Famiglia, unioni di fatto, Pacs

coppia_gayToscana Oggi Settimanale delle diocesi della Toscana del 7 luglio 2006

avvocato Aldo Ciappi

presidente U.G.C.I. – Unione di Pisa

Dei tre nuovi disegni di legge pronti già depositati alla Camera dei Deputati dall’On.le Grillini dei DS, Presidente dell’Arcigay, uno riguarda l’istituzione dei Patti Civili di Solidarietà (PACS), “strumento regolativo pattizio più snello e leggero” per le coppie “che non intendano impostare la propria vita sulla base della regolamentazione civilistica tipizzata dalle norme del matrimonio” (cfr. Relazione alla proposta); una specie di tertium genus tra la famiglia, fondata sul matrimonio e altri tipi di unioni più aperte, di cui, secondo i proponenti, si sentirebbe la necessità per rispondere ad alcune esigenze che salgono dalla società civile.

Le cd. ” unioni di fatto” o “more uxorio” sono definite dalla giurisprudenza come “un mero rapporto di fatto, privo del carattere della stabilità, suscettibile di venir meno in qualsiasi momento e improduttiva di quei diritti e doveri reciproci nascenti dal matrimonio e propri della famiglia legittima” (Corte cost. n. 45/1980). Di recente sono state introdotte anche alcune norme che tengono conto del rapporto di convivenza a certi specifici fini (p. es. l’ art. 5 L. 19.02.04 n. 40 dà la facoltà anche alle coppie di fatto di ricorrere alla fecondazione artificiale).

Tale indirizzo, in merito al quale, per ragioni di spazio, non mi dilungo, è ispirato al principio della “responsabilità genitoriale” verso i figli nati dalle unioni more uxorio, essendo preminente la tutela degli interessi dei medesimi, incolpevoli delle scelte più o meno ponderate dei loro genitori, alla luce del principio stabilito all’ art. 30 Cost. che sancisce il diritto-dovere di “mantenere, istruire ed educare il figli anche se nati fuori del matrimonio“, ed è la riprova della necessità, laddove non esista il vincolo giuridico del matrimonio, di estendere alcuni principi propri dell’istituto familiare oltre i loro confini naturali allo scopo di garantire un’ effettiva tutela dei figli che solo la famiglia stricto sensu può assicurare loro.

La “coppia di fatto” nasce dalla libera scelta dei due partners di non unirsi col vincolo del matrimonio (che riconosce loro un insieme di diritti e di doveri reciproci specificamente tutelati, talvolta, anche sotto il profilo penale – art. 570 c.p.), preferendo ad esso lo status giuridico, certamente meno “impegnativo”, del celibato o nubilato.

Non si può, pertanto, senza cadere in contraddizione insanabile, da un lato, pretendere il mantenimento di una condizione di piena libertà da ogni obbligo giuridico verso il compagno e, dall’altro, invocare dall’ordinamento statuale la tutela giuridica di una situazione che si è scelto, deliberatamente, di non rendere pubblica nelle forme prescritte dalla legge.

Al di là di circoscritte situazioni (p. es. il caso del diritto-dovere di assistenza del convivente verso l’altro che si trovi in condizioni di incapacità di intendere e volere, per es. in caso di grave malattia) a cui l’ordinamento, potrebbe trovare adeguate risposte, anche in via interpretativa, ad hoc, non pare esservi spazio per la creazione di un’ autonoma figura giuridica.

Non vi è necessità di estendere al convivente, per es., i diritti successori, essendo già possibile provvedere allo scopo con una disposizione testamentaria da parte del de cuius, nei limiti, ovviamente, della quota disponibile, essendo una parte del patrimonio riservato ad alcuni soggetti legati da vincolo di parentela (dotati di certezza e stabilità) o le varie agevolazioni, fiscali, previdenziali, amministrative, ecc, giustificate dalle funzioni socialmente rilevanti di cui la famiglia si fa carico (vicendevole aiuto tra i coniugi, assistenza, cura ed educazione dei figli, ecc.).

Le due situazioni (famiglia e coppie di fatto) stanno tra loro (se non altro, per coerente rispetto della volontà delle parti), su piani ontologicamente diversi e non tollerano la presenza di figure intermedie in contrasto con il principio della libertà di dare, o non dare, vita a quella particolare societas naturale, costituzionalmente tutelata, in cui nasce e si sviluppa l’essere umano, luogo in cui le persone (in primis, gli stessi genitori e quindi i figli) trovano, attraverso una “organizzazione di sacrificio”, una “protezione vigorosa di tutte le debolezze e di tutte le inesperienze…” (Giuseppe Capograssi).

Per non parlare poi della questione, tutt’altro che irrilevante, se l’ordinamento statuale, in questa fase storica di grave crisi demografica e di sfrenato soggettivismo, debba guardare, o meno, all’ ulteriore diffusione del fenomeno delle coppie libere con preoccupazione per le future generazioni e, dunque, curarsi, o meno, di promuovere e rafforzare la famiglia come nucleo stabile all’interno del quale possano trovare adeguata accoglienza le medesime.

I cd. “Registri delle unioni di fatto”, con tanta enfasi, ma con poco seguito, adottate da alcuni comuni, tra cui quello di Pisa, non hanno, per sé, alcuna rilevanza giuridica e, nella misura in cui sono funzionali a mettere sullo stesso piano, nelle politiche sociali, la famiglia con dette unioni, contrastano con i principi generali dell’ordinamento.

Se ciò è vero per le coppie di fatto eterosessuali, a maggior ragione nessuna rilevanza giuridica pubblica potrebbero avere le coppie omosessuali che, nella definizione di cui alla proposta Grillini,  (cioè “l’accordo – risolvibile in qualunque momento; cfr. art. 16 – tra due persone, anche dello stesso sesso, stipulato al fine di regolare i rapporti personali e patrimoniali relativi alla loro vita in comune” art. 2) rientrano, a pieno titolo, nei PACS.

Per cercare un fondamento giuridico a questa figura sono invocati i principii costituzionali dell’art. 2 (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità…”) e dell’art. 3 (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religioni politiche, di condizioni personali e sociali…”); in base ad essi l’ordinamento dovrebbe garantire anche agli omosessuali conviventi la possibilità di accedere al matrimonio, o comunque ad un riconoscimento del loro legame affettivo sub species iuris.

Nessuno, certo, potrebbe impedire ad un gruppo di persone legato da comuni interessi (e, dunque, anche persone omosessuali) di dar vita ad associazioni rette da regole proprie e atte a fornire ai singoli sostegno morale, economico, ecc. (con il solo limite di non perseguire finalità ed interessi contrari all’ordine pubblico).

Ma, intanto, è legittimo chiedersi in base a quale principio si decide di limitare a due soggetti soltanto l’accesso a questa “formazione sociale” del patto civile? Perchè, ad esempio, seguendo il ragionamento dei proponenti, il rapporto “di fatto” poligamico non potrebbe assumere la forma del PACS?

Peraltro, tra le varie formazioni sociali esistenti ve n’è una del tutto particolare che, per la sua obiettiva rilevanza sul piano degli interessi generali (in quanto presiede istituzionalmente alla nascita, allo sviluppo e formazione di nuovi individui della specie umana), non poteva essere lasciata alla mercè della regolamentazione privata ed è, quindi, tutelata con specifiche norme dalla costituzione: l’istituzione della famiglia, anteriore allo stato e comune ad ogni cultura anche precedente al cristianesimo (cfr. Aristotele, Etica Nicomachea), nonchè “cellula primaria” (e quindi fondamentale) su cui si basa una società ordinata (cfr. art. 16 Dichiarazione Universale Diritti Umani, N.Y. 10.12.1948).

Se non si riconoscesse alla famiglia la sua diversità ontologica rispetto ad ogni altra formazione sociale ci si porrebbe in contrasto proprio con quel principio costituzionale di uguaglianza invocato, che impone di riservare uno stesso trattamento a situazioni eguali e, quindi, un trattamento differenziato a situazioni diseguali; (cfr., per tutte, C. Cost. 29.03.1960, n. 15).

Dunque, una figura, questa del PACS, priva di basi giuridiche come gli stessi promotori, nella relazione alla proposta, riconoscono quando affermano che esso “non è strumento atto a perseguire o realizzare la parità di diritti per i cittadini omosessuali” cui dovranno provvedere “altri più specifici ed avanzati () provvedimenti legislativi del resto già formulati da alcuni proponenti la presente proposta di legge () analoghi a quelli già oggi vigenti in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale”: l’obiettivo dichiarato, pertanto, è il matrimonio tout court anche per le coppie omosessuali, con tutto quel che ne consegue, sul piano normativo, in tema di adozione dei figli, di ricorso a fecondazione artificiale, ecc.

Per evitare queste folli derive (purtroppo già sperimentate in alcuni paesi), si deve ribadire, senza cedere a falsi buonismi, che, al di là del contesto istituzionale in cui, per le ragioni sopra dette, è posta la famiglia, tutto quanto attiene alla sfera affettiva (ossia amicizia, affetto, attrazione fisica o spirituale, ecc. ecc.) tra persone di sesso diverso o dello stesso sesso, resta di per sé all’interno “di una logica comunicativa strettamente privata”, indifferente per il diritto, essendo i sentimenti, come l’amicizia ecc., espressioni dell’animo umano “non istituzionalizzabili” (Francesco D’Agostino).

Il diritto fornisce, infatti, alle parti molteplici flessibili strumenti (negozi e contratti) per regolare nel tempo, sotto il profilo giuridico, i loro rapporti ed interessi di vario genere, ma non può, solo al fine di soddisfare particolari aspirazioni di taluni, dar vita a nuove figure giuridiche, da equipararsi alla famiglia, cui non corrispondano quegli interessi rilevantissimi sul piano dell’ordinamento civile.

Il diritto, giova ribadirlo, non è solo l’esito finale del processo di produzione delle leggi, come, invece, affermato dalla scuola della cd. “teoria pura del diritto” (Hans Kelsen), altrimenti le leggi nazionalsocialiste, in quanto prodotte da competenti organi legislativi, tra l’altro democraticamente eletti, non avrebbero potuto essere sottoposte a giudizio da alcun Tribunale Internazionale dei diritti umani (all’epoca di Hitler, peraltro, non ancora istituiti).

Quello sulla “famiglia”, pertanto, non è affatto un dibattito che vede impegnate posizioni confessionali, da un lato, e posizioni di tipo laico, dall’altro, alla stessa stregua di un dibattito che abbia per oggetto i diritti fondamentali dell’uomo (alla vita, alla libertà religiosa, di associarsi liberamente, di iniziativa privata ecc.); è una questione vitale di sopravvivenza di una civiltà.