Non sempre cantando si impara

G_PaoliVita Nuova. Settimanale cattolico di Trieste – Anno 9513 marzo 2015

Gino Paoli: il nero in una stanza (del PD). La recente vicenda di cronaca che ha riguardato l’artista monfalconese

di Giuseppe Brienza

Cantando non sempre si impara, si potrebbe dire parafrasando il titolo della bella rubrica tenuta da Fabio Trevisan su Vita Nuova. Cantando le canzoni di Gino Paoli (1934), cantautore della scuola “genovese” con un passato da bohémien, autore di tante canzoni tristi e disperate, infatti, il fondato rischio è quello di demoralizzarsi. Per non parlare delle sue interviste e dichiarazioni pubbliche, soprattutto a partire da quel drammatico tentativo di suicidarsi che, nel 1963, lo vide sparare un colpo di pistola dritto al suo cuore, per fortuna sbagliando mira…

Interpellato poi sull’“insano gesto”, il noto cantautore lanciò ai media un irresponsabile messaggio: «Ogni suicidio è diverso, e privato. E’ l’unico modo per scegliere: perché le cose cruciali della vita, l’amore e la morte, non si scelgono; tu non scegli di nascere, né di amare, né di morire. Il suicidio è l’unico, arrogante modo dato all’uomo per decidere di sé».

«Terribili frasi», ha commentato Trevisan nella rubrica dedicata all’artista originario di Monfalcone, la cui vita è stata in effetti caratterizzata dal malessere e dal disordine esistenziale, che lo hanno portato pure all’assunzione e dipendenza da droghe.

Nei testi delle sue canzoni Gino Paoli è fra i precursori di quella concezione dell’amore pseudo-sentimentale, senza legami istituzionali né apertura all’Infinito, che finisce per trasferire nell’umano le aspirazioni e promesse che, piuttosto, dovrebbero essere indirizzate a Dio. Per esempio, nel  grande successo Senza fine canta: «Tu sei un attimo senza fine, non hai ieri e non hai domani… tu per me sei luna e stelle, tu per me sei sole e cielo, tu per me sei tutto quanto, tutto quanto voglio avere».

Ricorda Trevisan, riguardo all’altra famosa canzone di Paoli Albergo a ore, come l’aspirazione alla vita eterna è qui liquidata a squallida parodia: «E ho messo nel letto i lenzuoli più nuovi poi, come San Pietro, gli ho dato le chiavi di quel paradiso e ho chiuso la stanza sul loro sorriso!».

Pur non avendo mai, o quasi, espresso interessi religiosi, Paoli è stato al centro dell’ultimo “Cortile dei Gentili”, chiamato a Bologna lo scorso 26 settembre, ad intrattenere un dialogo niente po’ po’ di meno che con il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del promotore Pontificio Consiglio per la Cultura. Alla fine della conferenza, poi, ne è anche seguito un suo concerto in accoppiata con Danilo Rea.

Il libertinaggio ed il materialismo che hanno punteggiato la vicenda umana e la “testimonianza pubblica” di Gino Paoli si sono riflessi anche nelle scelte fatte a livello politico. Scelte facili negli anni dell’egemonia della sinistra nella cultura italiana, che lo hanno condotto persino all’elezione nel 1987 come deputato del PCI. Dopo la caduta del Muro di Berlino ha poi continuato ad essere fra i testimonial preferiti dell’ala più retrò del PDS-DS-PD, che l’ha da ultimo sponsorizzato per la recente nomina, nel 2013, a presidente della Società italiana degli autori ed editori (Siae).

Ma si è trattato di una decisione infausta alla luce delle recenti cronache giudiziarie che l’hanno coinvolto. Infatti, è notizia di questi giorni, che sono finiti nel mirino della Guardia di Finanza non pochi pagamenti che Paoli avrebbe ricevuto per cantare alla nota kermesse della sinistra, il Festival dell’Unità, da anni ereditata dal PD. Si tratterebbe di compensi “in nero” relativi al periodo nel quale segretario del partito era Pier Luigi Bersani, «lo stesso che ad ogni talk show, a proposito della questione morale, diceva: “I politici non sono tutti uguali; noi del Pd abbiamo le carte in regola, il nostro bilancio è certificato (Gianni Gambarotta, Gino Paoli, il nero in una stanza (del Pd), in Formiche.net, 20 febbraio 2015).

Con le indagini e le conseguenti dimissioni dalla Siae, si chiude idealmente la vicenda di uno dei tanti “profeti” degli anni ’60, che hanno esaltato all’ennesima potenza i temi esistenziali ed individualistici, contribuendo al disagio ed al malessere di tanti giovani. Molti di quelli cresciuti con le sue canzoni, infatti, sono caduti alla fine nell’utopia e nella violenza del Sessantotto.

La “testimonianza” e la cronaca recente riguardante Gino Paoli, che si è professato davanti alle accuse innocente e “persona per bene“, completa il quadro dello sfaldamento della società tradizionale italiana che è stato portato avanti prima con la rivoluzione dei costumi del 1968 e, in seguito, con il completo laicizzarsi dei media e dell’industria dello spettacolo. Quel periodo cruciale della nostra storia vide anche il suicidio (in questo caso riuscito) di un altro noto cantautore italiano, grande amico di Paoli, Luigi Tenco (1938-1967).

Altro “profeta” di pessimismo e disincanto, con canzoni come Vedrai, vedrai, anch’egli ha dato adito con i suoi testi alle amarezze ed alle mal poste speranze di rinnovamento di un’intera generazione. Quella che, disprezzando la società del passato, pur con i suoi limiti e difetti per carità, di lì a poco non saprà fare altro che animare violenze e scontri di piazza e, in parte minoritaria ma significativa, dare sfogo alla sanguinosa “lotta armata” della quale ancora oggi piangiamo i morti innocenti.

Molti stanno parlando in questi giorni di Gino Paoli e delle sue contestate evasioni fiscali (peraltro i soldi in nero sono stati dati al cantautore dai dirigenti, ora Pd, delle Feste dell’Unità, qualcuno sta indagando su di loro?). Ma rubare la speranza di tanti giovani non è forse pecca peggiore per un artista?