Per i medici era come un vegetale «Ma io vedevo tutto e volevo vivere»

Crisafulli

Salvatore Crisafulli

Il Giornale n. 249 del 21 ottobre 2006

Salvatore Crisafulli non ha ricevuto cure per 19 mesi: secondo i sanitari i suoi occhi si muovevano solo per un riflesso

di Tamara Ferrari
Autrice del libro «Con gli occhi sbarrati»

«Voglio raccontare al mondo la mia esperienza. Voglio che tutti sappiano che cosa vuol dire vivere paralizzati su un letto, senza poter muoversi né parlare, con i medici che dicono che non capisci niente. Voglio farlo per aiutare me stesso, le persone come me e i loro familiari».

Con queste parole, esattamente un anno fa, Salvatore Crisafulli, il quarantunenne siciliano che ha vissuto per quasi due anni in stato vegetativo permanente e che ha raccontato che in quel periodo capiva e sentiva tutto, mi ha chiesto di aiutarlo a scrivere la sua storia. Lo ha fatto attraverso una lettera. Salvatore, infatti, non può ancora parlare: riesce a comunicare soltanto grazie a un computer, selezionando con gli occhi le lettere sullo schermo.

È nato così, con la sua diretta testimonianza, il libro Con gli occhi sbarrati – La straordinaria storia di Salvatore Crisafulli (L’Airone ed., 12 euro), che ricostruisce passo per passo l’intera vicenda di quello che è stato soprannominato il «Terri Schiavo italiano». Raccontare la sua storia non è stato facile. Comporre anche la più semplice delle parole richiede a Salvatore uno sforzo tremendo, perché deve attendere che tutte le lettere dell’alfabeto scorrano davanti ai suoi occhi prima di poter selezionare quella che gli serve.

E così, ogni volta che gli rivolgevo una domanda, passava anche un’intera giornata prima che lui rispondesse. Soprattutto all’inizio quando, turbato dai ricordi, smetteva di scrivere e scoppiava a piangere. Una storia terribile quella di Salvatore Crisafulli. Iniziata a Catania l’11 settembre del 2003. Salvatore stava accompagnando in motorino a scuola uno dei suoi quattro figli, Antonio, di 13 anni, quando andò a schiantarsi contro il furgone di un gelataio. Finirono entrambi in ospedale, in coma.

Antonio si svegliò dopo una settimana, Salvatore dopo cinque mesi. «Non ricordo niente dell’incidente – rievoca oggi -. So solo che un giorno mi sono svegliato completamente paralizzato, a casa di mio fratello Pietro, in Toscana. Non riuscivo a muovermi né a parlare. Vedevo i miei familiari intorno a me e cercavo di gridare. Ma per quanto mi sforzassi, dalla mia bocca non usciva alcun suono».

Salvatore ha vissuto in questo stato per 19 mesi, durante i quali, per assisterlo, i due fratelli, Pietro e Marcello, hanno perso il lavoro. «Vivevamo in undici a casa mia, in provincia di Pistoia, con la pensione di mia madre – racconta il fratello Pietro -. Salvatore era completamente affidato alle nostre cure, gli ospedali rifiutavano il ricovero. E i medici che venivano a casa nostra ci dicevano che era in stato vegetativo permanente e che per lui non c’era niente da fare».

Invece Salvatore capiva tutto, era cosciente. «Sentivo i medici che dicevano ai miei fratelli che sarei morto e che i miei gesti erano involontari. Allora cominciavo ad aprire e chiudere gli occhi per attirare la loro attenzione. Ma non serviva a niente». Finché la madre, osservandolo, non ha scoperto che il figlio cercava di comunicare con lei attraverso lo sguardo.

«Un giorno sono entrati nella mia stanza mia madre, i miei fratelli, mia cognata e mio cugino – racconta Salvatore -. Mi hanno chiesto di aprire e chiudere gli occhi per rispondere alle loro domande. Mi dicevano: “Salvatore, se ci senti apri gli occhi”. E io lo facevo. Pietro mi metteva davanti due fogli colorati e diceva: “Qual è quello rosso?”. Io lo indicavo con lo sguardo. Si sono messi a piangere. E io con loro.

Ero convinto che i medici mi avrebbero curato, ma non è stato così». Prima che Salvatore venisse ricoverato, infatti, è passato un anno, durante il quale i familiari hanno tentato inutilmente di dimostrare che era cosciente. «Nessuno ci ascoltava – racconta Pietro -. Allora ho attrezzato una stanza di casa mia come fosse un ospedale e mi sono improvvisato infermiere».

Pietro Crisafulli non si è fermato qui. Ha trasportato Salvatore con un camper in giro per l’Italia e l’Europa. Fino a Innsbruck, in Austria. «Siamo andati da un grande esperto – dice Salvatore -. Ma anche lui non ha capito che ero cosciente». E racconta: «Eravamo nel suo studio e lui ha cominciato a battere con un martello sulle mie ginocchia. Poi mi ha punto con un ago sotto il naso. Io lo guardavo pieno di fiducia. Ma anche lui ha detto che non capivo niente».

Al ritorno in Italia Salvatore e i fratelli si sentivano persi. Finché un giorno, il 27 aprile del 2005, stremato dalla povertà, Pietro Crisafulli ha minacciato di uccidere il fratello. «Diceva che voleva staccarmi la spina come avevano fatto in America a Terri Schiavo – dice Salvatore -. Le sue minacce hanno fatto sì che intervenisse il ministro della Salute in persona.

Dopo otto giorni ero in ospedale, al San Donato di Arezzo». Nel luglio del 2005, dopo solo due mesi di ricovero, Salvatore Crisafulli è stato riconosciuto cosciente. «Quello che mi è successo è stato terribile – dice -. Ma adesso sto meglio, riesco a muovere il braccio destro». E aggiunge: «In questi mesi la mia famiglia è stata contattata da tante persone che hanno familiari nelle mie condizioni. Molti sono senza cure. Vorrei che questo non accadesse più. Per questo con mio fratello Pietro vorrei creare una fondazione alla quale potranno rivolgersi per chiedere aiuto e una vita migliore».