Multiculturalismo e “cittadinanza breve”

n. 957/01 del 02 settembre 2006

La proposta di abbreviare a soli 5 anni l’acquisizione della cittadinanza italiana suscita opposizioni e perplessità. La cittadinanza deve essere un punto di arrivo al termine di un percorso di integrazione e non un modo per creare enclaves multiculturali, causa di disgregazione del tessuto sociale e culturale italiano e base per futuri, inevitabili, conflitti.

IMMIGRAZIONE: l’equivoco del multiculturalismo. Di islamismo radicale si parlava, fino a qualche tempo fa, solo in relazione al terrorismo. Gli ultimi fatti di cronaca nazionale e internazionale mostrano che la realtà è molto più allarmante. Il recente sondaggio sui musulmani in Europa del PEW (www.pewglobal.org), citato da Timothy Garton Ash su la Repubblica dell’11 agosto e da Magdi Allam sul Corriere della Sera del 15, conferma queste preoccupazioni.

In Gran Bretagna, sottolinea Allam, l’81% dei musulmani si considera innanzitutto detentore di una identità islamica e solo il 7% dichiara di essere in primo luogo britannico. «È sconvolgente – scrive a sua volta Ash – che quasi un musulmano britannico su tre, di età compresa tra i 18 e i 24 anni, abbia detto che preferirebbe vivere sotto la Shariá islamica piuttosto che sotto la legge britannica».

Gli immigrati che entrano in Europa lasciano tutto dietro le loro spalle, ma non la loro identità culturale e religiosa. Essi sono prima musulmani, e poi inglesi, o francesi, o italiani. L’islamizzazione della società rappresenta un ideale anche per i così detti musulmani moderati che si propongono – legittimamente dal loro punto di vista – di occupare quegli spazi pubblici e sociali che gli europei abbandonano, richiamandosi a una concezione intimistica della fede, che Papa Benedetto XVI definisce «ghetto della soggettività».

Per questi musulmani, la patria è l’Umma, la comunità universale dei credenti nel Corano, che abbraccia tutti i Paesi in cui è, o sarà, stabilita, la Shariá, la legge islamica. L’elemento unificante dell’Umma è la lotta all'”infedele” che costituisce un “nemico” per ogni musulmano osservante, radicale o moderato. Lo slogan dei Fratelli musulmani, rappresentati in Italia dall’Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche (UCOII) recita: «Allah è il nostro programma, il Corano la nostra costituzione, il Profeta il nostro leader, il combattimento la nostra strada, la morte per la gloria di Dio la più grande delle aspirazioni!».

Questo tipo di programmi possono prosperare in Europa solo in un contesto multiculturale, ovvero in un quadro sociale che garantisce lo sviluppo separato e paritetico delle diverse etnie e culture, come è accaduto nel Regno Unito, con le conseguenze che sono sotto i nostri occhi. L’equivoco nasce dall’equiparazione tra il fattore etnico e quello culturale. Una popolazione multietnica può costituire un elemento di arricchimento solo a condizione di non pretendere di essere multiculturale, ma di accettare di vivere all’interno di una identità culturale comune, di una cornice di valori condivisi, di una tradizione accettata e rinnovata nel vissuto di ogni giorno.

Una pluralità di etnie può convivere tranquillamente all’interno di una stessa cultura, come è accaduto nelle due Americhe cristiane: quella protestante del nord e quella cattolica del sud. Se invece la società multietnica si trasforma in società multiculturale, se l’etnia diventa cultura, la pluralità delle identità etno-culturali porta inevitabilmente alla conflittualità. Il multiculturalismo innalza muri tra le culture, crea ghetti, attizza il conflitto etnico e religioso.

Per questo, il vero problema oggi, non è di abbreviare o allungare i tempi richiesti per la cittadinanza, ma di comprendere i pericoli del multiculturalismo.  L’identità culturale di una nazione è coesiva, non conflittiva: è un fattore di integrazione e di inclusio-ne sociale, e quindi di stabilità e di pace sociale.

IMMIGRAZIONE: la cittadinanza italiana in solo 5 anni? Il 4 agosto 2006, il Consiglio dei Ministri ha approvato il nuovo disegno di legge che facilita la cittadinanza italiana per gli immigrati; tale legge però, per diventare operativa, dovrà essere confermata dal Parlamento.

Se la precedente normativa, risalente al 1992, stabiliva che un immigrato, per ottenere la cittadinanza italiana, deve essere stato residente sul nostro suolo per almeno 10 anni, la nuova legge dimezza in 5 anni il termine minimo di attesa regolare e ininterrotta. Inoltre, i figli nati in Italia da un genitore straniero che vi ri-siede dal almeno 5 anni, diventeranno automaticamente cittadini italiani; tuttavia, una volta compiuta la maggiore età, potranno decidere se mantenere questa cittadinanza o rinunciarvi, in quanto, come ha detto il ministro degli Interni Giuliano Amato, «la cittadinanza è un diritto ma non un obbligo».

Del resto, questa non è più legata al principio della discendenza (jus sanguinis), fattore naturale e irrevocabile, ma a quello della mera residenza (jus soli), fattore arbitrario e revocabile. Come ha osservato con soddisfazione Franco Pittau, coordinatore del dossier della Caritas sui migranti, «la novità è culturale: l’Italia ha accettato di essere diventata terra d’immigrazione».

Gli studiosi valutano che, in questo modo, le richieste di cittadinanza si raddoppieranno e gli immediati beneficiari della nuova norma saranno circa 900.000 stranieri adulti e oltre 300.000 minorenni; entro il 2008, gli immigrati diventati cittadini italiani potranno salire a circa 1 milione e mezzo.

IMMIGRAZIONE: critiche alla legge sulla “cittadinanza rapida” Da quando il Governo ha approvato la nuova norma sulla “cittadinanza rapida” per gli stranieri, le discussioni non si sono più fermate. Nonostante il ministro Amato abbia precisato che questa facilitazione verrà accompagnata e condizionata da «una reale integrazione dello straniero sul territorio», per tutto il mese di agosto sono piovute le critiche. Esse sono state accresciute da alcuni fatti recentemente accaduti, come la nuova ondata degli sbarchi d’immigrati sulle coste siciliane e il dramma di città, come Padova e Sassuolo, alle prese con disordini e delinquenze provocati da gruppi extracomunitari.

Il commissario europeo Franco Frattini, intervistato da Il Giornale (12 agosto 2006), ha osservato che non si è riflettuto né provveduto sulle condizioni da porre agli stranieri affinché l’acquisizione del diritto di cittadinanza sia bilanciato dalla corrispettiva assunzione di precisi doveri verso la nazione che li ospita: «Mi sembra una proposta imprudente. Il governo apre le porte senza pretendere nessuna garanzia in cambio.

Più importante dei tempi sono i criteri per la concessione dell’italianità. Occorre un’opera di controllo, per capire se queste persone rispettino e accettino non solo le nostre leggi, ma l’identità e i valori del nostro Paese». Senza questi criteri discriminanti, ammonisce Frattini, «rischiamo di aprire la braccia a persone che possono portare dentro casa nostra la violenza.La cittadinanza può diventare un’arma pericolosa, un’arma in più per i fondamentalisti. Non c’è dubbio che questi soggetti diventino estremamente pericolosi, quando sono cittadini dei nostri Paesi, perché non c’è più la possibilità di espulsione. C’è il rischio di kamikaze col passaporto».

Secondo il Commissario, «finora in Italia non è accaduto nulla, perché il nostro Paese non ha seguito il modello di un’accoglienza senza condizioni: e questo ha portato i suoi frutti. L’Europa ha invece espresso finora modelli perdenti. Il modello inglese ha fallito perché privo di verifiche sulla reale disponibilità ad integrarsi»; lo stesso vale per la libertarie politiche francese e olandese, che oggi devono fare i conti con enclaves immigrate animate dall’odio antioccidentale.

Il senatore Carlo Giovanardi (UDC) pone alcune condizioni all’assunzione della cittadinanza: «la prima è che chi vuole diventare cittadino del nostro Paese deve sentirsi italiano, volere che i figli si sentano orgogliosamente eredi di un immenso patrimonio artistico e culturale e di una grande storia, dalle profonde radici cristiane. La seconda condizione è che continui ad esistere una società italiana dentro la quale gli extracomunitari possano integrarsi, soprattutto l’istituto della famiglia. (…) È illusorio parlare da un lato d’integrazione e dall’altro immaginare d’introdurre ulteriori elementi di disgregazione in una società già in crisi (vedi riconoscimento di matrimoni gay, Pacs intesi come matrimoni di serie b, fecondazione artificiale per le single, eccetera)».

Inoltre, chi sceglie di diventare italiano deve giurare fedeltà alla Repubblica e rinunciare alla cittadinanza di origine; chi non se la sente di italianizzarsi, una volta che ha capitalizzato le conoscenze e la pratica lavorative acquisite da noi, torni nel proprio Paese di origine per aprire un’attività. Infine il senatore ammonisce che «con una politica sbagliata sull’immigrazione si prospetta un futuro da incubo, specialmente quando s’innesta un fenomeno di squilibrio tra visioni troppo diverse di valori fondamentali: Libano, Bosnia, Kosovo e ultimamente Francia e Inghilterra stanno lì a testimoniarlo. (…) Nelle nostre città convivono oggi immigrati di più di 100 etnie diverse. Guai a immaginare che si possano tollerare situazioni come quelle esplose a Sassuolo e a Padova, dove interi quartieri sono diventati pezzi di Maghreb trapiantati in Italia, che godono di una sorta di extraterritorialità» (Il Giornale, 26 agosto 2006).

L’on. Maurizio Sacconi (FI) ammonisce che «la miscela esplosiva prodotta dal Governo consiste nella combinazione di due politiche lassiste: quella rivolta ai flussi migratori annuali secondo una logica di sanatoria permanente e quella rivolta al conseguimento della cittadinanza secondo un dimezzamento dei termini. Queste due politiche sommate sono destinate a produrre flussi incontrollabili per professionalità e per provenienza geopolitica, destinati poi a tradursi in facile cittadinanza».

L’ex ministro degli Interni Giuseppe Pisanu, intervistato da la Repubblica (8 agosto 2006), ha osservato con sconcerto che, «mentre nei maggiori Paesi europei s’impongono misure restrittive per l’immigrazione regolare e controlli severissimi per quella clandestina, in Italia si lanciano segnali irresponsabili di apertura», che favoriscono la tratta internazionale degli stranieri verso i nostri confini.

Il governatore della Regione Veneto, Giancarlo Galan, ha ammonito che «se l’arrivo non è programmato, se non è misurato su autentiche possibilità di un civile inserimento nella nostra comunità, si è posti di fronte a condizioni proprie di una barbarie pura». L’on. Maurizio Paniz (FI) ha obiettato che «cinque anni sono pochi; anche agli Italiani nel mondo non è quasi mai concesso in un simile lasso di tempo un pieno diritto di cittadinanza in un’altra nazione».

Anche esperti di matrice progressista e favorevoli alla nuova normativa avanzano preoccupazioni sulle conseguenze della sua applicazione, se non bilanciate da una effettiva integrazione culturale dei nuovi cittadini. Ad esempio il noto demografo Giancarlo Blangiardo, intervistato da Avvenire (9 agosto 2006), avverte che «agli aspiranti cittadini italiani vanno chieste scelte conformi. Non dobbiamo aver timore d’indicarle con chiarezza.

In ogni Paese civile è così, ed è l’unico modo per arrivare ad una stabilizzazione degli stra-nieri e ad una piena e pacifica integrazione nella società italiana. (…) Lo Stato ha insomma il diritto di chiedere la piena accettazione del modo di vivere italiano; questo è indispensabile».

Inoltre, secondo lo studioso, lo Stato dovrà prendere precise precauzioni per evitare gravi conseguenze sociali: «La prima è eliminare muri di separazione tra italiani e stranieri nel mondo del lavoro»; la seconda è «evitare i ghetti etnici fra gli immigrati e fare in modo che non ci si faccia forza del gruppo etnico per emergere, ma delle proprie capacità espresse all’interno della società italiana. È anche il modo per evitare tanti mondi paralleli nelle nostre città e scongiurare quindi il rischio di scontri etnici fra gruppi rivali. Questo richiede alla società italiana tutta d’incentivare iniziative per far nascere sistemi di relazioni forti trasversali», ossia interetnici. La terza precauzione è «evitare che si creino scuole etniche o a maggioranza di stranieri; si diventa cittadini italiani stando a scuola assieme».

IMMIGRAZIONE: perplessità e timori del mondo cattolico sulla nuova legge La novità è però rappresentata dal fatto che alcuni autorevoli esponenti dell’associazionismo cattolico, anche progressista, hanno sollevato perplessità ed espresso preoccupazioni per una legge che concede la “cittadinanza facile” agli stranieri.

Padre Bruno Mioli, direttore della Fondazione Migrantes, ha osservato che «il diritto di cittadinanza va guadagnato. È giusto mettere paletti, come la verifica di un’adeguata conoscenza della lingua e della nostra cultura. Sarebbe controproducente, se la cittadinanza scattasse automaticamente». Andrea Oliviero, presidente delle ACLI, ha ammonito che, «stabiliti i diritti, i nodi sono i doveri. Il 65% delle famiglie immigrate vuole restare in Italia. Con loro occorre tener fermo il principio che chiedere di diventare italiani è un punto di arrivo di un percorso d’integrazione». Analoghi giudizi sono stati espressi da Savino Pezzotta, ex capo della CISL.

Lo stesso quotidiano della CEI, Avvenire, ha avanzato riserve, perplessità e preoccupazioni. L’editoriale del 5 agosto 2006, firmato da Giorgio Paolucci, premette che «la cittadinanza è, o dovrebbe essere, la forma giuridica di un contenuto alto, certificando l’appartenenza a una comunità e la condivisione di una serie di valori fondanti».

Ma poi si pone il problema: «Accadrà davvero così? L’allargamento delle maglie che viene prospettato favorirà i processi d’integrazione, o rischia di dare disco verde anche a persone che vogliono semplicemente sfruttare i vantaggi derivanti dall’acquisizione di certi diritti senza sottomettersi ai relativi doveri? L’interrogativo è di rigore, se si vuole governare l’immigrazione anziché subirla, trasformarla in una opportunità anziché farla diventare una minaccia. (…) Troppi sono gli immigrati che, dopo anni di permanenza, rimangono sostanzialmente estranei alla società in cui vivono, ignorando i principi che la governano: troppi sono i ghetti urbani in cui si riproducono logiche ostili a quelle che sostanziano il tessuto sociale della nazione; troppe le ostilità di natura etnica che portano alla ribalta l’esistenza di “terre di nessuno” dove la legge del più forte sostituisce quella del Paese». Dopo aver criticato quel “multiculturalismo automatico” che prospetta una falsa integrazione “a macchia di leopardo” basata sui ghetti etnici impermeabili e conflittuali, Paolucci ammonisce: «non è un passaporto che fa l’integrazione, né la cittadinanza può essere un punto di partenza, semmai rappresenta il traguardo di un preciso percorso a tappe: un itinerario fatto di conoscenza (obbligatoria) della lingua, della storia, delle tradizioni, dei principi giuridici che fondano il Paese di cui si vuole diventare parte integrante. Su questo terreno l’Italia è deficitaria».

In conclusione, poniamo anche noi un problema. Se la cittadinanza per gli stranieri può essere solo il punto di arrivo di un lungo e difficile processo d’integrazione nel quale siamo manchevoli e che può essere messo in crisi se si concede la cittadinanza con fretta e faciloneria, allora perché il Governo pretende che la “cittadinanza facile” vada posta come punto di partenza per arrivare all’integrazione extracomunitaria?

Non lo farà appunto per impedire la vera integrazione organica e favorire quella falsa sognata dal multiculturalismo, suscitando fattori dissolventi che porteranno al conflitto e al caos?