Igor Stravinsky

Strumenti culturali di Litterae Communionis n.3

 I GRANDI DELLA CULTURA MODERNA RIVISITATI

Igor Stravinsky

«Il senso profondo della musica – il suo fine essenziale – è di promuovere una comunione, un’unione dell’uomo con il suo prossimo e con l’Essere!»

 Testo di Maria Consigli, Stefano Dall’Ora, Maurizio Porro, Cristina Serralunga

 La sua vita

«È necessario un uomo perché le promesse di musica stano mantenute»

Tutte le estati la nobile famiglia di origine polacca degli Stravinsky si trasferiva dalla residenza abituale, Pietroburgo, a un piccolo paese dei golfo di Finlandia, Oranienbaum. Qui nacque il 18 giugno del 1882 (il 5 secondo il calendario giuliano delle confessioni greco-ortodosse) Igor Stravinsky. Egli stesso ci ha tramandato molti delicati ricordi della sua infanzia e maturi ripensamenti sugli incontri, i fatti, le parole e i momenti importanti della sua vita. Noi seguiremo dunque passo dopo passo le «Cronache» e i racconti di un uomo che trabocca di amore per la vita, per le cose vere, per la musica che lo fa entrare in comunione con gli uomini e con il Padre.

Oranienbaum_Finland

Palazzo Menshikovsky a Oranienbaum

Quello che più gli piaceva della Russia, la terra che gli resterà sempre nel cuore, nonostante i suoi pellegrinaggi fra Europa e America, era «la violenta primavera che sembrava cominciare in un’ora, ed era come se la terra si spaccasse in un meraviglioso evento» .(1)

La sua infanzia trascorse sotto le ali di una famiglia autoritaria e aristocratica, ben poco religiosa, al di là di pratiche abitudinarie. Stravinsky ricorda la sola vera solennità che lo coinvolgeva, la festa dell’Epifania quando lo zar battezzava nella Neva gelata una grande croce, con la gente inginocchiata sulla neve e sul ghiaccio a recitar preghiere.

«Un bambino non si chiede perché la vista dei gabbiani possa commuoverlo così profondamente, ma un uomo anziano sa che essi rammentano la morte e così anche allora quando li guardavo sulla Neva un pomeriggio d’inverno, a sette o otto anni. Non so, com’è che un uomo diventa vecchio? Per tutta la vita ho pensato a me stesso come al “più giovane” e ora improvvisamente sento parlare di me come “il più vecchio” (2) E allora rivado con stupore a queste lontane immagini di me stesso. Mi chiedo se la memoria sia verità e so che non può esserlo, ma so che nonostante ciò si vive di ricordi ».

Ed ecco anche le riminiscenze musicali, affascinanti e riposanti canzoni contadine che il piccolo Igor riproduceva con grande facilità, testimoniando una musicalità precoce, ma non eccessivamente incoraggiata. Eppure in casa sua si respirava già aria di musica. Il padre era basso all’Opera Imperiale di Pietroburgo, grande occasione per Igor di assistere ai più importanti spettacoli dell’epoca: quale emozione il fugace incontro con Ciaikovskij nel foyer, due settimane prima della sua dipartita! Igor ebbe poi le sue brave lezioni di pianoforte e ben presto cominciò ad improvvisare, annoiato dagli esercizi ripetitivi e meccanici

Appena in grado di leggere a prima vista saccheggiò letteralmente la biblioteca paterna di spartii d’opera. Poi arrivarono con scarsa soddisfazioni le lezioni di armonia, mentre la zio Jelatcic, l’unico che incoraggiava la sua attitudine, lo iniziavi alla musica sinfonica tedesca e il suo amico Ivan gli apriva gli orizzonti di quella francese. Poi la facoltà di diritto dell’Università di Pietroburgo frequentata a malincuore per obbligo dei suoi che continuavano a non capire la sua inclinazione: in fondo però il problema della vocazione non si era davvero posto neanche a Igor ed egli continuava il suo lavoro di apprendistato musicale senza ben sapere dove sarebbe arrivato.

L’ambiente universitario gli portò un regalo inaspettato, l’amicizia del figlio di Rimsky-Korsakov. E, alla prima occasione, Stravinsky sottoporrà con trepidazione al grande maestro i suoi timidi tentativi di composizione. Non troppi elogi, ma l’incoraggiamento a proseguire nello studio, fuori, però, dal chiuso ambiente del Conservatorio. Igor intanto partecipava con entusiasmo alle «Serate di musica contemporanea» e tutto ciò che di nuovo e a volte affascinante vi udiva dava forza alla sua voglia di comporre, al desiderio di andare fino in fondo.

Stravinsky_Korsakov

Stravinsky a casa Korsakov

Rimsky l’estate dopo, il 1903, lo fece lavorare al suo fianco, iniziando così un regolale rapporto maestro e discepolo: sarà per sempre l’unico insegnante da ritenere veramente tale. Morto lui, nel 1908, Stravinsky andrà avanti da solo, sfidando quasi se stesso e i semi che sentiva prossimi a sbocciare. Sposata la cugina Catherine, continuava a comporre regolarmente, mentre qualcosa già bolliva in pentola.

Serge de Diaghilev, uno dei più entusiasti ed intelligenti animatori della vita artistica e culturale russa di quel tempo, ascoltò ad un concerto il suo Scherzo fantastico. Subito pensò che quella era la persona adatta ad orchestrare alcuni brani di Chopin per il balletto Le Silfidi da presentare a Parigi. Quello con Diaghilev fu un incontro dall’apparenza casuale, eppure destinato ad avere un’importanza decisiva per la svolta che diede alla sua attività compositiva.

Un incontro, come i molti che sarebbero seguiti, che gli aprì spazi nuovi, gli rivelò capacità impreviste, direzioni sicure, essendo lui capace di cambiare l’altro e di farsi cambiare quando la verità non risplendeva abbastanza. Diaghilev, l’infaticabile rinnovatore ed animatore dei balletti russi, diverrà così prima di tutto un amico con cui confrontare scelte non solo musicali, ma di tutta la vita. D’ora in poi Stravinsky accetterà solo rapporti così.

Diaghilev l’anno dopo gli commissionò il primo balletto tutto per lui, l’Uccello di Fuoco, spaventandolo con una precisa scadenza cui non era ancora abituato. Ma il rigore e la costanza non gli mancavano certo: anche negli anni più duri della guerra, dell’esilio, anche in viaggio, Stravinsky non smise mai di mettere nota su nota per dare corpo alle sue idee musicali.

L’Uccello di Fuoco andò in porto e, dunque, ecco subito nuove proposte e idee di balletti, e il fecondo scambio di idee con Diaghilev; ma anche l’interruzione di molte settimane per una malattia che lo portò alle soglie della morte e lo costrinse al silenzio. Buona parte del lavoro avveniva ad Ustilog, il suo «rifugio per comporre», a ben due giorni e mezzo di viaggio da Pietroburgo: la popolazione del villaggio era «una comunità ebraica alla Chagall, tranquilla e affettuosa e molto religiosa» (3) In questo clima nacque buona parte di capolavori come Petruska e La Sagra della Primavera.

Stravinsky ricordava ancora incredulo lo scandalo suscitato dalla «prima» a Parigi nel ’13: da parte sua non c’era stata, come mai sarebbe accaduto, alcuna intenzione di colpire a sproposito gli ascoltatori. Sarebbe sempre rimasto lo stesso, anche su strade diverse, anche adoperando linguaggi nuovi, o i più antichi che ci siano: non la moda o il capriccio, ma la musica che sentiva sua al punto da non appartenergli più.

Il lavoro spesso veniva interrotto, se così si può dire, tale era l’arricchimento che gliene veniva, da molti viaggi con l’amico Diaghilev. Una puntata a Bayreuth per ascoltare il Parstfal di Wagner, disgustato dal sacrilego contorno di birra e tedeschi salsicciotti e dalla falsa atmosfera sacrale che nulla aveva a che fare con la vera spiritualità. Poi a Berlino per ascoltare senza troppo entusiasmo Schonberg, il maestro dell’avanguardia viennese, e a Parigi l’incontro con molti musicisti del suo tempo, la sintonia con Debussy, la simpatia per Ravel.

E l’ultimo viaggio a Pietroburgo, senza immaginare che sarebbe stato separato per tanto tempo dalla sua città (fu solo una trionfale tournée nel ’62 a riportarlo in patria): « Pietroburgo fu talmente parte della mia vita che ho quasi paura a rovistare oltre in me stesso, per timore di scoprire quanto di me le sia tuttora legato, perché questa è la città cara al mio cuore più di qualunque altra al mondo» (4)

Igor Strawinsky

Stravinsky a Clarens (1911)

L’ultimo periodo in Russia, nonostante un’altra malattia, ancora occasione di silenzio e riflessione, la passò a raccogliere melodie e testi popolari della sua terra. Ma già da qualche tempo Stravinsky aveva scelto Clarens in Svizzera come luogo di riposo: nel ritornarvi sul finire del 14 aveva presentito i fermenti che agitavano l’Europa. Lo scoppio della guerra lo trovò nel suo rifugio svizzero, ancora una volta a contatto con amici che non solo lo aiutavano ad andare avanti e a credere nella vita, ma sarebbero stati poi solidali compagni d’avventura.

L’incontro più importante di questo periodo è certo quello con Charles Ferdinand Ramuz, scrittore e poeta. Nacque dalle cose di tutti i giorni, dal pane e dal vino condiviso, nello sdrammatizzare il ruolo del poeta e del musicista «specialista», perché la musica come la poesia sgorga tutto, dall’amore per ciò che è vivo e vero.

Con la loro amicizia, come sempre accade, cominciò un lavoro gomito a gomito, quello di Renan delle Noces, alle prese con una lingua, come russa, così difficile da tradurre nel francese con i suoi accenti ritmici e le sue inflessioni. Ramuz intuiva «la possibilità di un lavoro in cui interne una benedizione e la collaborazione con Qualcuno, la possibilità di ritorno, di ritrovarsi». Fra i due si stabilì dunque un intimo accordo, un rapporto libero e sincero che Ramuz ha ricordato con molta commozione: «Quando parlavamo dei stri due paesi era davvero un unico paese, perduto poi ritrovato, perso di nuovo e poi ritrovato un istante, dove si ha in comune un Padre e i Madre, dove la grande parentela degli uomini intravvede per un momento. E tutte le arti t dono in fondo a riappropriarsene ».

Con Ramuz e altri amici Stravinsky, definitivamente tagliato fuori dalla Russia dalla rivoluzione del ’17, visse l’avventura dell’Histoire du soldat, che li unì nell’entusiasmo e nella speranza in tempi così difficili e calamitosi: pochi musicisti, attori e mimi, spese modestissime per uno spettacolo da fare girando per le piazze e i teatrini. Eppure ancora una musica nuova, unica e imprevedibile. E nemmeno la febbre spagnola che sconvolse tutti i progetti riuscì a cancellare quella solidarietà.

Alla fine della guerra Stravinsky riprese il suo pellegrinare per l’Europa. A Parigi il vecchio Diaghilev mai dimenticato gli propose un nuovo balletto su musiche «inedite» di Pergolesi. Si buttò dunque nella tradizione, non per tornare indietro, come lo accusavano, ma per proseguire il suo lavoro e il suo cammino: e sarà il Pulcinella del ’20. «La musica ci è data per mettere un ordine nelle cose, bisogna passare da uno stato anarchico e individualista a uno stato perfettamente cosciente, pieno di garanzie di vitalità e di durata ».

Edipo_reE ancora incontri che aprono la mente e il cuore, nella voglia di comporre, di comunicarsi. Fabio Picasso, Paul Valéry, Jean Cocteau che scrisse per lui il libretto dell’Oedipus rex, tradotto in latino da Jean Danielou. L’ambiente mondano di Parigi non lo contaminò: in pubblico appariva solo a dirigere o interpretare, come sempre più spesso gli veniva voglia di fare, le sue nuove composizioni.

Ma un altro grande fatto accadeva in quel periodo: il ritorno alla Chiesa e alla fede, dopo decenni di abbandono e freddezza: «Non -fu per ragionamento. Già da qualche anno prima della conversione avevo coltivato uno stato d’animo di accettazione, leggendo i Vangeli e la letteratura di argomento religioso. Tornai alla chiesa russa piuttosto che a quella romana, perché mi sentivo legato a quella lingua, a quelle preghiere che appartenevano alla mia infanzia» (5).

Nel 1939 una nuova guerra si abbatteva sul mondo mentre Stravinsky si trovava negli Stati Uniti. Lui rimase lì perché amava la pace e gli si prospettava una vita finalmente priva di preoccupazioni materiali. E che importa se si stabilì in una lussuosa villa a Hollywood? Era sempre l’inarrivabile e istancabile artigiano della musica, come amava definirsi, colui che scriveva-, adesso, alla gloria di Dio, ancora a provare nuove tecniche, nuovi linguaggi da far diventare completamente suoi.

Sempre più largo spazio ebbe da allora la musica religiosa, scritta con lo sguardo fisso all’icona del Cristo e il pensiero alla sua divinità. «Senza la Chiesa, lasciati alle nostre proprie forze, siamo depauperati di molte forme musicali. Per comporre musica sacra non occorre semplicemente essere credenti in figure simboliche, ma nella persona del Signore, nella persona del demonio e nei miracoli della Chiesa»

Nel 1962, con la seconda moglie (Catherine era morta da tempo) ebbe la gioia, nonostante i dissapori con il regime, di ritornare in patria, di rivedere la sua terra, la sua città dal volto e dal nome cambiati. Il lavoro poi continuò, sempre un passo dietro l’altro, anche nella vecchiaia, sostenuto da una forza che non gli apparteneva più, ancora confortato da incontri e amicizie, come quella del pittore William Congdon, del poeta Dylan Thomas, che morì con suo grande dolore pochi mesi dopo la loro conoscenza, di Robert Craft, luminoso testimone della grande ricchezza spirituale del maestro.

Il 6 aprile del ’71 a New York finì la sua vita terrena. Volle essere sepolto nel piccolo cimitero di S. Michele in Isola a Venezia, la città che tanto lo commuoveva e dove già riposava dal ’29 l’amico Diaghilev. Mentre era ancora in vita, un giorno gli era scivolata fuori da un libro che aveva con sé proprio l’icona di S. Michele: l’aveva interpretato come un segno a cui essere fedele. La morte lo condusse nella pace che ormai da anni guidava tutta la sua vita.

La sua opera

«L’opera compiuta si diffonde per comunicarsi e poi rifluisce verso il suo principio»

Quando si accosta all’opera di un musicista, la critica ufficiale si munisce di strumenti di analisi spesso raffinati, usa schemi e modelli di lettura codificati e ritenuti ormai consacrati dalla loro vasta diffusione, nonché applicabili a qualunque fenomeno musicale. Avviene insomma un tipo di lettura che possiamo definire «ideologica» in quanto pone in primo piano il proprio metro di giudizio rispetto all’opera viva e concreta dell’artista.

Se l’artista in questione appartiene al XX secolo e in particolare si chiama Stravinsky, una critica siffatta ha di fronte a sé un ostacolo insormontabile, per cui o escono giudizi stereotipi e immotivati, oppure converte il proprio metodo a favore di un incontro attento e reale con il musicista. Il concetto di parabola artistica «progressiva» e lineare non tiene con Stravinsky, come pure cadono per astrattezza le divisioni di comodo in generi, forme e periodi.

stravinskyIl ritornello che si sente ancor oggi appena si nomina Stravinsky, insegna anche al profano a dividere la sua produzione musicale in tre fasi, inspiegabilmente contrastanti fra loro, cui viene applicata un’etichetta di stampo politico-progressista che da questo risultato: prima fase, denominata «russa», con Stravinsky avanguardista, sperimentatore di nuove tecniche e dunque innovatore; seconda fase, detta «neoclassica», che vede, ahimè, l’autore volgere le spalle alla moda del progresso per accostarsi a modelli del passato, con atteggiamento allora reazionario; terza fase, «dodecafonica e seriale», per via della tecnica compositiva più in voga nel novecento, cui finalmente Stravinsky, con gran sollievo della critica, si converte per servire di nuovo il progresso.

In realtà, se ci lasciamo guidare dal musicista nel ripercorrere il cammino delle sue opere, scopriremo insufficiente e calata dall’alto simile periodizzazione. Vedremo in lui una forte e precisa identità, con una personalità libera nell’accogliere tutto ciò che incontra e riconosce come possibilità di positivo incremento della propria vita ed esperienza artistica.

Una visione del mondo che non censura nulla, lo portava ad essere affascinato e colpito dalle cose e dagli eventi che incontrava, in una genuina posizione di attesa che la verità si manifestasse, per poterla servire ed esprimere nella propria arte. In tal senso fu per lui naturale il rapporto con la musica popolare russa, la tradizione classica settecentesca, la tradizione religiosa, che fu in lui sempre più presente, determinando la genesi e lo stile delle opere succedute alla conversione.

Una conoscenza come stupore, un gusto per le cose senza preconcetti sta alla base del suo atteggiamento di ricerca che davanti a una scoperta non gli farà mai dire «bella cosa, però non c’entra con quel che voglio fare io», ma lo spingerà a prenderla con sé, vedendo in essa un dono inaspettato, certamente non programmato. In effetti, la sua musica non è determinata da un progetto o da una teoria a senso unico, ma da una serie di incontri con colleghi, amici, musicisti del passato, che riscopre con gioia, perfino con strumenti «rari» o generi musicali che gli capita di accostare.

C’è in Stravinsky, poi, una estrema libertà rispetto al genere e alla forma delle opere che man mano componeva, e infatti ogni pezzo è diverso dagli altri, utilizza tecniche e insiemi strumentali sempre differenti. Tale fenomeno non è così frequente tra i musicisti come si potrebbe pensare, e soprattutto oggi succede che, una volta trovata la «formula» di successo, il compositore la usi .come cliché di riproduzione per tutte le sue opere, coprendo con una abilità puramente tecnica vuoto di idee e mancanza di ricerca; tra i contemporanei, chi tenta di creare in ogni opera un fatto diverso è forse il tedesco K. Stockhausen, del quale Stravinsky si interessò.

Robert Craft, che fu suo segretario, afferma di lui che «è un uomo che fa, non uno che pensa … e il comporre è per lui un fatto naturale». Infatti, osserva Stravinsky, la teoria «nella composizione musicale non esiste, è una concezione posteriore in quanto esistono le composizioni, dalle quali poi la si deduce».

La sua reattività di fronte al fatto scontato, la sua in fondo pigrizia per gli studi e i procedimenti teorici, salvarono in lui la possibilità di composizioni assolutamente originali, sostenute da un profondo intuito. Così spiega la sua insoddisfazione giovanile per gli studi di armonia: «Ho sempre preferito e tuttora preferisco realizzare le mie idee e risolvere i problemi che si presentano nel corso del mio lavoro, esclusivamente con l’aiuto delle mie forze senza ricorrere a procedimenti prestabiliti che facilitano, è vero, il compito, ma che occorre prima studiare e poi ricordare… ero troppo pigro per un tal genere di lavoro».

Poste queste premesse, iniziamo il viaggio nell’Universo asistematico di Stravinsky, durante il quale troveremo sempre delle eccezioni, un succedersi di mondi a sé, casi unici che non si ripetono, governati da leggi proprie e inestensibili.

Se l’esperienza più forte in gioventù furono gli studi con Rimsky-Korsakov, che gli trasmise un gusto brillante e sontuoso per l’orchestrazione, tale influsso si fece sentire nelle prime opere: una Sinfonia in Mi b (1905-7) omaggio anche al sinfonismo di Glazunov, lo Scherzo fantastico (1907-8) dai colori strumentali quanto mai accesi, influenzato dal simbolismo di Maeterlink e soprattutto Feux d’artifice (1908), ove la tensione sonora è ancora più forte.

Questa prima fase di «apprendistato» culmina nella prima opera veramente originale, l’Oiseau de feu (1909-10), balletto commissionato da Diaghilev per la stagione dei «Balletti Russi» all’Opera di Parigi. Stravinsky provava una sincera ammirazione per la sua compagnia di ballo, che aveva dato un notevole impulso allo sviluppo di una moderna scuola, dando piena autonomia a questo genere di spettacolo, rimasto per secoli elemento secondario nell’opera teatrale. Il lavoro del compositore si svolgeva in stretto contatto con Diaghilev e il coreografo Fokin; del primo ammirava «il fiuto fuori classe, la straordinaria facoltà di cogliere di colpo la freschezza e la novità di un’idea, e di entusiasmarsene prima di ogni ragionamento; era anche di spirito molto assennato, tuttavia se spesso commetteva errori, vi era trascinato dalla passione e dal temperamento, due forze che lo dominavano».

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Tamara Karsavina e Mikhail Fokine nell’Uccello di Fuoco 1910

La prima rappresentazione a Parigi ebbe grande successo, Debussy in persona si congratulò con l’autore per la sua partitura, ove l’edonismo sonoro domina su tutto, con riferimenti esoterici per un racconto della tradizione russa. Vi si narra del principe Ivan che grazie a una penna d’oro donatagli da uno splendido uccello, riesce a distruggere l’incantesimo con cui il mago Katscei tiene prigioniere nel suo castello alcune fanciulle, tra cui la principessa da Ivan amata. Il protagonista vincitore è accompagnato da una musica serena, diatonica, cioè armonicamente più semplice del cromatismo esasperato che caratterizza la figura del malvagio Katscei, con sonorità aspre e cupe e ritmi irregolari, che richiedevano un notevole impegno ai ballerini.

Terminando la partitura dell’Oiseau, Stravinsky ebbe l’idea del Sacre, ma prima di abbordare tale lavoro, la cui realizzazione si presentava lunga e laboriosa, volle divertirsi con un lavoro orchestrale in cui il pianoforte avesse una parte di primo piano.

«Componendo questa musica avevo nettamente la visione di un burattino subitamente scatenato che, con le sue diaboliche cascate di arpeggi, esaspera la pazienza dell’orchestra, la quale a sua volta gli replica con le minacciose fanfare. Ne segue una terribile zuffa che, giunta al suo parossismo, si conclude con l’accasciarsi doloroso e lamentevole del povero burattino. Terminato questo bizzarro pezzo, per ore e ore, passeggiando sulle rive del Lemano, cercavo il titolo che esprimesse in una sola parola il carattere della mia musica e, di conseguenza, la figura del mio personaggio. Un giorno ebbi un sussulto di gioia. Petruska! L’eterno infelice eroe di tutte le fiere, di tutti i paesi! Era questo che volevo, avevo trovato il mio titolo!».

Le semplici e commosse parole dell’autore ci hanno descritto la genesi (come si vede per nulla ideologica) del secondo quadro di quello che, su insistenza entusiasta di Diaghilev, sarà il balletto in quattro quadri Petruska, completato nel 1911 ancora in stretta collaborazione con ballerini e coreografo. Si rivela in Stravinsky una unità concreta tra il fenomeno musicale e l’aspetto scenico del balletto, nel senso che la musica era subito sentita come movimento di danza determinando i contrasti ritmici, le scelte e le contrapposizioni strumentali.

Questo non è che un aspetto della concezione di unità della vita, segno della validità dell’autore. Le vicende passionali e drammatiche del burattino sono rappresentate con ironia affettuosa da una musica dirompente nel ritmo e nei colori, con armonie e melodie di stampo orientale semplicistiche e continuamente ripetute (come avveniva nel folklore russo), sovrapposte tra loro, creando effetti di dissonanza particolarmente nella parte pianistica, che ha anche un taglio percussivo.

Successivamente nel 1921, Stravinsky trascrisse per pianoforte solo, tre movimenti del balletto Danza russa, La casa di Petruska, La settimana grassa, che restano tra i pezzi più brillanti e difficili di tutta la letteratura pianistica del novecento.

Dopo la parentesi parigina, il musicista tornava in Russia per dedicarsi interamente al Sacre du printemps (La sagra della primavera) per il quale, anni prima, aveva visto nella sua immaginazione «lo spettacolo di un grande rito sacro pagano: i vecchi saggi, seduti in cerchio, che osservano la danza fino alla morte, di una giovinetta che essi sacrificano per rendersi propizio il dio della primavera ». Diaghilev pensò subito di affidare la coreografia del lavoro all’ottimo ballerino e mimo Nijinsky, il quale si rivelò tuttavia incapace del nuovo compito, soprattutto per la completa ignoranza degli elementi della musica (con grande disperazione di Stravinsky che tentava inutilmente in ogni modo di insegnargli qualcosa).

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Sacre du printemps, spartito

I ballerini erano costretti a un superlavoro spesso caotico per rendere i movimenti ritmici e a tale pressapochismo nella preparazione l’autore attribuisce il fiasco che il balletto ottenne alla prima del 28 maggio 1913 al Teatro dei Champs-Elisées di Parigi, ove la musica pur imponente veniva coperta dal tumulto ostile del pubblico. «Componendo il Sacre, mi raffiguravo l’aspetto scenico dell’opera come una serie di movimenti ritmici di estrema semplicità, eseguiti da compatti blocchi umani, di effetto immediato sullo spettatore, senza minuzie superflue e complicazioni che tradissero lo sforzo.

Soltanto la Danza sacra finale era destinata a una sola danzatrice. La musica di questo pezzo, netta e definitiva, esigeva del pari una coreografia semplice e facilmente comprensibile. Ma qui Nijinsky la complicò. E infatti, non è segno di incapacità il rallentare incoscientemente il tempo della musica per poter comporre passi complicati i quali in seguito diventano ineseguibili al tempo prescritto? ».

L’opera è ora senza dubbio la più importante musica del novecento, anche per la sua popolarità dovuta alle numerose esecuzioni concertistiche e incisioni discografiche, ed è comunque un impegnativo banco di prova per ogni direttore che si accinga a tener testa a un’orchestra nella quale si scatenano masse sonore genialmente contrapposte in senso spaziale e timbrico; ritmi ora meccanici (l’orchestra si trasforma in un grande orologio) ora irregolari, sovrapposti e con accenti diversamente distribuiti che lacerano di continuo il discorso; intensità da un pianissimo degli archi battuti sulle corde dei violini, all’improvviso fortissimo dei fiati esasperato dalle dissonanze e dal farli suonare ai limiti della loro estensione.

Nessuno, neppure Stravinsky stesso, è riuscito a contenere con tale sapienza e perfezione lo scatenamento delle forze sonore, né ha saputo creare una pagina più autentica negli anni seguenti.

Dopo aver completato nel 1914 col II e III atto l’opera Le Rossignol (iniziata prima déll’Oiseau), inizia la composizione delle Noces fino al 1917, la cui veste strumentale sarà definita solo nel 1923 quando, dopo aver pensato prima a una grande orchestra poi a un insieme di strumenti meccanici, vide come «l’elemento vocale, vale a dire soffiato, sarebbe stato sostenuto nel miglior modo da un complesso costituito unicamente da strumenti a percussione a suoni determinati e non determinati».

Stravinsky_direttoreIn quegli anni componeva pure raccolte vocali per voce e strumenti, frantumando così l’orchestra in piccole formazioni e usando gli strumenti fuori dagli schemi tradizionali nelle meno usuali possibilità sonore, segno ancora di una genuinità ed espressività scevra da ogni traccia di abitudine.

Da ciò nasce nel 1917 la «burlesca cantata e suonata Renard, in cui Stravinsky fa uso del cimbalon ungherese, sentito suonare in un ristorante di Ginevra e di cui subito si innamorò, dandogli nel lavoro un ruolo di primo piano: ancora una volta è un incontro, per i non musicisti «banale», a determinare la scrittura di un pezzo

L’incontro e la collaborazione con C. Ramuz, e ancora una volta con la tradizione della fiaba russa di Afanasiev, diedero vita a quel gioiello che è l’Histoire du saldat (1918). I sette strumenti rappresentativi delle varie famiglie (archi, legni, percussioni) nei registri acuto e grave, furono scelti per la ragione contingente di dover portare in giro per l’Europa colpita dalla guerra un teatro ambulante su cui rappresentare le vicende di uno sfortunato soldato che si innamora di una principessa, e tuttavia cade vittima del diavolo che alla fine lo porta via con sé.

Malgrado la povertà dei mezzi e l’uso nella partitura di canzonette, marce, ragtime, l’opera testimonia ancora il non rifiuto di Stravinsky a servirsi di materiali «poveri» per creare capolavori che molti anni dopo i vari Brecht, Weill, Eisler e Dessau non egua-glieranno.

In quegli anni faceva la sua apparizione in Europa il jazz, che spinse il sempre attento Stravinsky a trasferirne alcune caratteristiche nella Piano rag music del 1919, nel Ragtime per undici strumenti e nell’Ottetto del 1932.

Stravinsky_PulcinellaNel 1919 scopre nel settecentesco napoletano Pergolesi «un musicista per il quale aveva sempre provato una simpatia e una tenerezza singolari … La sua musica mi era sempre piaciuta per il suo carattere popolare e per il suo esotismo dì tipo spagnolo». Fu questo amore che lo spinse a trarre da alcuni manoscritti incompiuti, rinvenuti da Diaghilev, le musiche per il balletto Pulcinella, che fu per Stravinsky motivo di gioia nello scoprire «una prossima parentela spirituale e sensoriale» con Pergolesi, mentre per la critica, occasione per lanciare anatemi tipo «dissacratore» o «reazionario».

Dopo la briosa opera in un atto Mavra (1922), il grande oratorio Oedìpus Rex (1927) su testo latino, l’altrettanto monumentale balletto su tema classico Apollon Musagète (1927) e l’affettuoso omaggio a Ciaikovsky nel Baiser de la Fée (1926), nel 1930 giungiamo alla prima opera profondamente religiosa e dettata dalla recente conversione al cristianesimo.

La Symphonie de Psaumes composta per il 50° anniversario della Boston Symphony Orchestra utilizza «un complesso corale e strumentale in cui i due elementi si trovino allo stesso livello, senza alcun predominio dell’uno sull’altro … Il mio punto di vista coincideva con quello dei vecchi maestri della musica contrappuntistica … Quanto alle parole, le cercai in testi creati in modo particolare per essere cantati… la prima idea fu di ricorrere al salterio».

Vi è ricreato un genuino spirito di preghiera, senza alcun «aspetto etnografico, storico o pittorico»: gran parte del pubblico restò perplessa e si rivelò dunque «incapace a spiegarsi la ragione da cui ero stato determinato e che non destava alcun eco nella sua mentalità».

Da questo momento numerose sono le composizioni di carattere religioso, ignorate o non spiegate dalla critica ufficiale. Tra esse la Messa del 1948 per soli, coro e insieme di strumenti a fiato «composta non per esecuzione concertistica, ma per l’uso in chiesa. È liturgica e senza ornamenti (virtuosismi che .ne intaccherebbero il carattere raccolto). Musicando il Credo ho voluto solo preservare il testo in modo particolare; è una sorta di contatto con Dio. La musica liturgica è praticamente scomparsa, la tradizione perduta», per questo la Messa di Stravinsky è un unicum nella musica d’oggi.

Altra grande opera è il Canticum sacrum del 1955 per tenore, baritono, coro e orchestra, in cui si fa uso della tecnica dodecafonica ideata decenni prima da Schònberg e ripresa da Stravinsky in modo tutto personale.

Fra i lavori per balletto, ricordiamo ancora leu de cartes (1937), Orpheus (1948), Agon (1957); nel 1952 compone una stupenda Cantata su testi poetici di anonimi inglesi del XV e XVI secolo.

Rake's_progressL’unica grande opera teatrale di Stravinsky, caso a sé nella sua produzione e di tutto il novecento è Rake’s progress (in italiano «La carriera di un libertino» su testo del poeta americano Auden; il rifarsi a Rossini, Verdi, Mozart e in generale alle forme chiuse settecentesche quali arie, duetti, trii, concertati, ne fanno un capolavoro che, se analizzato col metro (tendenzioso) del progresso, va certamente dimenticato, mentre se accostato col desiderio di ascoltare musica per cogliere l’umano che c’è oltre il segno scritto ed eseguito, si rivela occasione per un incontro inaspettato, come tutta la musica di Stravinsky

La sua eredità

«Non mi interessa il fenomeno musica se non in quanto proviene dall’uomo totale»

 «La mia convinzione è che il pubblico, nella sua spontaneità, si dimostri sempre più sincero di coloro che si erigono professionalmente a giudici delle opere d’arte» (1)

In effetti la critica musicale fino ad oggi non ha reso giustizia alla grande ricchezza musicale, specchio fedele di una grande ricchezza umana, che Stravinsky ci ha lasciato: per questo motivo conviene innanzitutto dire qualcosa sui giudizi che oggi si sentono più frequentemente sul compositore russo.

La critica musicale contemporanea, come tutta la critica artistica, usa un metodo di lettura molto limitato: vengono giudicate solamente le scelte formali, in particolare quelle linguistiche, operate dall’autore nel comporre, ove per scelte linguistiche si intendono appunto quelle relative al linguaggio, allo stile usato nella composizione. In particolare un’opera oggi viene ritenuta tanto più valida quanto più il linguaggio usato è nuovo e si distacca dal passato.

È questa una sorta di lettura scientista della musica, che come ogni altro metodo scientista può servire alla conoscenza della realtà solo se nell’usarlo si è consapevoli della sua parzialità e limitatezza: nel momento stesso in cui lo si eleva ad unico ed esauriente metro di conoscenza e di giudizio, scambiando un aspetto della realtà per la realtà tutta intera, si genera la menzogna.

Proprio questo è quanto è avvenuto ed avviene tuttora nei riguardi di Stravinsky: mentre da una parte c’è la comune ammissione della grandezza della sua opera, tanto è vero che è l’autore del nostro secolo più eseguito e più imitato fino ad oggi, i giudizi della critica su di lui sono sempre stati molto imbarazzati e sostanzialmente negativi, dato che, basandosi sui criteri sopra accennati, Stravinsky viene ad essere considerato un conservatore, poiché in ogni sua opera si rifà troppo alla tradizione, ad eccezione però della Sagra, dove invece appare grande innovatore.

Al di là della evidente insufficienza di un tale giudizio, che segna un confine troppo arbitrario fra male e bene, permettendosi addirittura di «salvare» dalla condanna un’opera certamente originale, ma che non può essere isolata dalle altre, precedenti e posteriori, è lo stesso Stravinsky che chiarisce la sua posizione, la più corretta a nostro avviso, circa le ormai sfruttate etichette di conservatore o progressista quali unico criterio valido di giudizio: «… Questi termini sono stati caricati dì significati così diversi, che non vi aspetterete da me una presa di posizione in una così vasta disputa, la quale si risolve, in definitiva, in una questione di parole» (2).

In effetti non si arriva a comprendere interamente la realtà se si parte da schemi conoscitivi precostituiti, giacché la conoscenza dell’oggetto si ridurrà al tentativo di ricondurre quest’oggetto nelle categorie affermate a priori. Il metodo corretto viene invece dettato dall’oggetto stesso, che deve essere rispettato per quello che è in tutti i suoi aspetti. In particolare, è sbagliato giudicare la musica di Stravinsky, così come quella di qualsiasi altro autore, senza cercare di scoprire in essa la persona, la grande umanità di Stravinsky stesso, da cui prende origine la ricchezza della sua produzione.

Ad un ascolto cordiale e sincero Stravinsky mostra subito i caratteri della sua personalità, una personalità molto forte, un’identità capace di rapportarsi con libertà a tutta la realtà circostante senza smarrirsi in essa, ma nemmeno cercando di servirsene per i propri schemi intellettuali, una umanità capace, quindi, di rispettare profondamente e di valorizzare ogni oggetto, ogni incontro, ogni esperienza.

Prendiamo ad esempio il rapporto che Stravinsky aveva con la tradizione russa, un rapporto ostacolato dal fatto che il compositore passò quasi tutta la sua vita all’estero, in un esilio non certo volontario. Nonostante questa lontananza egli ha ben presente i caratteri della tradizione della sua patria, che traspaiono perciò dalle sue composizioni non solo rispettati interamente nella loro ricchezza, ma anzi rinnovati e valorizzati dalla sua geniale sensibilità umana ed artistica.

D’altra parte Stravinsky stesso è uno dei pochi che parlano ancora del valore della tradizione nel panorama musicale del novecento: «La tradizione è cosa ben diversa da un’abitudine, sia pure ottima, poiché l’abitudine è per definizione un acquisto inconscio che tende a diventare macchinale, mentre la tradizione si definisce in un’accezione consapevole e volontaria» (3) «Una vera tradizione non è la testimonianza di un passato concluso, ma una forza viva che anima e informa di sé il presente. In tal senso è vero il paradosso per cui si afferma scherzosamente che tutto ciò che non è tradizione è plagio… » (4). E ancora: «Un rinnovamento è fecondo solo quando va di pari passo con la tradizione. La dialettica viva vuole che rinnovamento e tradizione si sviluppino e si rafforzino in un processo simultaneo» (5)

Appare a questo punto più evidente come la lettura linguistica della musica; di cui si diceva all’inizio, si riveli ampiamente insufficiente, oltre che inesatta, nel giudicare Stravinsky un conservatore per il suo costante rapporto con la tradizione della sua terra. Ma la critica ricade in questo stesso errore di .valutazione nel giudicare discontinuo ed astorico l’uso che Stravinsky fa dei vari linguaggi musicali, da lui mutati in così grande numero nel lungo arco di tempo in cui compose.

A Stravinsky non interessa innanzitutto quale linguaggio usare nel comporre musica, ma piuttosto ha profonde ragioni per comporla: «Un sistema tonale o popolare ci è dato soltanto per raggiungere un certo ordine, e cioè, in definitiva, una forma, la forma in cui sfocia lo sforzo creativo »  (6)

In realtà lo scrivere musica per Stravinsky è molto meno problematico di come lo è per tanti autori contemporanei, in quanto si tratta semplicemente di comunicare al prossimo delle idee o dei valori a partire da sé, dalla propria persona in rapporto con la realtà, servendosi quindi dei vari stili che più sembrano adatti al momento e ponendosi come unico problema quello di essere il più possibile sincero verso di sé e verso gli altri.

Ed essendo la sua intera persona il punto di origine della sua musica, gli stessi linguaggi, così differenti fra di loro, nelle mani di Stravinsky trasfigurano, si rinnovano trasformandosi in strumenti di espressione della sua personalità, che perciò appare riconoscibile in ogni sua opera, dalla neoclassica alla dodecafonica, anche in virtù di alcuni elementi formali ricorrenti, come ad esempio una grande vivacità ritmica ed un uso tutto particolare delle varie sezioni orchestrali.

A questo proposito occorre aggiungere che certamente non mancano in Stravinsky il rigore, la tecnica senza dei quali non si hanno i mezzi materiali per creare un’opera d’arte, ma il punto è che egli usa di questi mezzi, se ne serve con grande libertà per giungere allo scopo di comunicare col prossimo. «Comunione» è proprio la parola più adatta ad indicare quel tipo di rapporto che Stravinsky ha con tutta la realtà, quell’atteggiamento valorizzatore, innovatore ma al tempo stesso rispettoso nei confronti della tradizione e dei vari linguaggi -musicali così come del prossimo, del pubblico.

Anzi, è Stravinsky stesso che, andando contro la cultura dominante allora come oggi, usa questo termine: «L’opera compiuta si diffonde per comunicarsi e rifluisce infine verso il suo principio. Allora il ciclo si chiude. Ed è così che la musica ci appare come un elemento di comunione con il prossimo e con l’Essere» (7).

Stravinsky tiene in grande considerazione il rapporto col pubblico, come appare chiaramente da quest’ultimo brano citato, proprio perché, partendo dalla sua umanità, la sua musica vuole arrivare al cuore di ogni altro uomo che sappia ascoltarla ed accoglierla, e d’altra parte si rende anche conto di vivere in un’epoca che ostacola proprio questo tipo di rapporto fra artista e pubblico, censurandolo a livello culturale e cercando di mortificarlo con l’uso di mezzi di comunicazione anonimi e spersonalizzati quali la radio, la televisione, il disco: «L’epoca contemporanea ci offre precisaniente l’esempio di una cultura musicale in cui si perdono di giorno in giorno il senso della continuità e il gusto della comunione» (8)

«II capriccio individuale, l’anarchia intellettuale che tendono a governare il mondo in cui viviamo isolano l’artista dai suoi simili e lo condannano ad apparire agli occhi del pubblico come un mostro: un mostro di originalità, inventore del suo linguaggio, del suo vocabolario e dell’apparato della sua arte (…) che diventa davvero unica, nel senso che è incomunicabile e chiusa da ogni parte » (9).

Libertà è il termine fino a qui più ricorrente nel descrivere il carattere di Stravinsky uomo e compositore, ma il semplice ascolto della sua musica ne suggerisce altri altrettanto veri: l’impressione di trovarsi di fronte ad una persona capace di stare al mondo in armonia con la realtà, capace di comporre con il gusto di farlo è immediata, ma più di ogni altra cosa colpisce l’umorismo, talvolta l’ironia di chi riesce a prendere le giuste distanze dalle cose quando occorre ridimensionarle alla loro effettiva importanza, ed a questo proposito è giusto ricordare che il senso dell’umorismo è una dote normalmente tanto disprezzata quanto rara nei compositori contemporanei.

Ma questa capacità di sorridere, questo gusto, questa libertà, in una parola questa creatività ha una solida radice nella concezione che Stravinsky ha di sé « Creatura io stesso, come posso non provare il desiderio di creare? A che cosa risponde questo desiderio di creare e come farò ad estrinsecarlo? » (10)

Ed infine, questa coscienza di essere creatura, questo senso di dipendenza da un Altro definiscono più di ogni altra cosa la personalità di Stravinsky, come uomo e quindi come compositore, spingendolo incessantemente a cercare dì rispondere alla sua vocazione umana ed artistica e ritornare così all’Infinito, all’Essere, principio e fine di ogni espressione umana: «La questione essenziale che preoccupa il musicista, come del resto ogni uomo che sia animato da un impulso spirituale, si riduce sempre e necessariamente alla ricerca dell’Uno attraverso il molteplice »  (11).

La grande eredità che lascia deriva dalla sua capacità di comunicare oggi con noi che l’ascoltiamo e di stimolarci a vivere quella creatività e quella comunione con la sua musica «forza viva che anima e informa di sé il presente».

Note

«LA SUA VITA»

1) IGOR STRAVINSKY e ROBERT CRAFT, Colloqui con Stravinsky, Torino 1977, p. 113

2) Op. cit., p. 239

3) Op. cit., p. 261

4) Op. cit., p. 247

5) Op. cit., p. 264-265

6) Op. cit., p. 90

«LA SUA OPERA»

1) IGOR STRAVINSKY e ROBERT CRAFT, Colloqui con Stravinsky, Cit., p. 6

2) IGOR STRAVINSKY Cronache della mia vita, Milano 1947, p. 48-49

3) Op. cit.,  p. 66-67

4) Op. cit.,  p. 70-71

5) Op. cit.,  p. 70

6) Op. cit.,  p. 90-91

7) Op. cit.,  p. 159

8) Op. cit.,  p. 134

9) Op. cit.,  p. 229

10) Op. cit.,  p. 231

11) Nota al disco Columbia

«LA SUA EREDITA’»

1) IGOR STRAVINSKY Poetica della musica, Milano 1970, p. 78

2) Op. cit.,  p. 71

3) Op. cit.,  p. 51

4) Op. cit.,  p. 51

5) Op. cit.,  p. 105

6) Op. cit.,  p. 39

7) Op. cit.,  p. 124

8) Op. cit.,  p. 65

9) Op. cit.,  p. 65

10) Op. cit.,  p. 44

11) Op. cit.,  p. 123

 

Un rapporto miracoloso

W_CongdonTestimonianza di William Congdon

Io  non parlo mai di Stravinsky, il nostro rapporto era talmente miracoloso, che per me parlare di lui sarebbe un tradimento. Ma nemmeno per un uomo sposato è possibile essere intervistato su sua moglie. Non si può parlare.

Il mio rapporto con Stravinsky è il mio rapporto con la pittura, io sono la mia pittura; non ho mai fatto niente, nella mia vita, da una posizione «oggettiva», come  «davanti a…». Non tocco nulla se non lo assumo dentro di me, dentro la mia intuizione poetica e diventa allora strumento creativo.

Stravinsky e Maritain sono stati i due più grandi rapporti della mia vita, così ontologici che parlare di loro è parlare dì me stesso.

Ciò non toglie che ci siano dei fatti oggettivi in questo rapporto, anche se non sono io che faccio una intervista su Stravinsky, ma è lui dentro di me.

Lo lo ho visto poco, ma per Dio non c’è tempo. Dopo la sua morte ho scritto a Robert Craft una lettera, dicendogli che aveva una responsabilità: prolungare la vita di Stravinsky e viverne la resurrezione. Questa lettera ha talmente colpito Craft che ne ha alterato la vita. Egli mi diceva: «Tante persone Stravinsky ha visito, ma con nessuna ha avuto un rapporto come lo ha avuto con te ».

Questo rapporto è.al centro dell’anima, del cuore, dove c’è l’intuizione creativa. Per questo il mio rapporto con lui è uguale al mio rapporto con me stesso come artista.

Anche lui, misteriosamente, in me aveva lo stesso rapporto. Ha trovato se stesso. Si tratta di un rapporto intuito talmente intimo che io non ho mai espresso a lui ciò che veramente era per me. Solo una volta gli ho scritto una lettera. Ne sono sempre stato geloso, volevo sem­pre vederlo da solo; era il dramma che io vivevo e forse anche lui.

I tre momenti più vissuti insieme del nòstro rapporto furono nel ’52, quando ci conoscemmo, nel ’57, quando eravamo insieme a Venezia, e il suo funerale fu la conferma di tutto da parte di Dio.

Quando ci siamo conosciuti era ad una mia mostra a Venezia. Mi dicevano che Stravinsky veniva tutti i giorni a vedere i miei quadri e gli piacevano molto. Erano colori come.la sua musica. Ci siamo conosciuti e visti subito dopo a Lisbona, dove mi aveva dato appuntamento.

L’incontro successivo fu a Venezia. Passammo insieme molte giornate. Lui mi portava nella sua camera, dove iniziava a spiegarmi perché componeva la sua musica «verticale». lo non capivo niente, ma lui aveva bisogno di dirmi, di farmi partecipare. E questo si ripeteva ogni sera, per non so quanto tempo.

Nel ’59 io entravo nella Chiesa e Stravinsky a New York mi difendeva contro chi diceva che il mio dono così grande sarebbe stato senz’altro sprecato, poiché entravo nella Chiesa e non ne sarei più uscito. Ero geloso di lui; quando fece a Venezia il concerto del «Canticum Sacrum», io non andai a sentirlo, non avrei potuto sopportare di vederlo in mezzo a tanta gente. Se fosse stato solo sarei andato.

Il terzo momento importante furono i funerali: da cinque anni non vedevo Stravinsky. Non mi confidavo molto con lui (stranezze del periodo della mia conversione). È stato un dolore terribile, quando ad Assisi ho saputo della sua morte, così tremendo che non sono potuto stare un momento senza andare da lui, stare col suo corpo.

Ma non riuscivo a rintracciare l’albergo, a New York, e quando seppi che il funerale era a Venezia fui consolato.

Ero più dei suoi figli per lui (aveva difficoltà con loro che non accettarono le sue seconde nozze); è stato un rapporto di frammenti, briciole, ma era un tutto.

Il primo pezzo eseguito dopo la sua morte fu la messa. Quando Craft nel Credo sentì la parola «resurrexit» fu invaso e colpito da una gioia così grande che è impossibile spiegare; questa esperienza ha cambiato la sua vita. Dio già si serviva di Stravinsky. C’era la presenza dell’opera di Dio nell’anima di Stravinsky.

Ispirazione: cosa voleva dire questo per Stravinsky? Non ne voleva sentir parlare. Ci sono due livelli di ispirazione, due modi di intendere. Il primo modo è riconoscere che è data da Dio («non parlarmi di ispirazione, io lavoro» — diceva Stravinsky), il secondo modo è romantico-carnale: non si lavora se non c’è «ispirazione».

Stravinsky, avendo venerazione per l’ispirazione, non ne parlava mai perché l’ispirazione era per lui uguale all’intuizione creativa.

È una sofferenza per me ricordarlo, vorrei vederlo tra un’ora, sento molto la sua mancanza. È come parlare di mia madre, dì mia moglie … era tutto per me.

Quando c’è un rapporto così profondo, non c’è bisogno di dire nulla. Difatti tante cose non gliele ho mai chieste: ne sapevo già la risposta.

Stravinsky è stato fedele al dono ricevuto

DISCOGRAFIA

L’oiseau de feu – dir. Boulez CBS 76418 / dir. Stravinsky CBS 72046

Petruscka – dir. Boulez CBS 73056 / dir. Stravinsky CBS 72055

Sacre du printemps – dir. Boulez CBS 72807 / dir. Stravinsky CBS 61511

Le rossìgnol – dir. Stravmsky CBS 61545

Tre movimenti da Petruscka – pf. Pollini  DG 2530 225

L’histoire du soldat – in francese DG 2530 590 / trad. italiana ARS NOVA

Ragtime, ottetto e musica da camera – DG 2530 551

Messa / Les noces – dir. Bernstein DG 2530 880

Pulcinella / Orpheus / Le baiser de la Fèe / Agon – dir. Stravinsky 3LP CBS/E 77376

Sinfonia di salmi – dir. Stravinsky CBS 72 181 Oedipus rex – dir. Bernstein CBS 76380

Canticum sacrum {+ altri brani del 900) – dir. Maderna TELEFUNKEN 2LP EK 48066/1-2

BIBLIOGRAFIA

IGOR STRAVINSKY  E ROBERT CRAFT, Colloqui con Stravinsky, Torino, 1977.

IGOR STRAVINSKY, Poetica della musica, Milano, 1970.

IGOR STRAVINSKY, Cronache della mia vita, Milano, 1949.

ROBERT SIOHAN, Stravinsky,  Paris, 1959.