punto di vista difensivo, per S. Agostino (Epistula 47, n. 5) e S. Tommaso è giusto, in certi casi, che lo Stato uccida un colpevole per difendersi: “nel caso che lo esiga la salute di tutto il corpo si ricorre lodevolmente e salutarmene al taglio di un membro putrido e canceroso. Ebbene, ciascun individuo sta alla società come la parte sta al tutto. E quindi se un uomo con i suoi peccati è pericoloso e disgregativo per la collettività, è cosa lodevole e salutare sopprimerlo, per la conservazione del bene comune” (Somma teologica, II-II, q. 64, a 2); e “quando la colpa viene conosciuta insieme al suo castigo, quale la pena di morte o altre privazioni che l’uomo aborrisce, allora la volontà viene distolta dal peccato” (ibidem, q. 108, a. 3, ad 3.). Si veda anche il Catechismo, n. 2267: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte”.

Detto questo ci si può chiedere: qual è la differenza tra la pena di morte e l’omicidio?

1) Riprendiamo il passo di Tommaso di cui abbiamo già citato alcuni stralci: “L’uccisione di un uomo […] può essere ordinata sia all’esecuzione della giustizia [pena di morte] sia all’appagamento dell’ira [vendetta]. E si avranno allora atti specificamente diversi nell’ordine morale: poiché nel primo caso si avrà un atto di virtù, e nel secondo un atto peccaminoso” (Somma Teologica, I-II, q. 1, a. 3, ad 3).

Qui Tommaso chiarisce una cosa molto importante in etica: atti fisicamente identici possono essere diversi dal punto di vista morale. Per esempio, l’atto con cui prendo i soldi dal portafoglio di un altro può essere un furto, ma anche un favore (se l’altro mi ha chiesto di prenderglieli, visto che ha la gamba ingessata e non può alzarsi).

Così (cfr. M. Rhonheimer, La prospettiva della morale, Armando 1994, p. 286) l’atto con cui si uccide qualcuno può essere fisicamente identico nel caso dell’assassinio e della pena di morte, ma la pena di morte, se e quando è stata comminata giustamente, non è un assassinio, ma appunto una giusta punizione.

2) La pena di morte è una forma di legittima difesa praticata dallo Stato nei confronti di un criminale. Così, pur essendoci identità fisica tra l’omicidio e la legittima difesa, dal punto di vista morale c’è una differenza irriducibile.

Ciò risponde all’obiezione di chi dice che non si può essere a favore della pena di morte e contrari all’aborto. L’aborto, infatti (manca qui lo spazio per dimostralo, perciò rinvio al mio articolo sul Domenicale del 4.06.2005), è l’uccisione di un innocente (anche se chi vi ricorre può non esserne consapevole); invece la pena di morte è: 1) una pena; 2) una legittima difesa nei confronti di un aggressore.

Del resto la pena di morte era prevista dalla legge mosaica (Esodo 21, 14-23, cfr. anche Levitico 10 e ss.) ed era conciliabile con il “non uccidere” del decalogo, in quanto questo precetto, come dimostra il contesto[4], è rivolto alle persone private, mentre un’autorità legittima può togliere la vita. Anche S. Paolo dice che l’autorità “non invano porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male” (Rm 13, 4 ss).

Si obbietta: la vita umana è un bene indisponibile.

In realtà ogni pena colpisce sempre un bene, che è indisponibile a meno che io non mi sia meritato appunto una pena. Lo Stato ha forse il diritto di disporre della mia libertà? Certamente no, a meno che io ne abusi e mi meriti una pena. Lo Stato non ha diritto di togliermi la vita come non ha diritto di togliermi la libertà, a meno che io non meriti una pena: «chi deve farlo in forza del suo ufficio può lecitamente punire o anche uccidere i malfattori» (Tommaso d’Aquino, De caritate, a. 8, ad 10). Se la pena di morte fosse un assassinio di Stato, allora la prigione sarebbe un sequestro di Stato.

Si obbietta ancora: solo Dio è padrone della vita, quindi l’uomo non può toglierla ad un altro uomo. Risposta: Dio è padrone della vita come della libertà e di tutta la persona di chiunque e un giudice onesto, che ne sia consapevole o meno, amministra la giustizia come rappresentante di Dio, da cui proviene ogni potestà (omnis potestas a Deo, dice S. Paolo in Rm 13, 1). Per questo motivo, come abbiamo visto, sia l’Antico sia il Nuovo Testamento ammettono la pena di morte; per questo motivo S. Paolo dice che l’autorità “non invano porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male”.

Tuttavia, prosegue il Catechismo, la pena capitale è lecita solo “quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani”. Perciò, se “i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi”. Pertanto oggi “i casi di assoluta necessità di soppressione del reo «sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti»” (quest’ultima citazione proviene dall’Evangelium vitae di Giovanni Paolo II ed è stata aggiunta nel 1997). Perciò, dal punto di vista difensivo, la pena di morte non è più necessaria per la difesa della società.

III.

Infine, dal punto di vista rieducativo la prospettiva della morte può condurre un reo a rivisitare la sua vita, a riesaminarla, a ripensare a ciò che ha fatto (come fa quasi ogni uomo che conosce l’imminenza della propria morte) e perciò può farlo pentire: «la morte inflitta dal giudice giova anche al peccatore: se egli si converte giova all’espiazione della colpa» (Tommaso, Somma teologica, II-II, q. 25, a. 6 ad 2); ma non si può essere certi che l’imminenza della morte produca il pentimento, quindi la pena di morte potrebbe essere inefficace; inoltre, anche quando si potesse accertare l’avvenuto pentimento del reo, non avrebbe più senso eseguire la condanna, perché la sola prospettiva della morte, senza bisogno dell’esecuzione, avrebbe già ottenuto lo scopo.

Così, anche dal punto di vista rieducativo, ancora una volta, l’opportunità pratica di eseguire la pena di morte non sussiste.

Postilla

Secondo una diffusa vulgata, Cesare Beccaria sarebbe stato contrario alla pena di morte. In realtà Beccaria fa lo stesso discorso del Catechismo: dal punto di vista teorico considera la pena di morte una pena giustificabile come legittima difesa, “quando anche privo di libertà egli [il reo] abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma del governo stabilita. La morte di un cittadino divien dunque necessaria” (Dei delitti e delle pene, capitolo 28); però Beccaria nega l’opportunità della sua applicazione pratica, proprio come il Catechismo: “quando una forma di governo è […] ben munita al di fuori e al di dentro dalla forza […] io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino” (ibid.).

Note

[1] Tommaso, in Somma teologica, II-II, q. 108, a. 4, spiega che con la pena “viene ristabilita l’uguaglianza della giustizia” [funzione retributiva]”; aggiunge poi che la pena “può essere considerata come medicina, non solo per far guarire dai peccati già commessi [funzione rieducativa], ma anche per preservare dai peccati futuri [funzione deterrente-difensiva]”.

[2] “La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa [funzione retributiva]. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione [funzione retributiva e rieducativa]. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare la sicurezza delle persone [funzione deterrente-difensiva], mira ad uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole [funzione rieducativa]”.
[3] Tommaso, Somma teologica, II-II, q. 108, a. 4: “colui che peccando aveva troppo assecondato la propria volontà, viene a subire cose contrarie al suo volere”.
[4] Cfr. M. Rhonheimer, La prospettiva della morale, Armando 1994 p. 286, nota 109.