Arthur Rimbaud

Strumenti culturali di Litterae Communionis n.2

 I GRANDI DELLA CULTURA MODERNA RIVISITATI

Arthur_Rimbaud

«Io! Io che mi ero detto mago o angelo, dispensato da ogni morale, eccomi riportato al suolo, con un dovere da cercare, e la realtà rugosa da stringere!»

Testo di Giuseppe Frangi e Silvano Petrosino

Traduzione delle poesie di Antonio Galli

Gli autori ringraziano Mirella Bocchini per le preziose indicazioni

La sua vita

«… fiero di non avere né paese, né amici».

Era nato a Charleville, una cittadina delle Ardenne adagiata sulle sponde della Mosa; a Charleville aveva anche trascorso senza troppi patemi la propria infanzia nonostante sin dal 1860 il padre si fosse allontanato da casa e avesse così lasciato l’intero destino della famiglia nelle ferme e energiche mani della moglie Vitalie; a scuola poi, da autentico «enfant prodige», aveva iniziato a dieci anni a comporre esametri latini per trovarsi a quindici coperto di riconoscimenti e di premi.

Che quella sua precoce e straordinaria intelligenza gli attirasse la diffidenza e l’antipatia di molti non lo preoccupava più di tanto: Arthur Rimbaud aveva infatti dalla sua parte anche persone, come il suo professore di retorica Izambard, disposte a capirlo e ad incoraggiarlo e sapeva soprattutto di poter contare sul proprio spirito di indipendenza per tagliare al momento debito i ponti con la sua cittadina natale.

CharlevilleDel resto pur così giovane, in cuor suo aveva già emesso un’inappellabile sentenza nei confronti del piccolo mondo borghese dell’«atroce Charlestown, la ville superiorement idiote entre les petites villes de province»; e di quella sentenza avrebbe dovuto fornire una prima formulazione fuggendo di casa, alla volta di Parigi, non ancora sedicenne nell’agosto 1870.

Scriveva intanto e inviando il 24 maggio di quello stesso anno tre sue poesie, tra cui la meravigliosa Ophélie, a Théodore de Banville direttore del Parnasse contemporain fremeva nell’attesa che qualche superiore evento piegasse finalmente il suo destino verso la grande capitale francese.

Di sicuro gli echi della Comune nella primavera successiva non potevano toccare solo di striscio il giovane ribelle di Charleville: s’è anzi parlato, o meglio ne ha parlato lui stesso in una lettera, d’un suo proposito e d’un suo desiderio d’arruolarsi tra gli insorti; nessuno tuttavia è in grado oggi d’affermare con certezza cosa abbia veramente fatto di quel suo desiderio e di quel suo proposito: si può solo contare su di un vuoto di notizie tra il 17 aprile e il 13 maggio, su testimonianze verbali che l’avrebbero voluto in quei giorni a Parigi e, soprattutto, su d’una poesia inviata a Izambard, poesia che sin dal titolo, (Le coeur supplicié o Le coeur vote) faceva esplicito, sconsolato riferimento a violenze subite forse proprio tra i battaglioni comunardi.

S’era trattato insomma d’una adesione emotiva che per quanto appassionata, non risultava certo tale, comunque, da ricondurre la sete d’assoluto di Rimbaud dentro i limiti ideologici della Comune: anzi, quasi per disperdere ogni dubbio al proposito, il 15 di quel mese di maggio datava la sua lettera programmatica, la celebre lettera del veggente («II Poeta si fa veggente per mezzo d’un lungo, immenso ragionato sregolarsi di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; cerca lui stesso, esaurisce in se stesso tutti i veleni per conservarne soltanto le quintessenze», affermava tra l’altro su quei fogli, scardinando così per principio ogni ipotesi storica e politica).

Nella successiva estate, l’ultima passata nella pace di Charleville, il cammino poetico di Rimbaud toccava intanto il vertice: a luglio stendeva Les Premières Communions, una lunga poesia dettata dal suo furore anticattolico, mentre a settembre risaliva il suo capolavoro, il celebre Bate au Ivre; quel mese di settembre doveva comunque risultar decisivo anche per un altro motivo: aveva infatti inviato per far conoscere i propri lavori, una lettera a Paul Verlaine, uno dei più famosi poeti francesi di quei giorni, e Verlaine, profeticamente colpito da quei versi, gli aveva subito risposto rivolgendogli questo felice invito: «Vieni cara e grande anima, vi chiamiamo, vi aspettiamo».

Rimbaud partì senza punto esitare alla volta di Parigi: qui per nulla intimorito dai grandi nomi presso i quali l’autorità di Verlaine l’aveva introdotto, riuscì col suo comportamento rissoso e insolente a inimicarseli tutti nel breve volgere d’un paio di mesi; i tempi della sua permanenza parigina bruciavano così con imprevista rapidità e la sua insofferenza e il suo disprezzo nei confronti di ogni ambiente culturale e letterario, compreso quello più libero e spregiudicato dei poeti parnassiani, toccava presto il limite di guardia: Verlaine, infatti, nel febbraio successivo già non era più in grado di trovar qualcuno disposto ad ospitarlo e Rimbaud stesso decise, tra la sorpresa generale, di levare il disturbo e di tornare a Charleville.

Nulla meglio delle parole del più anziano poeta ci raccontano del Rimbaud di quei mesi parigini, del suo viso d’angelo in esilio, dei suoi capelli castani arruffati, del suo accento contadino troppo rapidamente perduto, delle sue mani che, invece, crescendo dovevano assomigliare più a quelle di un contadino che a quelle d’un poeta; e nessuno del resto più di Verlaine doveva restargli ostinatamente fedele, fedele al punto di incrinare i suoi rapporti con la famiglia e la moglie pur di seguire le folli intemperanze del suo giovane amico; fedele nonostante il suo carattere in genere lo mantenesse in un’eterna indecisione, in uno stato di estenuata incertezza. Così se toccava a Rimbaud di rifarsi vivo per un nuovo e del tutto appartato soggiorno a Parigi, nel luglio ’72 era Verlaine a seguirlo a Bruxelles e poi a Londra.

RimbaudQui Rimbaud, messa in second’ordine la poesia, s’era buttato in un’opera in prosa, la «relation d’un combat spirituel» da cui, come lui stesso s’era trovato a confessare, sarebbe dipeso il suo destino: si trattava della celebre Une saison en enfer (Una stagione in inferno), la quale però, per giungere a totale compimento, doveva attendere che anche l’amicizia con Verlaine si consumasse definitivamente; doveva cioè attendere che nell’estate del ’73, il poeta parigino, scosso dalle continue assillanti minacce della moglie e della famiglia ed esasperato dall’atteggiamento via via più provocatorio e insolente del suo giovane amico, decidesse improvvisamente di lasciare Londra.

Solo allora Rimbaud tentava di salvare la situazione prima rincorrendo Verlaine sin sul molo, poi scrivendogli una straordinaria e appassionatissima lettera (Ritorna, ritorna, amico mio, caro, unico amico, ritorna… Ricominceremo a vivere qui, coraggiosamente, pazientemente… »); in verità, lui stesso sentiva d’aver fatto terreno bruciato anche di quell’esperienza e di dover quindi lasciar che la vicenda rotolasse verso il suo drammatico, infuocato epilogo di Bruxelles (Verlaine sparava al suo giovane amico e veniva condannato a due anni di carcere).

La Saison poteva così giungere a conclusione nell’agosto del ’73: in quella data Rimbaud consegnava infatti il manoscritto ad un editore di Bruxelles; mai era prima accaduto che il giovane di Charleville si fosse preso premura di mandare alle stampe un proprio testo il fatto che se ne incaricasse ora si spiega con importanza da lui assegnata a quell’opera che già sentiva come testamento poetico e spirituale.

Infatti nel frattempo un’altra stagione, la sua stagione creativa, stava arrivando a conclusione: non ancora ventenne, Rimbaud s’apprestava ad abbandonare carta e matita per intraprendere lui, grande cantore del «Battello ebbro», un faticoso quanto vano e interminabile peregrinaggio.

Aveva cominciato nel 1875 col toccare Stoccarda e scendendo quindi nell’aprile a Milano dove, malato e indebolito, veniva raccolto e ospitato per qualche giorno da una vedova; dei viaggi dei due anni successivi non s’hanno sufficienti notizie: solo si sa che di tanto in tanto faceva comparsa a Charleville per aiutare i suoi nella mietitura, che nel ’78 s’era recato a Cipro per dirigere i lavori di una cava di pietra, che nel ’79 aveva invece raggiunto l’Oriente.

Viaggiava per lo più a piedi (memorabile ad esempio risulta il racconto lasciatoci in una lettera, della sua traversata invernale del San Gottardo tra la bufera e montagne di neve); viaggiava, altrimenti, con mezzi di fortuna e, quasi che quell’inestinguibile «soif», quella «soif» di mistico senza pace che l’aveva trascinato nella sua breve stagione poetica, anziché estinguersi, avesse solo mutato di modalità e forme, non si concedeva mai tregua, mai il tempo di un respiro.

Rimbaud_Aden

Rimbaud ad Aden

Sembrava quasi dovesse espiare una colpa nei  confronti  dell’esistenza e della vita o che, addirittura, una volontà superiore avesse fatto del suo destino la strada per consegnare al mondo un fondamentale messaggio; sulla sua stagione letteraria comunque aveva fatto scendere la cortina del più rigoroso silenzio, tanto che Paul Verlaine, domandando nel ’75 ad un amico comune notizie riguardo alle ultime fatiche di Rimbaud, così s’era sentito rispondere: «I suoi versi? E’ molto tempo che la sua vena tace; suppongo persino che non si ricordi assolutamente più d’averne scritti!».

Nel frattempo, tra tanto non più ricostruibile peregrinare, Rimbaud intraprendeva, nel marzo 1880, il viaggio decisivo; decisivo non perché contasse, al contrario dei precedenti, su d’una più precisa meta, su d’una più assennata motivazione, ma solo perché destinandolo in continente africano, l’avrebbe tenuto lontano dalla casa, dalla Francia e dall’Europa sin sulla soglia della morte.

Comunque neppure l’essere approdato sulle sponde d’un altro continente serviva ad allentare la sua inquietudine; anzi, la sua vita africana si costellava di imprese incredibili, di viaggi assurdi e massacranti, tra deserti, altopiani e catene selvagge di monti; intratteneva corrispondenza coi suoi familiari ai quali confidava le sue segrete speranze e soprattutto le sue amarezze per una vita che non riusciva ad avere un capo e una coda. («A che servono tutte queste peregrinazioni, e questi strapazzi, e queste avventure presso popoli strani, e queste lingue di cui ci si riempie la memoria, e questi affanni senza nome se non mi è concesso riposarmi un giorno?» s’era domandato sconsolato in una lettera del maggio 1883).

Quasi braccato da un atroce destino («Ma adesso io sono condannato ad errare, legato ad un’impresa lontana… », inseguito da un’ansia perenne non riusciva mai a concedersi ad attività meno rischiose e più redditizie; camminava, camminava sempre compiendo tragitti inimmaginabili, imbastendo trame commerciali che ogni volta gli si disfavano tra le mani; progettava di mettere da parte il denaro che gli sarebbe bastato per vivere di rendita qualora fosse rientrato in Europa ed invece si ritrovava sempre creditori ed avvoltoi alle calcagna. Nel 1891 lo colse un cancro al ginocchio che lo costringeva, con un drammatico avventuroso viaggio, al rientro in patria.

Sbarcato a Marsiglia il 20 maggio, i medici dell’ospedale del «Conception» decidevano d’amputargli immediatamente la gamba; l’intervento non servirà però a bloccare il male e a Rimbaud non restava che consumare gli ultimi mesi di vita tra atroci sofferenze in un letto di quell’ospedale marsigliese, assistito con amorevole e infinita pazienza dalla sorella Isabelle; la quale restava così l’unica e quindi, secondo alcuni, improbabile testimone della conversione del fratello, il 25 ottobre, quindici giorni prima della morte.

La sua opera

«Scrivevo silenzi, notti, notavo l’inesprimibile».

Un critico dell’opera di Rimbaud osserva: «Alla radice della vita — e della poesia — di Rimbaud, c’è qualcosa che può definirsi una crisi d’adattamento, e ne costituisce, insieme, il segreto e la chiave. Sulle soglie dell’adolescenza… deve essersi compiuta, per lui, una frattura insanabile» (1). Non si può certo che partire da questo mancato adattamento.

All’interno di una esperienza poetica così intensamente vissuta, e così brevemente, come quella di Rimbaud, risalire a questo inizio non significa innanzitutto attenersi ad un corretto criterio cronologico. Un tale criterio stenta ad adattarsi ad un’esistenza come questa, in cui il tempo sembra abbia scelto la dimensione verticale dell’intensità.

Da parte nostra, impegnarci con le prime poesie di Rimbaud prima che significare una risalita all’origine cronologica della vita del poeta, significa cogliere in questo inizio una delle tappe fondamentali e costitutive di tutto il suo itinerario poetico. E’ così indicata anche una impostazione di metodo: nell’impossibilità di dire tutto, andremo alla ricerca di quelle che potremmo chiamare le categorie base della poesia di Rimbaud, ed in questa ricerca ci potrà capitare di non sottolineare a sufficienza il susseguirsi temporale delle liriche che ora c’interessano.

Diciamo questo per avere dalla nostra almeno il vantaggio, per alcuni forse esilissimo, della consapevolezza di una scelta. In questo senso, risalire al primo Rimbaud significa, secondo noi, aprirsi alla possibilità del raggiungimento del cuore del suo stesso gesto poetico. Qui, dove la dialettica poesia-vita tende ad una identità, l’adattamento non avvenuto e non voluto di cui più sopra accennavamo, è poesia. A che cosa e a chi il «ribelle» Rimbaud diciassettenne non si adatta?

OfeliaMa preferiamo affrontare il problema da un altro punto di vista, e questo perché ogni violento rifiuto è, nella tristezza di una vita negativa, l’annuncio gridato di un orizzonte lontano, forse lontanissimo, positivo. Perché anche la bestemmia può essere preghiera. Allora, in forza di quale gusto-energia il gesto ribelle di Rimbaud può costituirsi? Quale coscienza rende possibile questa coscienza: «Non posso più, o onde, bagnato dai vostri languori, / rapir la scia ai legni che portano cotoni, / né traversar l’orgoglio delle bandiere e delle fiamme, / né nuotar sotto gli occhi orribili dei pontoni» (II battello ebbro)?

Si tratta ora di leggere le poesie di Rimbaud scritte tra il 1870 e 1871. Queste poesie danzano. Il gusto della vita che in esse si esprime, salta agli occhi. Il gusto della carne che è gusto della vita. Questo è forse il primo centro tematico: l’energia del sentirsi vivo, la sua poesia, viene qui inizialmente espressa come eros. Nell’eros, ben al di là di ogni riduzione sessuale, Rimbaud ritrova il sentimento del vivere.

Soffermandosi con la vibrazione, cercando di penetrare il fremere del vivo, egli ci dona alcune delle più liberanti e spaziose immagini della sua poesia. In esse ci si sente rinfrescati. « … // — Io seguo, sbracato come uno studente, / sotto i verdi castani le vispe ragazzine: / esse ben lo sanno e volgono ridendo / verso di me gli occhi riboccanti di cose indiscrete. // Non dico parola: guardo senza posa / la carne dei loro candidi colli frangiati di ciocche folli: / indago, sotto il corsetto e i delicati abbigliamenti, / il dorso divino, scendendo per la curva delle spalle. // In breve ho snidato lo stivaletto, la calza… / Ricostruisco i corpi, arso da bella febbre. / … // » (Al concerto).

Intorno a questa stessa tematica, per non cadere in una facile unilateralità, vorremmo anche ricordare: «Le sere azzurre d’estate andrò per i sentieri / punzecchiato dai grani, a calpestare l’erbetta: / assorto, ne sentirò la freschezza ai miei piedi. / Lascerò che il vento bagni la mia testa nuda. // Non parlerò, non penserò a nulla: / ma l’amore infinito mi salirà nell’anima, / e andrò lontano, assai lontano, come uno zingaro, / attraverso la Natura – felice come con una donna. // » (Sensazione), ed anche: « … // Beato, allungai le gambe sotto il tavolo / verde; contemplai i motivi assai ingenui / della tappezzeria. E fu un momento adorabile / quando la fante dalle poppe enormi, dagli occhi briosi // (quella, non sarà un bacio a spaventarla!) / mi portò, ridanciana, le tartine al burro / e il prosciutto tiepido in un piatto a colori, // prosciutto roseo e bianco profumato da uno spicchio / d’aglio, e mi riempì il bicchiere immenso, con la schiuma / dorata da un raggio tardivo di sole. // » (Al « Cabaret Vert »).

Sentirsi vivere, questo è stupendo, dice Rimbaud, la donna, l’erba, l’aglio. Accorgersi del colore del prosciutto non è certo cosa da poco. In questa energia che è la vita ci si accorge del colore e dello spessore: «II Sole, focolare di tenerezza e di vita, / versa il bruciante amore alla terra estasiata. / E stando distesi sulla valle, si sente / che la terra è vergine e trabocca di sangue; I che il suo immenso seno sollevato da un’anima / è d’amore come Dio, di carne come la donna, / e che racchiude, turgido di linfa e di raggi, / il grande brulichio di tutti gli embrioni. / E tutto cresce e tutto sale. // … quando, ritto nella pianura, egli ascoltava d’intorno / la vivente Natura rispondere al suo richiamo; / quando gli alberi muti, cullando l’uccello canoro, / la terra, cullando l’uomo, e tutto l’azzurro oceano / e tutti gli animali amavano, amavano in Dio // … //» (Sole e Carne).

Amore come unità, comunionalità. Amore come energia della comunionalità. La verità dell’amore è qui riconosciuta nell’essere slancio alla vita, al respiro. A questo livello la poesia di Rimbaud possiede una forza ed una compostezza straordinaria. Anche là dove diviene frivola e maliziosa (Sognato per l’inverno), essa non perde la vitalità. Frivola e maliziosa come un gioco, ma come questo, quando è veramente tale, serio e vitale.

All’interno di tale sentimento della carne-vita, la stessa morte, pur acutamente avvertita, sembra dover soccombere. Questa assume o l’aspetto ultimamente energico e burlesco del macabro, o quello delicato e trattenuto di un sonno: «Sulla mera forca, moncherino amabile, / danzano danzano i paladini, / i magri paladini del diavolo, / gli scheletri di Saladini. // Messer Belzebù tira per la cravatta / i suoi fantoccetti neri che fanno smorfie nel cielo / e picchiandoli in fronte con una suola di ciabatta / li fa danzare danzare ai suoni di una vecchia pastorale. // Urrà, gai ballerini che più non avete pancia! / Si può capriolare, il palco è così lungo! / Hop, non si sappia più se è battaglia o danza! / Belzebù furiosamente raschia i suoi violini. // » (Ballo degli impiccati); e poi la discretissima e calibrata «L’addormentato nella valle»: «E’ un nido di verzura dove canta un torrente / follemente agganciando all’erbe brandelli / d’argento, dove il sole dalla montagna fiera / brilla: è una vallatella che di raggi spumeggia. // Un giovine soldato, bocca aperta, testa nuda, / nuca immersa nel fresco crescione azzurro, / dorme: è steso nell’erba, sotto la nuvola, / pallido nel suo letto verde ove piove la luce. // Coi piedi nei giaggioli, dorme. Sorrìdente come / sorriderebbe un bimbo malato, fa un sonno. / Cullalo caldamente, Natura: ha freddo. // I profumi non fanno fremere le sue nari; / dorme nel sole, con la mano sul petto; / tranquillo. Ha due fori rossi nel fianco destro. //»

Rimboud_enferLa morte non è qui contro la vita, è interruzione, parentesi, momento della vita stessa. Un brivido, ma non corruzione. Non offende la vita, rimane composta. Una limpida contraddizione.

Questo primo momento della poesia di Rimbaud racchiude quella percezione della vita che lo seguirà e perseguiterà per il resto della sua vita. Vita come eros, carne e colore, come, usando il termine che queste prime poesie hanno ricondotto alla sua più segreta e struggente potenza, materialità.

«O splendore della carne! o splendore ideale!» (Sole e carne). La grande possibilità che è la vita, intravista da Rimbaud, genialmente intravista, violentemente e liberamente intravista al di là di ogni ottuso moralismo, rimarrà un pungolo insuperabile che, nella mancanza della grande Compagnia, stravolgerà nell’autore tutta la sua esistenza, rendendogli nauseante e insopportabile l’intera realtà intorno. Il destino è qui già segnato. La brevità dell’esperienza poetica di Rimbaud ne è testimone. Gli Angeli sanno subito e da sempre.

 

OPHELIE

I

Sur l’onde calme et noire où dorment les étoiles

La bianche Ophélia flotte comine un grand lys,

Flotte très lentement, couchée en ses longs

[voiles …

4 — On entend dans les bois lointains des hallalis.

 

Voici plus de mille ans que la triste Ophélie

Passe, fantôme blanc, sur le long fleuve noir;

Voici plus de mille ans que sa douce folie

8 Murmurc sa romance a la brise du soir.

 

Le vent baise ses seins et déploie en corolle

Ses grands voiles bercés mollement par les eaux;

Les saules frissonnants pleurent sur san épaule,

12 Sur son grand front rêveur s’inclinent les

[roseaux.

 

Les nénuphars froissés soupirent autour d’elle;

Elle éveille parfois, dans un aune qui dort, Quelque nid, d’où s’échappe un petit frisson

[d’aile:

16 — Un chant mystérieux tombe des astres d’or.

II

O pale Ophélia! belle comme la neige!

Qui tu mourus, enfant, par un fleuve emporté!

— C’est que les vents tombant des grands monts

[de Norwège

20 T’avaient parie tout bas de l’âpre liberté;

 

C’est qu’un soufflé, tordant ta grande chevelure,

A ton esprit rêveur portait d’étranges bruits;

Que ton coeur écoutait le chant de la Nature

24 Dans les plaintes de l’arbre et les soupirs des

[nuits;

 

C’est que la voix des mers folles, immense râle,

Brisait ton sein d’enfant, trop humain et trop

[doux;

C’est qu’un matin d’avril, un beau cavalier pâle,

28 Un pauvre fou, s’assit muet a tes genoux!

 

Ciel! Amour! Liberté!

Quel rêve, ô pauvre Folle!

Tu te fondais a lui comme une neige au feu:

Tes grandes visions étranglaient ta parole

32 — Et l’Infini terrible effara ton oeil bleu!

III

— Et le Poète dit qu’aux rayons des étoiles

Tu viens chercher, la nuit, les fleurs que

tu

[cueillis,

Et qu’il a va nur l’eau, couchée en ses longs

[voiles

 

36 La blanche Ophélia flotter, comme un

grand lys

___________________

 

OFELIA

I

Sull’onda calma e nera dove dormon le stelle fluttua la bianca Ofelia come un immenso

[giglio,

fluttua lentamente, distesa in lunghi veli…

– S’odono dei richiami, da lungi, nelle selve.

 

Son più di mille anni da che la triste Ofelia

passa, fantasma bianco, sul lungo fiume nero,

son più di mille anni: la sua dolce follia

mormora una romanza all’aura vespertina.

 

Bacia il vento i suoi seni e dispiega a corolla

i suoi diafani veli che l’onda molle culla; rabbrividendo i salici piangon sulle sue spalle,

sulla fronte sognante s’inchinano le canne.

 

Offese le ninfee gemono a lei d’attorno;

a volte, ella risveglia, dall’ontano nel sonno,

un nido, d’onde erompe un frullar d’ali lieve;

— un canto misterioso dagli astri d’oro viene.

II

Pallida Ofelia! bella! bella come la neve!

Tu moristi, ancor bimba, presa da una corrente!

— Fu che i venti scendendo dai monti di

[Norvegia

t’avevan sussurrato di libertà violente;

 

fu un soffio: scompigliando i tuoi folti capelli,

al tuo sognante spirito recava ignoti accenti;

fu che il tuo cuore udiva della Natura il canto

nei singhiozzi degli alberi, nelle notti il lor

[pianto;

 

fu che il tremendo rantolo dell’oceano insensato

sfinì il tuo acerbo seno, troppo dolce ed umano;

fu che un’alba d’aprile, pallido, un cavaliere,

puro folle, s’assise ai tuoi piedi silente!

 

Libertà! Cielo! Amore! Qual sogno, puro folle!

Tu ti sciogliesti a lui come neve al calore;

le visioni sublimi ti rompevan la voce

— Sconvolse gli occhi azzurri un Infinito atroce!

III

Ed il Poeta narra che ai raggi delle stelle,

la notte, vai cercando i fiori che cogliesti, e ha visto sopra l’acqua, nei lunghi veli stesa,

sull’onda, immenso giglio, andar la bianca Ofelia.

L’impossibile strada

D’altro di questa consapevolezza cosa resta da fare? L’ulteriore passaggio ha, nella vita di Rimbaud, quasi una necessità logica. E’ la ribellione. (Cfr. I poeti di sette anni, vv. 1-16).

Che Rimbaud abbia percorso tutta l’Europa a piedi non è un caso. «… // mio albergo era quello dell’Orsa / Le mie stelle facevano in cielo un soave fru-fru / … //» (Zingaresca). C’è chi ha parlato di una malattia. E’ l’impossibilità del luogo chiuso, degli spazi circolari, della misura calibrata, della previsione rassicurante. «… Ma io, Signore! Ecco, il mio spirito vola / dietro i cieli ghiacciati di rosso, / sotto i nembi celesti che corrono e volano / su cento Sologne lunghe come una strada ferrata. / … //» (Michele e Cristina, 1872).

E’ la ribellione contro ciò che arresta il vigore e lo mortifica, contro la mediocrità borghese angustamente chiusa su di sé nell’orizzonte possessivo, contro il clericalismo soffocante delle buie sacrestie. «Sulla piazza divina in meschine aiuole erbose / square, dove tutto è corretto, alberi e fiori, I tutti i bolsi borghesi strozzati dai calori / portano, il giovedì sera, le loro scemenze gelose II … Il Benestanti  con  occhiolino  sottolineano tutte le stecche: / i grossi burocrati tronfi trascinano le loro grosse signore, / … // Schiacciando sulla panca la rotondità dei reni, / un borghese dai bottoni chiari, epa fiamminga, / assapora la pipa da cui ciuffetti di tabacco / traboccano (roba di contrabbando, capite). // … // » (Alconcerto).

Le parole si richiamano e scandiscono il tempo: «corretto», «bolsi», «strozzati», «tronfi», «grosse signore», «rotondità dei reni». Il richiamo a quanto più sopra dicevamo è limpido: il borghese ha trasfigurato la carne obbligandola ad una grassa staticità. La dimensione di questa carne neutralizzata è quella orizzontale del seduto. Descrivendo i bibliotecari: «Neri di natte, butterati, con occhi cerchiati d’anelli / verdi, le gonfie dita retratte sui femori, / incrostato il sincipite di ruvidezze vaghe / come le infiorescenze lebbrose dei vecchi muri, // … // Questi vecchi hanno sempre fatto treccia con le sedie, / … // Oh, non li fate alzare: è un naufragio… / Sorgono, brontolando come gatti schiaffeggiati, / aprendo lentamente le scapole, oh rabbia! / I loro calzoni sbuffano sulle reni gonfiate. // È li sentite picchiar le teste calve / contro i muri cupi, pestando pestando i piedi storti/ … // » (I seduti).

« .. la carne dei loro candidi colli frangiati di ciocche folli » è stata trasformata in quella «delle reni rigonfie», e alla luce dei colori de L’addormentato della valle si è sostituito il verde putrefatto degli anelli intorno agli occhi. Offesa contro la materialità ed il colore. La borghesia, termine con una profondità semantica ben al di là della determinata classe sociale, è, per Rimbaud, la portatrice di questa offesa.

Tuttavia, nella palude del possesso borghese una brezza increspa la corretta superfice. Il movimento e la novità non potevano sfuggire all’occhio attento di Rimbaud. Il movimento e la novità che costituiscono il proletariato. «Jeanne-Marie ha mani forti, / mani scure che l’estate abbronzò, / mani pallide come mani morte. / — Son forse mani di Juana? // … // Son mani che piegano schiene, / mani che non fanno mai male, I più fatali che macchine, / più forti di un cavallo! // Agitati come farmaci, / scuotendo tutti i suoi fremiti, / la loro carne canta Marsigliesi / e mai gli Eleison! // Saprebbero stringervi il collo, / o maledonne, stritolarvi le mani, / o aristocratiche, le vostre mani infami / piene di bianchi e di carminii. // Lo splendore di queste mani amorose / fa girar la testa alle pecore! / … / / (Le mani di Jeanne-Marie).

Comune_Parigi

Comune di Parigi

Questo tema è una declinazione della dinamica che abbiamo sottolineato nella prima parte: Rimbaud vede nel proletariato quella energia vitale capace di scuotere, ma solo scuotere, la tranquillità borghese. I tempi erano quelli della Comune di Parigi e la suggestione che questo clima doveva avere per il poeta non è certo difficile da comprendere. Ma è appunto una suggestione. La parola è giusta perché segna ad un tempo lo slancio della speranza e la sua fragilità. Come vedremo le strade che seguirà Rimbaud non saranno quelle della lotta e dell’impegno politico. Anche in esse il poeta si ritroverà alla fine soffocato. La sensibilità di Rimbaud è vicina alla politica in quanto rivolta, più che alla rivolta in quanto politica. Egli, è stato osservato, non sarà un operaio dell’avvenire.

La borghesia è portatrice dell’offesa contro la carne, ma non la sola. La forza trasgressiva del poeta agisce anche nei confronti del clericalismo. Scegliamo questo termine non a caso. Iniziamo a intravvedere ciò che potremmo chiamare una contraffazione culturale, vale a dire quella che ha identificato clericale con religioso. In questa identità la Chiesa è solo sacrestia, e per di più solo aristocratica, e Cristo è solo moralista. Come vedremo Rimbaud ha acutamente tratto le conclusioni da una tale impostazione.

Il meccanismo è lo stesso di quello messo in moto nei confronti della borghesia. «Stabbiati tra i banchi di quercia, negli angoli della chiesa / fetidamente intepiditi dai loro respiri, le pupille sgranate / verso il coro grondante d’arie la cantoria / dai venti musi che sbraitano i cantici pii; // come un profumo di pane fiutando l’odore di cera, / felici, umiliati come cani battuti, / i Poveri al buon Dio, padrone e sire, / tendono i loro oremus ridicoli e cocciuti. // … // E tutti, sbavando la fede accattona e stupida, / recitando l’interminabile lagna a Gesù / che sta assorto lassù, ingiallito dalla livida vetrata, / … / e l’orazione s’infiora d’espressioni squisite, / e i misticismi assumono toni incalzanti, / quando, dalle navate ove il sole si spegne, con pieghe di seta / banali, sorrisi verdi le Dame dei quartieri / distinti — oh, Gesù — le malate di fegato, / fan baciare le loro lunghe dita gialle alle acquasantiere. //» (I poveri in chiesa). Sorrisi verdi. Il Gesù ingiallito; ingiallito da una morte che non è più quella pulita e vitale dei « … due fori rossi nel fianco destro », ma quella disgustosa della putrefazione.

Ne Le prime comunioni Rimbaud torna con violenza su questa immagine di un Cristo-solo-morto: «Davvero sono stupide queste chiese di villaggio I dove quindici brutti marmocchi che insudiciano i pilastri / ascoltano, biascicando le sacre cantilene / un grottesco uomo nero dalle scarpe che fermentano // … // Cristo! o Cristo, eterno ladro d’energie, / Dìo che per duemila anni votasti al tuo pallore, / inchiodato al suolo, dall’onta e dalle cefalgie, / o riverse, le fronti delle donne di dolore. //».

Quest’ultima strofa de Le prime comunioni possiede, all’interno della tematica che stiamo trattando, una centralità assoluta. La ribellione dunque è a quella caricatura di «Cristo» quale è stata orrendamente costruita da una cultura mondana secolare, vale a dire un Cristo morto ma non risorto, e quindi per Rimbaud «ladro di energie».

Paoul_Verlaine

Paoul Verlaine

Il mancato adattamento, di cui accennavamo iniziando questo lavoro, è nei confronti di una realtà che ha mortificato a tal punto l’esistenza da condurla alla putrefazione. L’energia rubata: è questa l’estrema consapevolezza che carica il gesto poetico di Rimbaud di una violenza impressionante. Si è osservato: «Verlaine con le sue formulazioni teoriche e con le sue realizzazioni poetiche ha teso al nuovo, ha operato approfondendo una ricerca che… risale a Baudelaire; ma Rimbaud ha operato una frattura non più colmabile col passato, ha realizzato la rivolta. Con lui si riparte da zero»(2).

Eppure la passione di questa rivolta è così pulita e fine, azzurra, per servirci del colore glaciale usato spesso da Rimbaud, da contenere in questo «zero» l’altezza stessa dell’umanità di tutto il suo assoluto desiderio. In fondo, al Cristo-solo-morto la rivolta è d’obbligo. E’ lo stesso mistero dell’uomo che brucia, consuma l’ingiallito Cristo ladro.

Là dove l’uomo vive (la carne, i colori, la materia) non si può chiedere nulla di meno che un Dio che viva. In Le suore di carità tutto è chiaro: « … // il giovane, di fronte alle brutture di questo mondo, I trasale nel suo cuore copiosamente inasprito / e, colmo di una ferita eterna e profonda, / si da a desiderare la sua suora di carità. / Ma, o Donna, mucchio di visceri, pietà dolce, / tu non sei mai la Suora di carità, giammai, / né sguardo nero, né ventre ove un’ombra rossa dorme, / né dita leggere, né seni splendidamente formati. // Cieca mai sveglia dalle immense pupille, / tutto il nostro amplesso non è che una domanda: / sei tu che a noi t’appendi, portatrice di mammelle: / noi ti culliamo, incantevole e grave Passione.//».

 

LES POÈTES DE SEFT ANS

A M. P. Demeny

Et la Mère, fermant le lìvre du devoir,

S’en allait satisfaite et très fière, sans voir,

Dans les yeux bleus et sous le front plein

[d’éminences,

L’âme de son enfant livrèe aux répugnances.

 

5 Tout le jour il suait d’obéissance; très

Intelligent; pourtant des tics noirs, quelques traîts

Semblaient prouver en lui d’âcres hypocrisies.

Dans l’ombre des couloirs aux tentures moisies,

En passant il tirait la langue, les deux poings

10 A l’aine, et dans ses yeux fermés voyait des points.

Une porte s’ouvrait sur le soir: a la lampe

On le voyait, là-haut, qui râlait sur la rampe,

Sous un golf e de jour pendant du toit. L’été

Surtout, vaincu, stupide, il était entêté

15 A se renfermer dans la fraîcheur des latrines:

II pensait là, tranquille et livrant ses narines.

 

Quand, lave des odeurs du jour, le jardinet

Derrière la maison, en hiver, s’illunait

Gisant au pied d’un mur, enterré dans la marne

20 Et pour des visions écrasant son oeil darne,

II écoutait grouiller les galeux espaliers.

Pitie! Ces enfants seuls étaient ses familiers

Qui, chétifs fronts nus, oeil déteignant sur la joue,

Cachant de maigres doigts jaunes et noirs de boue

25 Sous des habits puant la foire et tout vieillots,

Conversaient avec la douceur des idiots!

Et si, l’ayant surpris a des pitiés immondes,

Sa mère s’effrayait; les tendresses, profondes, De l’enfant se jetaient sur cet étonnement.

30 C’était bon. Elle avait le bleu regard, – qui ment!

 

A sept ans, il faisait des romans, sur la vie

Du grand désert, où, luit la Liberté ravie,

Forêts, soleils, rives, savanes! — II s’aidait

De journaux illustrés où, rouge, il regardait

35 Des Espagnoles rire et des Italiennes.

Quand venait, l’oeil brun, folle, en robes

[d’indiennes,

— Huit ans, _ la fille des ouvriers d’à côté,                                                                                                        

Huit ans, — la file des ouvriers d’à còte,La pelile   brutale, et qu’elle avait sautéDans un coiti, sur son dos, en secouant ses tresses, 40 Et qu’il était sous elle, il lui mordait les fesses, Car elle ne portali jamais d

La petite brutale, et qu’elle avait sauté,

Dans un coin, sur son dos, en secouant ses tresses,

40 Et qu’il état sous elle, il lui mordait les fesses,

Car elle ne portait jamais de pantalons;

— Et, par elle meurtri des poings et des talons,

Remportait les saveurs de sa peau dans sa

[chambre.

Il craignait les blafards dimanches de décembre,

45 Où, pommadé, sur un guéridon d’acajou,

II lisait une Bible a la franche vert-chou;

Des rêves l’oppressaient chaque nuit dans l’alcôve.

Il n’aimait pas Dieu; mais les hommes, qu’au soir

[fauve,

Noirs, en blouse, il voyait rentrer dans le faubourg

50 Où les crieurs, en trois roulements de tambour,

Font autour des édits rire et gronder les foules.

— Il rêvait la prairie amoureuse, où des houles

Lumineuses,  parfums sains, pubescences d’or,

Font leur remuement calme et prennent leur essor!

55 Et comme il savourait surtout les sombres choses, Quand, dans la chambre nue aux. persiennes closes, Haute et bleue, âcrement prise d’humidité

II lisait son roman sans cesse médité, Plein de lourds ciels ocreux et de forêts noyées,

60 De fleurs de chair aux bois sidérals déployées,

Vertige, écroulements, déroutes et pitié!

—Tandis que se faisait la rumeur du quartier,

En bas, — seul, et couché sur des pièces de toile

Écrue, et pressentant violemment la voile!

26 mai 1871

__________________________

I POETI SETTENNI

 

Chiudendo il libro del dovere se ne andava la Madre, soddisfatta e molto fiera,

senza veder, in fondo agli occhi azzurri,

sotto la fronte piena di bernoccoli,

l’anima di suo figlio essere in preda a repulsioni.

 

5 Sudava ad obbedire tutto il giorno;

parecchio intelligente; tuttavia

dei lineamenti, in lui, manie oscure,

parean provare acri ipocrisie.

Passando negli ombrosi corridoi

dai colori ammuffiti egli faceva

boccacce, fitti all’inguine i due pugni,

10 gli occhi serrati, vedeva punti neri.

Una porta s’apriva sulla sera:

al lume della lampada, su in alto,

lo si vedeva ansare sulla rampa,

sotto un golfo di luce che dal tetto

cadeva. Nell’estate soprattutto,

come vinto, intontito, si ostinava

15 a rimaner nelle latrine al fresco:

egli pensava, là, tranquillo, si puliva

le nari.

 

Allorché il giardino dietro casa,

dagli odori del giorno ormai lavato,

d’inverno s’illunava, nella marna

infossato, giacendo a pie d’un muro,

e per aver visioni rutilanti

20 prendendo l’occhio inebriato, udiva

le rognose spalliere brulicare.

Misericordia! Gli eran familiari

solo i bimbi pezzenti, fronte nuda,

occhi incolori sulle guance, che, celanti

le magre dita gialle e nere per il fango

25 sotto vestiti che puzzavano di merda,

da vecchiettini parlavano fra loro

con la dolcezza degli idioti!

e se sua madre, sorprendendolo in immonde pratiche, sbigottiva,

le profonde tenerezze del bimbo si gettavan

sopra questo stupore.

30 Basta! Ella avea lo sguardo azzurro, — mentitore!

 

A sette anni fabbricava dei romanzi sopra la vita del deserto immenso

dove risplende Libertà rapita,

soli, rive, savane, le foreste!

Coi giornali illustrati s’aiutava

dove, rosso, osservava

35 rider delle Spagnole e Italiane.

Quando veniva, l’occhio bruno, pazzo,

in vesti indiane, — aveva otto anni, — la ragazzina degli operai accanto,

da un angolo, la piccola brutale,

e scuotendo le trecce, gli saltava in groppa, quando lui le stava sotto,

40 le mordeva le chiappe, poiché mai lei portava mutande; — e, tramortito da pugni e calci, il sapor della sua pelle con sé portava nella propria stanza.

 

Le domeniche scialbe di dicembre

45 egli temeva, quando, impomatato,

su un tavolo di mogano leggeva

una Bibbia col taglio verde-cavolo;

ogni notte dei sogni l’opprimevano.

Non Dio, ma gli uomini, amava, che alla sera

fulva, vedea rientrare in blusa, neri,

50 nel sobborgo ove gli strilloni con tre rulli di tamburello fan gioire e brontolare

le folle intorno ai loro editti.

La prateria amorosa, egli sognava,

dove le ondate luminose, sani

profumi, auree pubescenze calman

l’agitazione e prendono l’aire!

55 E come soprattutto assaporava

le cose arcane, quando, nella nuda stanza con le persiane chiuse, azzurra ed alta,

acremente dall’umido corrosa,

leggeva il suo romanzo meditato

senza posa, pieno di foreste sommerse e di grevi cicli d’ocra,

60 di dispiegati ai boschi siderali

fiori di carne, vertigini, sconfitte,

sfasciumi e sdegno! — Mentre già nasceva, laggiù, il rumore del quartiere, — solo,

sopra pezzi di tela cruda steso,

violenta presentendo in sé la vela!

La sensibilità rinata

Con la ribellione si riparte da zero. Ma non si può percorrere le vecchie strade. Lo spessore della vita richiede una radicalità senza mezze misure. E’ richiesta una coerenza senza limiti, quell’estrema coerenza che è la «follia». Questa è la strada a cui si è obbligati non appena ci s’introduce nel vissuto. Per Rimbaud la «follia» è la risposta ad un’esigenza esistenziale: è l’avventura della totalità. (Cfr. I poeti di sette anni, vv. 55-64). Rimbaud accenna all’avventura della totalità, ci testimonia di questa nuova consapevolezza, già nel bellissimo finale di Ofelia (vv. 17-20; 29-32).

Al di là dell’umano ove si risponde con il fuoco al fuoco del «tremendo Infinito»: questa è la strada. Ofelia è stata spezzata dalla violenza di questo incontro, si è sciolta, ma Rimbaud raccoglie le forze, è convinto di raccoglierle, e tenta l’avventura. Questa fiducia nella propria forza si tradisce spesso nelle liriche del poeta, fino ad apparire provocatoria e sfrontata: «… // Poi, quando ho ringhìottito i miei sogni con cura, / mi volto bevuti trenta o quaranta bicchieri di birra — / e mi raccolgo per sfogare l’acre bisogno: / mite come il Signore del cedro e degli issopi, / piscio verso i cieli bruni, molto in alto e lontano, / con l’assenso dei grandi eliotropi. //» (Orazione della sera). Ma anche qui, al di là della intelligentissima autoironia, ciò che si comunica è uno slancio vitale.

Rimbaud_coverAbbandonata la realtà quotidiana con la sua mediocrità ed oscurità, è necessario, secondo Rimbaud, farsi forti ed aprirsi ad una nuova sensibilità. Le ultime poesie del 1871 testimoniano lo sforzo di questo cambiamento di rotta. Crediamo che sia al loro livello che si giochi la possibilità per la comprensione di quella che sarà la poetica della Lettera del Veggente. In essa il descrittivismo pur freschissimo delle prime liriche si frantuma, e d’improvviso la struttura poetica viene animata da lampi di luce. Ci si solleva da terra. E’ la rinascita del colore.

Il tema della luce e del colore è una struttura portante della poesia di Rimbaud e come abbiamo visto è presente fin dalle primissime esperienze poetiche, eppure qui esso assume un significato tutto particolare. Solmi dice bene quando osserva: «L’imbeversi della sensazione nel mondo primordiale, elementare, del colore è la prima istintiva via per cui Rimbaud giunge a rinfrescare la visione abitudinaria della cosa, restituendola all’indivisione originale dell’io con il mondo» (3).

Stravolti e rifiutati i contorni delle cose quali li definisce l’occhio borghese e distratto, ciò che rimane è l’iridiscenza e l’animazione dell’essere e del colore. La riscoperta di questa profondità del colore è il ritorno a quella struttura elementare ed originale del reale rimasta nascosta allo sguardo indifferente e da questo negata. La vera struttura. Il colore è per Rimbaud l’inizio della rinascita del nuovo mondo, ne è il primo tempo.

«La stella ha pianto rosea nel cuore delle tue orecchie, / l’infinito ti è rotolato bianco dalla nuca alle reni; / il mare s’è imperlato rosso sulle tue mammelle vermiglie, / e l’Uomo ha sanguinato nero al tuo fianco sovrano. // » (La stella ha pianto rosea…).

Ma l’esempio certamente più famoso di questa nuova sensibilità è costituito dalla poesia Vocali: «A nera, E bianca, I rossa, V verde, O azzurra: vocali, / io dirò un qualche giorno le vostre nascite latenti. I A, nero corsetto villoso delle mosche lucenti / che vòrticano intorno ai fetori crudeli, // golfi d’ombra; E, candori di vapori e di tende, / lance di ghiacciai fieri, re bianchi, brividi d’umbelle; / I, porpore, sangue sputato, riso di labbra belle / nella collera o nelle- ebrezze penitenti; / U, cicli, vibrazioni divine dei mari viridescenti, / pace dei pascoli cosparsi d’animali, pace delle rughe / che l’alchimia incide sulle vaste fronti studiose; // O, suprema tromba piena di strani stridori, / silenzi traversati dai mondi e dagli angeli: / O, l’Omega, raggio violetto dei suoi occhi! // ».

Aprire, frantumare, spaccare, far esplodere le cose alla ricerca delle loro «… nascite latenti». L’accostamento fantastico delle vocali ai colori ha quasi la funzione magica di farci raggiungere quel mondo oltre il mondo, dentro il mondo, verità del mondo stesso. Rimbaud grazie a questa poesia c’invita ad abbandonare le parvenze, indica una strada nuova e ci apre a possibilità diverse prima quasi inimmaginabili.

«Affidandosi interamente alla tecnica della sinestesia (cioè della fusione di sensazioni di diversa origine che sfocia in parte nel rapporto analogico)» il poeta ci porta al di là del valore logico delle parole verso una suggestione più ampia e comprensiva di questo stesso valore.

La valorizzazione dell’elemento analogico, grazie all’intervento liberatorio del colore, attua in tal modo quella che potremmo chiamare una dilatazione delle cose e del reale logorato dall’usura «buia e triste» dell’atteggiamento quotidiano. L’importanza della lirica Vocali all’interno della poesia di Rimbaud, è stata giustamente sottolineata; essa indica una strada che troverà la sua formulazione teorica nella Lettera del Veggente, e la sua realizzazione poetica in «Una stagione all’Inferno» e nelle «Illuminazioni», una strada che è l’espressione più matura della poesia di Rimbaud.

Le ultime poesie del 1871, ed in particolare modo Vocali, sono un preannuncio della poetica di Rimbaud. Non a caso abbiamo insistito sul colore. Il titolo Illuminazioni, una delle espressioni più significative della poesia di Rimbaud, come Verlaine testimonia, e più critici sono d’accordo, sarebbe stato scelto dal poeta nel suo senso inglese di «coloured plates» (delle «Illuminazioni», prime prose poetiche nella letteratura europea, non tratteremo in questo breve lavoro, proprio perché la brevità c’impedisce anche solo di affrontare un materiale come questo così complesso e denso).

A nostro avviso, l’intervento del colore è la prima mossa e realizzazione di quella poetica della Lettera del Veggente di cui qui riportiamo una sola espressione rimandando, per ora, un accenno più ampio: «…il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato deragliamento di tutti i sensi… Egli giunge infatti all’«ignoto». Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di qualsiasi altro!».

Il gesto del rischio radicale viene qui ricondotto alla sua finalità: giungere all’ignoto. Questo ignoto, sarebbe ipocrita negarlo, è il vero. Il ribelle si fa veggente. E’ infatti la coscienza stessa della insopportabilità della finitezza (del limite delle cose e di se stesso) ad essere in tensione all’ignoto. Là dove la vita è vissuta (il poeta), là si genera, per usare la parola che ci pare più comprensiva ed esatta, la profezia.

La carne è profezia. Per Rimbaud si tratta di ritornare all’evidenza di questa identità. Ritornarvi perché il mondo borghese l’ha dimenticato, ha rubato l’energia ed ucciso la carne, come abbiamo visto. Ritornarvi perché questo è il compito, la necessità. Smarrito il paradiso si deve risalire la china: il soggetto della risalita è il poeta, la sua modalità il «lungo, immenso e ragionato deragliamento di tutti i sensi».

Prima di passare a Il Battello ebbro, vorremmo solo accennare a quelle che potremmo chiamare delle pause di tenerezza. La presenza di questo atteggiamento all’interno del vortichio dei sensi fin qui descritto, non ci coglie di sorpresa. Non è forse segno di gran vigore la capacità di tenerezza?

Come accenneremo, questo tema della tenerezza è centrale per comprendere l’esistenza di Rimbaud, per comprendere certi avvenimenti della sua vita. Oltre le già ricordate Ofelia e L’addormentato della valle, riportiamo: «Oziosa giovinezza / a tutto asservita / per delicatezza / ho perduto la vita. / Ah, venga il tempo / che i cuori s’innamorino! // … //»  (Feste della pazienza).

 

LE BATEAU IVRE

Comme je descendais des Fleuves impassibles,

Je ne me sentis plus guide par les haleurs:

Des Peaux-Rouges  criards les avaient pris pour

[cibles

4 Les ayant cloués nus aux poteaux de couleurs.

 

J’étais insoucieux de tous les équipages,

Porteur de blés flamands qu de cotons anglais.

Quand avec mes haleurs ont fini ces tapages

8 Les Fleuves m’ont laissé descendre où je voulais.

 

Dans les clapotements furieux des marées

Moi, l’autre hiver, plus sourd que les cerveaux

[d’enfants,

Je courus! Et les Péninsules démarrées

12 N’ont pas suiì tohu-bohus plus trionmphants.

 

La tempête a béni mes éveils maritimes.

Plus léger qu’un bouchon j’ai dansé sur les flots

Qu’on appelle rouleurs éternels de victimes,

16  Dix nuits, sans regretter l’oeil niais des falots!

 

Plus douce qu’aux enfants la chair des pommes

[sûres,

L’eau verte pénétra ma coque de sapin

Et des taches de vins bleus et des vomissures

20 Me lava, dispersant gouvernail et grappin.

 

Et des lors, je me suits baigné dans le Poème

 

De la Mer, infuse d’astres, et lactescent,

Dévorant les azurs verts; où, flottaison blême

24 Et ravie, un noyé pensif parfois descend;

 

Où, teignant tout a coup les bleuités, délires

Et rhythmes lents sous les rutilements du jour,

Plus fortes que l’alcool, plus vastes que nos lyres,

28 Fermentent les rousseurs amères de l’amour!

 

Je sais les cieux crevant en éclairs, et les trombes

Et les ressacs et les courants: je sais le soir,

L’Aube exaltée ainsi qu’un peuple de colombes,

32 Et j’ai vu quelquefois ce que l’homme a cru voir!

 

J’ai vu le soleil bas, taché d’horreurs mystiques, Illuminant de longs figements violets, Pareils a des acteurs de drames très-antiques

36 Les flots roulant au loin leurs frissons de volets!

 

J’ai rêvé la nuit verte aux neiges éblouies,

Baiser montant aux yeux dex mers avec lenteurs,

La circulation des séves inouïes

40 Et l’éveil jaune et bleu des phosphores chanteurs!

 

J’ai suivi, des mais pleins, pareille aux vacheries

Hystériques, la houle a l’assaut des récifs,

Sans songer que les pieds lumineux des Maries

44 Pussent forcer le mufle aux Océans poussifs!

J’ai heurté, savez-vous, d’incroyables Florides

Mélant aux fleurs des yeux de

panthères a peaux

 

D’hommes! Des  arcs-en-ciel  tendus  camme des

[brides

Sous l’horizon des mers, a de glauques troupeaux!

 

J’ai vu fermenter les marais énormes, nasses

Où pourrit dans les joncs tout un Léviathan!

Des écroulements d’eaux au milieu des bonaces,

52 Et les lointains vers les gouffres cataractant!

 

Glaciers, soleils d’argent, flots nacreux, cieux de

[braises!

Echouages hideux au fond des golfes bruns

 

Où les serpents géants dévorés des punaises

56 Choient, des arbres tordus, avec de noirs parfums!J’aurais voulu montrer aux enfants ces dorades Du flot  bleu, ces poissons d’or, ces poissons

[chantants.

— Des écumes de fleurs ont bercé mes dérades

60 Et d’ineffables vents m’ont ailé par instants.

 

Parfois, martyr lasse des pôles et des zones,

La mer dont le sanglot faisait mon roulis doux

Montait vers mai ses fleurs d’ombre aux ventouses

[jaunes

Et je restais, ainsi qu’une femme a genoux ..

 

Presque île, ballottant sur mes bords les querelles

Et  les fientes d’oiseaux clabaudeurs aux yeux

[blonds.

 

Et je voguais, lorsqu’à travers mes liens frêles

68 Des noyés descendaient dormir, a reculons!

 

Or mai, bateau perdu sous les cheveux des anses,

Jeté par l’ouragan dans l’éther sans oiseau,

Moi dont les Monitors et les voiliers des Hanses

72 N’auraient pas repêché la carcasse ivre d’eau;

 

Libre, fumani, monte de brumes violettes,

Moi qui trouais le ciel rougeoyant comme un mur

Qui porte, confiture exquise aux bons poètes,

76 Des lichens de soleil et des morves d’azur,

 

Qui courais, taché de lunules électriques,

Planche folle, escorté des hippocampes noirs,

Quand les  juillets faisaient crouler a coups  de

[triques

80 Les cieux ultramarins aux ardents entonnoirs;

 

Moi qui tremblais, sentant geindre a cinquante

[lieues

Le rut des Béhémots et les Maelstroms épais,

Fileur éternel des immobilités blues

84 Je regrette l’Europe aux anciens parapets

 

J’ai vu des archipels sidéraux! et des îles

Dont les cieux délirants sont ouverts au vogueur:

— Est-ce en ces nuits sans fond que tu dors et

[t’exiles,

 

88 million d’oiseaux d’or, ô future Vigueur? —

Mais, vrai, j’ai trop pleure! Les Aubes sont

[navrantes.

Toute lune est atroce et tout soleil amer:

L’acre amour m’a gonflé de torpeurs enivrantes.

92 O que ma quitte éclate! O que j’aille a la mer!

 

Si je désire une eau d’Europe, c’est la flache

Noire et froide où vers le crépuscule embaumé

Un enfant accroupi plein de tristesses, luche

96 Un bateau frêle comme un papillon de mai.

 

Je ne puis plus, baigné de vos langueurs, o lames,

Enlever leur sillage aux porteurs de cotons,

Ni traverser l’orgueil des drapeaux et des -flammes,

100 Ni nager sous les yeux horribles des des pontons.

_______________________

L’EBBRO NAVIGLIO

 

Mentre scendevo Fiumi immoti

il tiro sentii cessare:

Indiani sempre urlanti, nudi,

4 eran fatti bersaglio, infitti a pali colorati.

Io

tacevo insofferente d’ogni ciurma

che portasse fiamminghi grani o inglesi

cotoni. Quando i Fiumi

e gli alatori cessarono il clamore

8 dove io volevo m’han lasciato andare.

Assordato, immerso nei furiosi

rombi degli agitati flutti, più straniato

dei cervelli dei bimbi, io l’altro inverno corsi!

Le sperdute Penisole non hanno

12 giammai subito caos più trionfanti!

I miei marini risvegli sono stati dalla tempesta benedetti.

Più leggero d’un sughero, ho danzato

dieci notti sull’onde che avvinghianti eterne delle prede son chiamate,

dieci notti, senza che l’insulso

16 occhio delle lanterne rimpiangessi!

Dolce più che pei bimbi la materna

carne delle sicure poppe, l’acqua verde

la mia casa d’abete invase e, i marchi

di vini blu e di vomiti nettando, l’ancora scisse dal timone,

20 disperdendo. D’allora nel Poema

del Mare io mi son bagnato,

perfuso d’astri, e lattescente,

acerbi azzurri divorando, dove,

estasiato flottare allucinato,

24 pensoso, a volte, un annegato scende;

dove, improvvisi, azzurrità tingendo,

lenti ritmi e deliri sotto il denso

rutilare del giorno più e più forti

dell’alcol, e del nostro nenìare

più vasti, lievitano amari

28 rossori dell’amore!

Conosco i cieli esplosi da bagliori,

le risacche, i tifoni, le correnti:

ver

so la sera, l’Alba

fremente come stormo di colombe,

ed ho veduto a volte ciò che l’uomo

32 ha creduto vedere!

Ho visto il sole basso all’orizzonte,

come d’orrori mistici segnato,

tracciar bave di luce, coaguli violetti,

come gli attori degli arcaici drammi

rugghianti, sopra i flutti, rotolando

36 brividi, di lontano, d’inferriate.

Ho sognato la notte dell’assenzio

verde di nevi allucinate,

lenta montando a insenature innanzi, baciar flussi di vaghe linfe impercepite,

40 e il giallazzurro dei fosfori canori ridestarsi.

Ho seguito il maroso all’assalto d’uno scoglio

come isteriche mandrie, interi mesi

senza pensare che Marie dai piedi

44 luminosi sanno rompere oceani spossati.

Sapete: ho urtato Flore straordinarie,

mischiando fiori ad occhi di pantere

d’umana pelle! Iridi, come briglie

48 tese, ho trasfuso dentro glauchi armenti!

Ho visto fermentar pantani enormi

gore ove imputridisce un Leviatano

tra i giunchi. In mezzo alle bonacce

onde sfasciarsi,

nebulosi fondali in cateratte

52 contro abissi crollare.

Argentei soli, ghiacciai, madreperlacee onde,

incandescenti cieli! Laidi inviluppi

in fondo a golfi bruni ove serpenti

giganteschi, da cimici distratti, vanno cadendo con profumi oscuri

56 da alberi contorti.

Ai bimbi avrei voluto additare

queste orate delle onde azzurre,

far vedere loro questi pesci d’oro, questi

pesci cantanti.

Schiume di fiori, con lusinghe vaghe,

ogni mio scioglier da riva hanno cullato

60 e ineffabili venti m’han portato

a volte. A volte il mare, il cui singhiozzo il mio rollio faceva dolce,

verso me, verso un martire spossato

di poli e zone, verso me l’ombrine,

fiori ornati da ventose gialle,

montava, mentre io come una donna

in ginocchio,

64 restavo …

Penisola, che scuote sui suoi bordi

le zuffe e gli escrementi degli uccelli dagli occhi biondi, schiamazzanti.

Ed io vogavo,

mentre, traversando le mie fragili reti,

annegati scendevano a dormire,

68 arrovesciati.

Ora io, nave spersa tra gli incagli

d’insenature, io dall’uragano

nell’etere gettato, senza uccelli,

io, carcassa ebbra d’acqua

che Anseatici velieri

72 né corazzate avrebbero pescato,

qual concime fumante, libero, ravvolto

da brume viola, io che sforavo

quel ciclo rosseggiante come un muro

che, tale è squisito nettare pei buoni

76 poeti, porta mocci d’azzurro

e solacei licheni, io che correvo

di nubecole elettriche cosparso,

legno folle,

scortato da ippocampi

neri, quando i lugli

a colpi di randello i cieli

ultramarini facean crollare

80 dagli ardenti imbuti;

io che tremavo, da cinquanta leghe

sentendo gemer la frégola dei Béhémots

e i densi Maelstroms, filatore eterno

d’azzurre fissità, io l’Europa rimpiango:

84 i suoi vecchi ripari.

Ho veduto arcipelaghi d’astri!

isole i cui cicli s’aprono

al navigante deliranti:

oh, futuro Vigore! è in queste notti

90 senza fondo che tu t’esilii e dormi?

Ma, veramente, troppo ho pianto!

L’Albe sono strazianti. Atroce

è ogni luna ed ogni sole amaro!

L’acre amore

di torpori snervanti m’ha gonfiato.

Oh, che la mia chiglia scoppi!

 

94 Oh, ch’io affoghi!

Io desidero solo un’acqua dell’Europa:

una pozzanghera dove, fredda e nera,

all’imbrunire profumato un bimbo

accoccolato, pieno di tristezza,

scioglie al viaggio una barca

frale come a maggio

96 una farfalla.

Oh, lame d’acqua luminose! Intriso

con i vostri languori più non posso

frenar la nave,

né sottrarre il solco

ai portatori di cotoni,

non trafigger l’orgoglio

di vessilli e bandiere,

né posso ormai nuotare

sotto gli orridi sguardi dei pontoni

«II Battello ebbro»

E’ possibile forse affermare che tutto quanto abbiamo finora detto non è stato altro che la condizione per la comprensibilità di «II Battello ebbro». In questa poesia tutto si ritrova e si realizza; tutto, anche ciò che «seguirà» cronologicamente, riconduce alla stringente logica di questa lirica, Le nostre parole debbono ora ri-dursi all’essenziale. Di che si tratta? Del Viaggio. Ma di quale viaggio? Verso l’Ignoto. Tale itinerario procede secondo tappe precise che è possibile ritrovare sotto la destrutturazione apparente del testo.

L’inizio è la partenza, segnata da un distacco brutale e drammatico, («il deragliamento di tutti i sensi»), che immette nella splendida follia degli oceani furiosi (prime tre strofe). Immediatamente dopo, la necessaria purificazione sul filo danzante della leggerezza (strofe 4a e 5a). Le strofe dalla 6a alla 15a compresa «materializzano» il senso del viaggio. E’ l’Apocalisse come trasfigurazione ultima del reale.

Dapprima il Poema del Mare risuona nel ritmo e nelle immagini, delicato, pensoso e pacato, eppure fulgido: la notte, la morte, l’amore, le albe e i tramonti (i tempi del giorno e i tempi della vita umana, «drammi antichissimi»). Man mano tuttavia, la sinfonia acquista toni più abbaglianti fino al delirio d’immense fusioni di terre, acque, paludi, fiori, piante e animali. Questa scansione ci suggerisce la seconda parola: è la Genesi. Un’Apocalisse che è una Genesi: il cerchio si chiude ritornando all’origine. II viaggio non è verso il vuoto, l’illusione, ma verso la profondità verità dell’esistenza.

Il cammino dunque ha un’unica direzione: significa, con l’impossibilità stessa di ogni adattamento, l’avventura della totalità (Apocalisse). Rimbaud lo testimonia in modo limpidissimo. Ma proprio perché esterna questa avventura contemporaneamente si pone e rivela la sua auto-distruzione: con assoluta onestà intellettuale il poeta ne dichiara il fallimento e la supera, rovesciando i termini stessi della propria logica.

Dapprima è la stanchezza ed il dolore (strofa 16a) e l’inquietudine ambigua degli uccelli chiassosi (strofa 17a); poi la percezione dell’essersi perduto (strofa 18a) e addirittura la furibonda autoironia, mentre la corsa diventa sempre più ansiosa ed ossessiva (strofe 19″ e 20a): fino alla dichiarata nostalgia per l’Europa dai vecchi parapetti che riconosce il bisogno di una radice.

Nella strofa 23a lo strazio esplode totale ed aperto, con la gridata speranza «Che la mia ciglia scoppi! Che vada in fondo al mare!». Ed infine il capovolgimento: con serissima commovente consapevolezza Rimbaud, slegandosi dall’immagine autocreata di eroe dell’ignoto e degli oceani, si ritrova bimbo triste accoccolato accanto ad una pozzanghera. Ma questa non è una fine: il bimbo ricerca, affidando però sé stesso all’umiltà di una barchetta fragile farfalla. Forse il viaggio deve essere nuovo e diverso

Note

1) S. Solmi, Saggio su Rimbaud, ed. Einaudi, Torino  1974, pag. 3.

2) Salvatore Guglielmo, Guida al novecento, ed. Principato, Milano 1971, pag. 26.

La sua eredità

«Chiederò perdono d’essermi nutrito di menzogna»

«Seguì poi un prosatore sbalorditivo … »: così Paul Verlaine, presentando per la prima volta al grande pubblico l’opera di Arthur Rimbaud nella antologia dei «Poétes Maudits», ebbe a parlare dell’ultima fase creativa dell’adolescente prodigio di Charleville. Nascevano quelle parole dall’attonita, quasi meravigliata constatazione d’un qualcosa che i termini e le categorie della critica letteraria non riuscivano assolutamente più a contenere, d’un qualcosa che sfuggiva, anzi scalpitava tra le mani, d’un qualcosa che ponendosi d’autorità su di altri piani, imponeva di conseguenza altri criteri e altra attenzione.

La prosa «sbalorditiva» corrispondeva, innanzitutto, a quella di Une Saison en enfer: lì più che altrove le parole tumultuavano scattavano come schegge impazzite e furibonde, lì la sintassi batteva talora ritmi convulsi, talora si distendeva in periodi sorprendentemente larghi e conchiusi, talora invece s’inarcava per poi restare drammaticamente sospesa, interrotta; lì la scrittura non si preoccupava di seguire e allinearsi alle regole degli stili, ne si premurava di forgiarne e sprigionarne di nuovi: tra quelle pagine infatti la letteratura bruciata da troppa tensione s’era dileguata e dis-solta e al suo posto si dibatteva e rivoltava l’inesausta incombenza della vita. Insomma, la spinta interiore che quelle medesime pagine avevano arginato assomigliava, in tutto e per tutto, all’energia che solo testi oracolari se non biblici («E cosa certissima, è oracolo quel che vi dico») potevano contenere; la Saison era come il frammento, la scheggia maledetta di un testo sacro che sia stato catapultato, oltre i secoli, sin dentro la nostra storia: come un libro sacro, talora si ergeva con indefettibile chiarezza, talora s’addombrava in espressioni che rimbombavano da altri mondi, da altri cicli; talora infine scattava sui lucidissimi stimoli di un’irrinunciabile impeto propositivo («Ora svelerò tutti i misteri: misteri religiosi o naturali, morte, nascita, avvenire, passato, cosmogonia, nulla»). Per questa ragione non si può immaginare nessun discorso che, volendo ragionare sull’eredità di Rimbaud, non tenga un adeguato, anzi speciale conto della sua opera più decisiva: Une saison en enfer.

Aveva cominciato a pensarla e a stenderla sin da prima del conclusivo e drammatico soggiorno a Londra in compagnia di Verlaine, cioè in quei mesi del ’73, aprile e maggio, che aveva trascorsi, con la sua famiglia, nella residenza di campagna nei pressi di Charleville; nei seguenti termini ne aveva allora dato notizia per lettera, al suo amico Delahaye: «…lavoro con sufficiente regolarità; scrivo piccole storie in prosa, titolo generale “Libro pagano” o “Libro negro”; è sciocco e innocente. O innocenza; innocenza; innocenza, innoc … flagello!… La mia sorte dipende da questo libro per il quale mi rimangono da inventare una mezza dozzina di storie atroci. Ma come inventare atrocità, qui?».

L’opera ancora non era che agli inizi ma già in quell’invocazione pronunciata tra i denti, e poi convulsamente interrotta, in quell’invocazione cioè all’innocenza, già pulsava anzi batteva furiosamente il cuore della Saison (tra l’altro di quel Livre paien o Livre négre che sarebbe poi divenuto, nella definitiva stesura, il primo e più lungo capitolo, si doveva conservare un fortunato stralcio di minuta: dentro già la prosa vi eruttava con violenza, già vi ribolliva un’energia che ormai soltanto attendeva una decisiva organizzazione).

Inseguiva la condizione dell’innocenza, inseguiva l’orizzonte della salvezza: per questo, toccato l’apice, il culmine della sua carriera poetica, fatte proprie le più ardite e audaci esperienze espressive, aveva dovuto constatare come per lui l’Arte veramente non si fosse ridotta ad altro che ad «une sottise», ad una sciocchezza.

Esaurite insomma tutte le chances della letteratura, rotti i ponti con ogni morale, sorpresosi sul punto dell’«ultimo crac», con coraggio e con sbalorditiva fermezza s’era imposto di ritrovare le «chiavi dell’antico festino», del festino in cui «tutti i vini scorrevano e tutti i cuori s’aprivano»; per decifrarne i limiti e comprenderne gli inganni aveva cominciato a ripercorrere le strade invano frequentate un tempo, a sfogliare insomma il suo « taccuino di dan­nato »; a sfogliarlo sin dai primi segni sin dalle più arcaiche cifre.

rimbaud_disegnoInsomma, colui che aveva amato «asciugarsi al vento del delitto», colui che aveva innalzato «la sventura a suo dio» e che irridendoli aveva invocato «carnefici e flagelli», colui che s’era divertito a tirare «degli ottimi tiri alla pazzia», s’apprestava ora a scoprire, a se stesso e al mondo, gli incontrollati meccanismi della propria coscienza.

Lo conduceva una fatalità, anzi, a meglio dire, un’irreversibile necessità: dalla sua stessa bocca doveva infatti uscire la parola che avrebbe proclamato tutte le sue infamie e le sue vergogne, dalla sua stessa penna si sarebbe dipartita la luce che avrebbe impietosamente inchiodato alle pagine anche le più segrete convulsioni della sua anima.

Certo, che ogni sussulto, ogni battito della sua straordinaria avventura spirituale si fosse originato dalla devastante coscienza di un’Assenza, di un vuoto lo si sarebbe capito subito, sin dal succedersi delle prime parole, sin dall’articolarsi delle prime sillabe: tuttavia bisognava, era cioè necessario che di ogni ipotesi, costruita per cancellare o placare quell’assenza, si riferisse la storia. Per fissarsi a vicenda definitivamente e biblicamente esemplare, la parabola di Rimbaud doveva esaurire in se tutti i tentativi, in se consumare e bruciare tutte le risposte; doveva esaurirli e consumarle, per evitare che appestassero poi l’intera umanità.

Era, la sua, la vocazione di un mistico, di un mistico al quale, anziché sperimentare sulla propria persona le vibrazioni e anche l’eccedere di una Presenza, fosse toccato di lasciarsi inghiottire dal baratro di una negazione; di un mistico la cui ascesi prevedeva appunto, come catarsi, un viaggio all’inferno.

Da vero grande mistico Rimbaud non s’era però limitato alla pur totale ed esclusiva dedizione ad un destino (al destino cioè impostogli da quella Voce, che pur senza mai rivelarglisi incessantemente lo chiamava); cercava bensì di fare di quel destino anche una strada verso una possibile purificazione. Così dopo aver consumato la sua atroce stagione negli infuocati regni di Lucifero, il poeta adolescente approdava all’ultima inaspettata sponda, all’ultimo, straordinario capitolo: Adieu (Addio, riportato a pagina IV).

Di se stesso aveva rivelato tutto, non aveva taciuta nessuna delle perversità della sua anima ed ora, con la medesima saldissima coscienza, non gli restava che inchinarsi «alla realtà rugosa», che proclamare al mondo d’essersi «nutrito di menzogna», che domandarne infine scusa. Solo dopo tale suprema ammissione anche per lui poteva scoccare «l’ora nuova», anche per lui poteva cominciare la «vigilia»; anche a lui insomma, veniva dato d’incamminarsi con «ardente pazienza» verso «le splendide città».

Questa tuttavia non è che la conclusione: prima in poche decine di pagine s’era infatti sdipanato il transitus infernale; in poche decine di pagine che non potendo qui ed ora, per ovvie ragioni, ripercorrere riga per riga, come invece sarebbe stato necessario, toccherà quindi al lettore affrontare, nel caso naturalmente non v’avesse invece già pensato, con la dovuta, estrema attenzione; affrontarlo non senza essersi prima armato tanto di un po’ di pazienza quanto della necessaria, ferma persuasione che non tutto della Saison può venir decifrato e che a nessuna filologia riuscirà di snidare la oscurità che assedia talune parole e talune affermazioni. Quanto a noi, invece, non ci resta che far seguire una rapida traccia, giusto necessaria a che il nostro discorso possa giungere a conclusione.

Aveva cominciato da lontano l’adolescente poeta di Charleville; era andato a cercare le radici, i germi anzi della sua notte in Inferno sin nell’anima dei suoi arcaici antenati, cioè presso i Galli da cui infatti non solo aveva derivato «occhi d’un azzurro sbiadito, il cervello stretto e la goffaggine nella lotta», bensì aveva anche desunto insieme a tutti i vizi pure l’idolatria e l’amore per il sacrilegio.

Sin dalla sua infanzia aveva avuto in orrore ogni mestiere e quanto all’azione, quanto a questo «prediletto cardine del mondo» l’aveva sempre ritenuto un inutile sciupio di forze: certo per lui che metaforicamente non aveva mani, né «mani da penna ne mani da aratro», tale pericolo di dispersione non sussisteva.

Il suo tallone d’Achille risultava semmai un altro: si sentiva infatti «schiavo di quel battesimo» che avendo impresso anche sulla sua anima il sigillo di un perdono, lo tratteneva in un rapporto d’insopportabile dipendenza; così lui che non tollerava mediazioni verso l’assoluto, aveva intravisto nella satanica strada che lo conduceva alla notte infernale la grande possibilità di scavalcare la barriera oppostagli dal cristianesimo. Una volta compiuta la scelta, una volta affacciatosi al baratro che l’attendeva aveva vissuto un attimo di terrore; poi però la sua lingua carpita da energia demoniaca cominciava a vomitare parole; il fuoco, insomma, « si risollevava insieme al suo dannato».

Nella sua vita e quindi anche nella Saison eran poi seguiti due deliri: il resoconto del primo l’aveva affidato alla bocca della «vergine stolta», «della schiava dello sposo infernale», alla bocca insomma di Verlaine; il quale rievocando quasi con terrore il suo rapporto con il Demonio Rimbaud, rievocandone anche i termini più scopertamente equivoci, aveva spiegato d’essere stato sedotto da una delicatezza misteriosa, da una carità stregata («Talvolta egli parla in una sorta di tenero dialetto, della morte che fa pentire, degli sventurati che certo esistono, dei lavori penosi, delle partenze che straziano i cuori… Rialzava da terra gli ubriachi nelle strade nere»).

Tuttavia tanti, troppi verbi messi all’imperfetto lasciavano intendere che la vicenda s’era già conclusa: «lo sposo infernale» un giorno se n’era andato molto lontano e nella testa di Verlaine non potevano ormai passare altro che fantasmi.

L’altro dei due deliri riguardava invece la poesia; lì le sue esperienze avevano travolto ogni confine, non avevano accettato alcun limite: all’inizio s’era lusingato «d’inventare un verbo poetico, un giorno o l’altro, accessibile a tutti i sensi»; poi scrivendo silenzi e fissando vertigini s’era via via ridotto all’allucinazione semplice. Voleva «notare l’inesprimibile »: perciò le sue parole tentavano altre articolazioni mentre incantesimi s’affollavano tra le righe; divenne alla fine un’opera favolosa» che certamente le pagine non potevano più riferire e che probabilmente navigava per altri mondi.

La sua vita era «troppo immensa perché si potesse dedicare tutta alla forza e alla bellezza» e così anche con l’arte s’avviava a chiudere i conti. Tra le ultime pagine della Saison, placatisi «i sibili del fuoco, lo strider di denti e i sospiri ammorbati» s’aggiravano infine parole più pacificate, talora di rimpianto («Se il mio spirito fosse stato ben desto, navigherei in piena saggezza; o purezza, o purezza!»), talora di rinnovato ma più soppesato orgoglio, talora di timore; s’ha quasi la sensazione di un risveglio, con la lingua impastata ancora del torpore («Io, non so spiegarmi meglio del mendicante coi suoi perpetui Pater e Ave Maria. Non so più parlare!»), con gli orrendi sogni della notte che lentamente tra diradati sussulti svaniscono: presto però la lucidità torna mattatrice e l’ultima pagina della Saison può sdipanarsi con la consueta decisiva fermezza.

Appunto con la fermezza di quell’ultimo capitolo non ha fatto i debiti conti tanta cultura dissacratrice e negativa del presente secolo; cultura — ma sarebbe meglio chiamarla malcostume culturale — che fondando il proprio generico, inutile ribellismo su di un’interpretazione viziata oltre che parziale di Rimbaud, non leggeva tra quelle righe, emessa con decenni d’anticipo, la sanzione della propria condanna e della propria fine; cultura che oltretutto non solo non ha pagato la gravita dei propri asserti ma che, su quegli asserti, ha costruito cinicamente una scala verso il potere (e dov’è finita l’Africa di Rimbaud, dove le parole che gli eran bruciate dentro sino all’ultimo giorno?).

Presto infatti sulla vicenda del poeta adolescente avevano cominciato ad aleggiare in gran quantità leggende e interpretazioni del tutto improbabili e faziose. E’ costitutivo infatti di tanta troppa civiltà di questi nostri tempi il non sapere creare, anche di fronte ai più vistosi segni dei tempi, che effimeri e labili miti; come appartiene sempre a quella civiltà l’opposta ma poi tanto simile tendenza a sfatare e diffidare di tutto in nome d’una presunta, cieca razionalità.

A tale sorte non poteva sfuggire neanche la straordinaria meteora di Rimbaud, quella meteora che pur portava su di sé, impressa nell’anima, il segno anzi il marchio della propria sete d’assoluto, della propria condizione di mistico sia pure allo stato selvaggio; di mistico cioè cui non era stato dato di riconoscere e dar nome alla Voce che lo assillava.

Che solo uno scrittore rimasto fuori da ogni mischia e da ogni gazzarra quale Paul Claudel abbia saputo vedere dentro la vicenda di Rimbaud i segni che questa portava agli uomini (tanto da fondare, poi, su quella vicenda, la propria conversione), crediamo confermi infine talune nostre considerazioni; prime tra tutte quelle che, dando ori-gine a questi inserti, riguardavano la necessità di vedere con altri occhi e sotto altra luce tanti capisaldi della cultura del nostro secolo.

 

CHANSON DE LA PLUS HAUTE TOUR

Oisive jeunesse A tout asservie, Par délicatesse J’ai perdu ma vie. Ah! Que le temps Vienne

6 Où les coeurs s’éprennent.

 

Je me suis dit: laisse, Et qu’on ne te voie: Et sans la promesse De plus hautes joies. Que rien ne t’arrête

12 Auguste retraite.

 

J’ai tant fait patience Qu’à jamais j’oublie; Craintes et souffrances Aux cieux sont parties. Et la soif malsaine

18 Obscurcit mes veines.

 

Ainsi la Fratrie A. l’oubli livrèe, Grandie, et fleurie D’encens et d’ivraies Au bourdon farouche

24 De cent sales mouches.

 

Ah! Mille veuvages De la si pauvre âme Qui n’a que l’image De la Notre-Dame! Est-ce que l’on prie

30 La Vierge Marie?

 

Oisive jeunesse A tout asservie Par délicatesse J’ai perdu ma vie. Ah! Que le temps^ vienne

36 Où les coeurs s’éprennent!

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CANTO DELL’ULTIMA TORRE

Gioventù trasognata a tutto sommessa, sensibil finezza m’ha dispersa la vita. Ah! I tempi vengano

6 ove i cuori s’incendiano.

 

Mi dissi: abbandona, più nessun t’abbia a scorgere: non attender promessi gaudi oltre la morte. Nulla mai ponga fine

12 al ritiro sublime.

 

Il molto patire ormai non ricordo; soffrire e temere nei cicli ora sono. La mortifera sete

18 m’oscura le vene.

 

Così sia: Prateria all’oblio liberata, dilatata, e fiorita d’incensi e zizzania al ronzare feroce

24 di sudice mosche.

 

Ah! Innumeri distacchi dell’anima  smarrita cui resta, solo immagine, la Vergine Maria! Viene invocata

30 l’Intatta?

 

Gioventù trasognata a tutto sommessa, sensibil finezza m’ha dispersa la vita. Ah!   I tempi vengano

36 ove i cuori  s’incendiano!

UNA STAGIONE IN INFERNO 

ADDIO

Già l’autunno! — Ma perché rimpiangere un eterno sole, se siamo già impegnati alla scoperta della chiarità divina, — lontano dalle genti che sulle stagioni muoiono.

Autunno. La nostra barca alta nei vapori immobili si volge al porto della miseria, città enorme dal ciclo macchiato di fuoco e di melma. Ah! le vesti marce, il pane intriso di pioggia, l’ebrezza, i mille amori che m’hanno crocifisso! Non la smetterà dunque mai questa làmia regina di milioni d’anime e di corpi morti e che saranno giudicati ! Mi rivedo con la pelle corrosa dal fango e dalla peste, pieni di vermi i capelli e le ascelle e vermi ancor più grossi dentro il cuore, disteso tra sconosciuti senz’età, senza sentimento … Avrei potuto morirvi… Orrenda evocazione! Detesto la miseria.

E temo l’inverno perché è la stagione delle comodità!

— A volte io vedo nel ciclo lidi sconfinati, coperti di bianche nazioni giubilanti. Un grande vascello d’oro, alto sopra di me, agita le sue bandiere multicolori sotto le brezze del mattino. Io ho creato tutte le feste, tutti i trionfi, tutti i drammi. Io ho provato ad inventare nuovi fiori, nuovi astri, nuove carni, nuove lingue. Io ho creduto d’acquisire poteri soprannaturali. Ebbene! ora devo sotterrare la mia immaginazione e i miei ricordi! Bella gloria d’artista e di narratore andata in malora! ,

Io! io che mi ero detto mago o angelo, dispensato da ogni morale, eccomi restituito al sole, con un dovere da cercare, e la realtà rugosa da stringere! Bifolco!

Sono ingannato? La carità sarebbe forse sorella della morte per me?

Alla fine domanderò perdono per essermi nutrito di menzogna. E andiamo.

Ma neppure una mano amica! e dove trovare soccorso?

Sì, l’ora nuova è per lo meno assai severa.

Ad ogni modo posso dire che la vittoria è mia: lo stridore di denti, i sibili del fuoco, i sospiri appestati si placano. Tutti i ricordi immondi si cancellano. I miei ultimi rammarichi si dileguano, — gelosie per mendicanti, briganti, amici della morte, minorati d’ogni specie —. Dannati, se io mi vendicassi!

Bisogna essere assolutamente moderni.

Niente cantici: mantenere il passo conquistato. Dura notte! Il sangue rappreso fuma sul mio volto e dietro non ho nient’altro che quest’orribile arboscello! … Il combattimento spirituale è brutale quanto la battaglia tra uomini; ma la visione della giustizia è piacere di Dio solamente.

Intanto è la vigilia. Accogliamo tutti gli influssi di vigore e di reale tenerezza. E all’aurora, armati di un’ardente pazienza, accederemo alle splendide città.

A che parlavo di mano amica! Gran privilegio, è che io possa ridere dei vecchi amori menzogneri e investire d’infamia queste coppie bugiarde, — ho visto l’inferno delle donne laggiù; — e mi sarà lecito possedere la verità in un’anima e in un corpo.

aprile-agosto 1873