«Cristeros», quell’eccidio dimenticato

Avvenire, 27 luglio 2006

La sommossa popolare scoppiò per reagire alla chiusura degli istituti religiosi da parte del governo rivoluzionario salito al potere nel 1924. La guerra di tre anni che sconvolse il Messico vide schierati in massa i «peones» cattolici contro il generale Calles, che aveva espropriato la Chiesa dei suoi beni. Il loro nome deriva dal culto del Sacro Cuore Una seconda rivolta in tono minore scoppiò negli anni ’30 a causa degli accordi sottoscritti dal governo con la Santa Sede ma mai rispettati. Incerti i dati sugli uccisi, almeno 70mila le vittime

di Franco Cardini

È una vecchia questione, alla quale bisognerebbe cominciar a porre sistematicamente fine. I cattolici non conoscono la propria storia: il che li espone non solo a continui fraintendimenti, ma – come ha ampiamente dimostrato la tragicommedia del successo dei romanzi di Dan Brown – li obbliga a restare al rimorchio delle manipolazioni culturali altrui.

Un solo esempio: la vicenda della cosiddetta “guerra cristera”, che sconvolse il Messico fra 1926 e 1929, di cui proprio il 30 luglio ricorre il settantesimo anniversario dell’inizio. Cristeros, o cristosreyes, furono ironicamente battezzati dai loro nemici i popolani e i contadini messicani che 70 anni fa ebbero il coraggio d’insorgere, contro un potere empio e oppressivo che umiliava le loro tradizioni e offendeva la loro fede.

Il nome deriva dalla variabile messicana del culto del Sacro Cuore, avviato nella Francia del 1793 dai partigiani cattolici di Bretagna e Vandea, e al quale il mondo cattolico aveva dedicato il ritorno alla pace, nel 1918: com’è testimoniato dalla basilica parigina dedicata appunto al Sacré Coeur.

Nel 1925, con l’enciclica Quas primas, Pio XI aveva istituito la festa del Cristo Re. Ma la regalità del Cristo era una dimensione in realtà amata e adorata fin dal medioevo: e ciò specialmente in Spagna e nei paesi del suo ex impero coloniale. Se ne ricordarono appunto i fedeli messicani, stanchi delle umiliazioni e delle sopraffazioni alle quali li sottometteva un ceto dirigente fatto di proprietari terrieri, speculatori e intellettuali profondamente guadagnati alla causa dell’anticlericalesimo d’origine giacobina e massonica.

Si trattava di quei medesimi ceti che ch’erano stati l’anima della liberazione dell’America latina dalla soggezione alla corona spagnola: e il laicismo massonico era stata l’anima spirituale e culturale di quella rivolta.

Dopo la lunga crisi postcoloniale, il tentativo d’un neoimpero asburgico sostenuto da Napoleone III terminato nel 1867 con l’assassinio di Massimiliano d’Asburgo, la reforma liberale, il lungo trentennio di dittatura di Porfirio Diaz e i complessi avvenimenti rivoluzionari dei quali noi a malapena ricordiamo i nomi di Villa e di Zapata, era asceso alla presidenza del paese nel 1924 il generale Plutarco Elías Calles, capo del partito “rivoluzionario istituzionale” e fautore di una politica statalista e progressista che in un primo momento lo mise in urto con le banche americane e inglesi che dominavano la politica nazionale e sfruttavano le risorse del paese.

Ma si trattava di nemici troppo potenti, con i quali Calles dovette presto venire a patti. Era necessario un diversivo demagogico, in grado di distogliere le attenzioni del popolo deluso per il fatto che i grandi programmi di riforma agraria e di nazionalizzazione delle risorse, sbandierati sulla carta, si erano risolti in una bolla di sapone e i ceti privilegiati erano tali più di prima.

Calles individuò un comodo capro espiatorio nella Chiesa cattolica, accusata di detenere grandi proprietà agrarie (ma si guardò bene dal ricordare che i proventi di esse erano largamente usati a scopo sociale) e di plagiare i giovani con le sue scuole. Il Calles ordinò pertanto la nazionalizzazione dei beni della Chiesa e la chiusura degli istituti cattolici d’istruzione.

La repressione non si arrestò lì: gli ordini religiosi vennero sciolti, le organizzazioni cattoliche dichiarate fuorilegge, ai preti fu proibito d’indossare l’abito talare, si proibirono pellegrinaggi e processioni. Solo la Francia giacobina era giunta a tanto: neppure la Rivoluzione bolscevica – passati i primi, più duri tempi – aveva osato ricorrere a una repressione antireligiosa così radicale. La risposta cattolica fu d’una decisione e d’un coraggio esemplari.

Prima che la nuova disciplina antiecclesiale entrasse in vigore, venne fondata una Lega nazionale di difesa della libertà religiosa, mentre l’episcopato messicano, d’intesa con la Santa sede, in considerazione dell’inaudita situazione decretò la sospensione immediata e totale di ogni forma d’esercizio pubblico di culto.

Ma i peones delle campagne non accettarono quella che parve loro una vile rinunzia alla difesa: e insorsero in armi, sprovvisti del consenso sia dell’episcopato, sia del Vaticano. Molti furono i martiri, il più noto è il sacerdote gesuita Miguel Agustín Pro, beatificato da Giovanni Paolo II nel 1988.

La guerriglia dei cristeros, cominciata nell’agosto del 1926, proseguì con l’appoggio quasi corale del popolo messicano, contro le truppe federali e le feroci milizie reclutate dagli agrari e dette perciò agraristas. La resistenza fu dura specie nella parte centromeridionale del Messico. L’arrivo a capo degli insorti di un giovane ma esperto generale, Enrique Gorostieta Velarde, conferì alle raccogliticce milizie cristere la configurazione militare e la disciplina necessarie: si organizzarono corpi di cavalleria e d’artiglieria che dettero filo da torcere all’esercito federale.

Combatteva anche una brigata femminile intitolata a Giovanna d’Arco. Vittoriosi anche in grandi scontri sul campo, i cristeros erano sul punto di veder incoronata dal pieno successo l’insurrezione quando il governo, entrato in contatto diplomatico con le gerarchie cattoliche e con la Santa sede, propose di venire a patti. Furono pertanto frettolosamente sottoscritti degli Arreglos che peraltro non vennero mai pienamente rispettati da parte governativa.

La persecuzione e il “regolamento di conti” contro gli insorti riprese e venne condotta avanti a livello endemico. Ciò causò fra ’34 e ’38 una ripresa in tono minore dell’insurrezione, la Segunda, cui rispose un ulteriore giro di vite. La “questione cristera” non è mai stata davvero risolta: ha lasciato una lunga scia di sangue e di vendette. Si calcola che, solo nella sua fase “calda”, sia costata al Messico dalle 70mila alle 85mila vittime. Queste ferite sono ancora più aperte di quanto non si creda.

Anticlericalismo di Stato e appoggio alle sètte protestanti impegnate a corrodere il tessuto popolare cattolico delle campagne messicane sono ancora all’opera. La “strategia della mano tesa” non può dimenticare questo aspetto della questione, in un momento nel quale in tutto il continente latinoamericano l’anticattolicesimo conosce una fase di recrudescenza, sia pur per motivi forse strumentalmente politici.

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