Il dramma dell’Europa senza Cristo (2)

Il relativismo europeo nello scontro delle civiltà

di Massimo Introvigne

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La trilogia di Stark sul monoteismo si completa nel 2005 con The Victory of Reason (Stark 2005b), dove il sociologo americano tiorna sul tema dibattuto della nascita del capitalismo, della libertà  politica e della scienza moderna, tre temi, secondo Stark strettamente collegati.

Che il capitalismo sin nato nel mondo protestante, per modernizzare la vecchia e polverosa Europa cattolica, come spesso si legge ancora sulla scia di letture spesso neppure di prima mano di Max Weber (1864-1920), è tesi da tempo abbandonata dagli storici e dai sociologi  dell’economia. Si sa che nei comuni medievali italiani e prima ancora intorno ai monasteri, l’economia moderna la cui «invenzione»

È stata attribuita, da Max Weber alla seconda generazione, battista e metodista, del protestantesimo (non già alla prima, luterana e calvinista: Weber 1904-1905), era già fiorente nei secoli prima della sua presunta nascita. Ma Stark va oltre le critiche correnti della tesi di Max Weber.

Sostiene da una parte che il cattolicesimo è alle origini non solo del capitalismo, ma anche della scienza e della nozione di libertà personale (senza le quali il capitalismo non sarebbe mai sorto), e dall’altra che semmai il protestantesimo ha danneggiato  l’economia moderna nascente e ne ha ritardato il progresso.

I libri di testo scolastici, nota Stark, raccontano ancora  che «l’Occidente è nato precisamente quando ha superato gli ostacoli religiosi al progresso, specialmente quelli che impedivano la scienza. Stupidaggini: il successo dell’Occidente, nascita della scienza compresa, riposa interamente su fondamenta religiose, e le persone che sono alle sue origini erano devoti cristiani» (Stark 2005b, XI).

Anche chi riconosce qualche merito al protestantesimo resta comunque vittima – scrive il sociologo americano – di un «anticattolicesimo accademico» (ibid.), che – pure smentito dagli studi universitari più seri – non accenna purtroppo a diminuire. Ecco allora la necessità di una risposta articolata non solo a Max Weber, ma a tutta una vulgata post-weberiana utilizzata da chi spesso non ha neppure mai letto il sociologo tedesco per fini che hanno molto a che fare con la propaganda e ben poco con la scienza accademica.

La vocazione che ha portato Rodney Stark a specializzarsi nella sociologia delle religioni è sorta dall’idea che si potesse e si dovesse contrapporre un nuovo paradigma a quello dominante, che derivava ancora largamente da Max Weber.

Con The Victory of Reason, Stark chiude i suoi conti con il sociologo tedesco. L’opera di Stark è divisa in due parti. Nella prima, il sociologo americano sviluppa il modello teorico che nella seconda parte applica alla storia dell’Occidente. Il punto di partenza riassume la tesi, come si è visto già accennata nei volumi precedenti della trilogia, secondo cui l’idea di Dio che ciascuna religione propone ha conseguenze decisive per la vita associata.

Il Dio cristiano ha questo di particolare: ha creato il mondo secondo ragione, il che implica che le leggi dell’universo possano essere – sia pure mai completamente – scoperte e comprese dalla ragione umana.

Stark cita, tra i molti testi cristiani dei primi secoli, un brano di Tertulliano (160-220): «La ragione è cosa di Dio, in quanto nulla esiste che Dio, il Creatore di tutto, non abbia pensato, disposto e ordinato secondo ragione – nulla che Egli non abbia voluto che potesse un giorno essere compreso dalla ragione» (De Poenitentia, cap. I; cit. ibid., 7).

Dal momento che comprendere le leggi secondo cui Dio ha creato e ordina l’universo non è facile (anche se non è impossibile, osservando con attenzione l’universo stesso), la scoperta di queste leggi potrà essere soltanto graduale: di qui l’idea del progresso, e di una conoscenza che nel tempo cresce e si perfeziona – un altro tema che differenzia il cristianesimo dalla maggioranza delle altre religioni, per cui la conoscenza e la sapienza declinano rispetto a un’età dell’oro originaria e irripetibile, in confronto alla quale non è possibile progresso ma solo decadenza.

La scoperta progressiva di leggi secondo cui funziona l’universo è quanto siamo abituati a chiamare scienza. La mera invenzione di strumenti utili, senza teoria, non è scienza. La teoria non verificata attraverso l’osservazione sistematica della natura, a sua volta, non è scienza, ma filosofia. In questo senso, Stark sostiene che «la vera scienza è nata una volta sola: in Europa» (ibid., 14): e nell’Europa cristiana, non in Grecia o a Roma. I greci antichi erano perfettamente in grado di costruire strumenti slegati dalla teoria, o di elaborare teorie sottratte alla verifica empirica: non si trattava ancora di scienza.

Aristotele (384-322 a.C), per esempio, insegnava che la velocità di caduta di un solido è direttamente proporzionale al suo peso, così che una pietra pesante il doppio di un’altra sarebbe do­vuta cadere dallo stesso punto a una velocità doppia della seconda. «Una gita alla più vicina collina gli avrebbe consentito di convin­cersi che la sua idea era falsa» (ibid., 14): ma il punto è proprio che Aristotele, che pure talora compiva esperimenti, non lasciava che questi interferissero con le sue teorie.

Il problema, sostiene Stark, non sta in una mancanza di buon senso di Aristotele ma nel clima religioso della Grecia antica: i suoi dèi sono capricciosi e imprevedibili, non è chiaro se abbiano qual­cosa a che fare con la creazione del mondo (lo stesso Aristotele lo nega), e certamente non lo hanno ordinato in modo razionale. La stessa imprevedibilità di Dio spiega, come si è già accennato, per­ché la scienza non nasca in Cina o in India — dove manca la nozio­ne di un Dio personale e ragionevole che ha messo ordine nel mon­do – e neppure (benché molti si ostinino a pensare il contrario) nel mondo islamico, la cui idea di Dio è quella di un sovrano che può cambiare le leggi dell’universo come e quando crede.

Pertanto gran­di scoperte empiriche e sviluppi tecnologici in settori specifici non portano i musulmani alla formulazione di vere e proprie teorie scientifiche.

Quella stessa corrente dell’islam che si ispira ad Ari­stotele ne assorbe la filosofia proprio in quegli aspetti che tendono a produrre teoria separata dalla verifica empirica. Quanto all’ebrai­smo – cui nei volumi precedenti della trilogia Stark riconosce pe­raltro ampi meriti nella preparazione della successiva fioritura cri­stiana – le sue difficili circostanze dopo la Diaspora lo portano, co­me comunità (e nonostante la partecipazione individuale di numerosi ebrei all’impresa scientifica europea), a preoccuparsi più dell’interpretazione della Legge divina come guida per la vita mo­rale che della scoperta delle leggi che regolano la creazione. Ma il cristianesimo non si limita a inventare la scienza. Inventa anche la nozione di persona umana, dotata di libertà e responsabi­lità.

Le leggi dell’universo che possono essere scoperte – e che in parte sono state rivelate, anche se in molti casi la ragione avrebbe potuto identificarle da sola – non sono solo di natura scientifica: ve ne sono anche di natura morale. Si ha il dovere di conoscerle e di viverle, e la responsabilità di chi trascura questo dovere è tutta sua: non deriva dal Fato, come nella concezione greca, o da reincarnazioni passate di cui non sappiamo nulla, come nelle religioni orien­tali.

Nasce così, propriamente, la persona, dotata di diritti (da cui la lunga e già citata lotta della Chiesa contro la schiavitù) e di doveri. Questi diritti implicano anche la libertà politica – declinata diversa­mente secondo i tempi e i luoghi – e la tutela della proprietà priva­ta, benché quest’ultimo diritto non sia concepito come assoluto ma sia subordinato alle esigenze del bene comune, secondo una casisti­ca che raggiungerà il suo apice con la Scolastica del Medioevo.

Scienza, libertà della persona e proprietà privata sono le tre basi dell’economia «moderna», che in realtà non è affatto moderna ma è medievale. Nel Medioevo, senza saperlo (se ne accorgerà solo con le scoperte geografiche), l’Europa cristiana sorpassa il resto del mondo nei settori della scienza, dell’organizzazione politica e del­l’economia: «L’idea secondo cui nel Medioevo l’Europa sprofonda nell’oscurità è una mistificazione creata ad arte dagli intellettuali irreligiosi e violentemente anticattolici del secolo XVIII» (ibid., 35).

Le definizioni di «economia moderna» e «capitalismo» sono oggetto di dibattiti infiniti fra gli storici e i sociologi dell’economia. La definizione oggi più corrente del capitalismo – evidentemente alternativa a quelle polemiche di stampo marxista, che lo riducono allo sfruttamento dei lavoratori – fa riferimento a «un sistema economi­co dove “aziende” relativamente bene organizzate e di lunga dura­ta, i cui proprietari sono privati, perseguono attività commerciali complesse nell’ambito di un mercato almeno parzialmente libero, formulando sistematicamente progetti di lungo periodo, scelti se­condo la loro possibilità teorica di generare guadagni, che prevedo­no l’investimento e il re-investimento (diretto o indiretto) di ric­chezza in attività produttive che utilizzano lavoratori salariati» (ibid., 56).

Se si adotta questa definizione, i primi «capitalisti» sono i gran­di monasteri medievali, e il capitalismo nasce nel IX secolo, non nel XVI come pensava Max Weber. E si sviluppa nei secoli successivi soprattutto in Italia, dove sono presenti le tre citate condizioni per la nascita dell’economia moderna: una passione per la scienza (colti­vata nelle più grandi università del Medioevo, come Padova e Bo­logna, ma anche in un sistema scolastico pre-universitario superio­re a quello di tutti gli altri Paesi), una libertà politica che deriva dal­la stessa frammentazione in Comuni e staterelli, il che impedisce a un potere dispotico e centralizzatore di interferire con l’economia, e un riconoscimento non illimitato ma sufficientemente ampio del diritto di proprietà privata, frutto della raffinata elaborazione dei teo­logi cristiani medievali.

La seconda parte di The Victory of Reason entra in dettagli sto­rici di sorprendente ricchezza, se si considera che l’autore non è uno storico di professione, alcuni dei quali riassumono teorie su cui esi­ste fra gli storici un vasto consenso mentre altre volte, come Stark ammette, si tratta di ipotesi da verificare tramite ulteriori studi e su alcune delle quali si può in effetti coltivare qualche perplessità.

L’affresco storico che Stark traccia è quello dello sviluppo del «ca­pitalismo» (come sopra definito) anzitutto in Italia, dove sono in­ventate la banca moderna e il sistema assicurativo, con un primato europeo incontrastato che dura fino al XVI secolo e che fa sì che l’Italia, pure politicamente e militarmente debole, domini economica­mente il continente.

«Fino al secolo XV anche tutte le banche medio-piccole del­l’Europa Occidentale, oltre alle grandi, sono italiane, e certamente non esistono banche internazionali che non siano italiane. Fino a quest’epoca tutte le banche in Inghilterra e in Irlanda sono filiali di banche italiane, e lo stesso è vero per le Fiandre.

E in Francia e in Spagna per tutto il Medioevo le uniche banche di cui ci è nota l’e­sistenza sono italiane. (ibid., 116); «Anche le filiali più lontane so­no gestite da personale assunto e formato in Italia, e tutti gli affari sono conclusi in lingua italiana» (Ibid., 116). Queste imprese italia­ne non operano nonostante ma grazie alla religione cattolica, i cui insegnamenti morali sono parte integrante della formazione del per­sonale, cui del resto sono date istruzioni perché in tutta Europa una parte dei profitti sia destinata alla carità e al culto.

Solo molto len­tamente, profittando di situazioni geografiche favorevoli e di inno­vazioni tecnologiche nel settore tessile e minerario, il «capitali­smo» italiano trova concorrenti a Nord: dapprima nelle Fiandre (cattoliche), da cui il modello capitalista passa solo più tardi nel­l’Olanda (protestante); quindi nell’Inghilterra (anglicana: ma per Max Weber la religione anglicana non è meno estranea del cattolicesimo allo «spirito del capitalismo»). Il declino del primato italiano nel Seicento è collegato alla per­dita di uno dei tre elementi necessari secondo il modello di Stark perché il «capitalismo» fiorisca: la libertà politica, confiscata da si­gnorie dispotiche e soprattutto dal dominio francese e spagnolo.

Una tesi fondamentale di Stark è che, anche in presenza di un retro­terra religioso cristiano, l’economia moderna non può fiorire se manca un minimo di libertà politica, se lo Stato è assolutista, se il centralismo si esprime (come avviene quasi sempre) in un aumento delle tasse che mette in discussione o limita lo stesso diritto di pro­prietà privata. Da questo punto di vista il fatto che il capitalismo non sia fiorito in Francia e in Spagna, e che questi Paesi siano rimasti re­lativamente arretrati rispetto all’Italia prima e all’Europa del Nord poi, non dipende dal cattolicesimo ma dal centralismo e dall’asso­lutismo.

Nonostante le virtù private che Stark riconosce volentieri alla maggioranza dei re di Spagna, egli ritiene che – come i monarchi francesi – essi adottino un modello politico centralista, assoluti­sta, e fondato su un’elevata tassazione, che non può che generare stagnazione e declino economico.

La Spagna maschera questi pro­blemi per diversi secoli grazie alle ricchezze che affluiscono dalle colonie: ma queste – come il petrolio nelle monarchie della peniso­la arabica attuale – si limitano a mantenere in vita un enorme appa­rato statale e imperiale, senza essere veramente investite nella crea­zione di un’economia moderna. Benché sulla severità con cui Stark giudica la Spagna imperiale si possa avanzare qualche  legittimo dubbio, va sottolineato come egli abbia cura di ripetere che l’arre­tratezza economica spagnola (come quella, sottolineata meno spes­so dalla vulgata storica corrente, francese) non deriva affatto dal cattolicesimo.

Anzi, il centralismo e l’assolutismo trovano, per ra­gioni ideologiche, i loro teorici più convinti tra i protestanti e sono combattuti dai teologi cattolici, specialmente dai Gesuiti.

Quanto all’Olanda, «dal momento che il capitalismo nei Paesi Bassi nasce molto prima della Riforma non ha senso considerare il calvinismo l’origine del capitalismo olandese. Potrebbe essere più accurato sostenere che il calvinismo ha causato la distruzione del capitalismo in vaste aree dei Paesi Bassi» (ibid., 175), giustifican­do forme politiche più assolutiste e centraliste, causa principale del declino dell’economia olandese il favore di quella britannica.

«Non è stato il cattolicesimo ma l’assolutismo che ha impedito il capitali­smo in Francia e in Spagna, e lo ha distrutto in Italia e nel Sud del­l’Olanda» (ibid., 194). Quanto alla Gran Bretagna, a prescindere dalla circostanza già citala che la religioni; anglicana per Max Weber – ai fini delle affi­nità con il capitalismo – è una variante del cattolicesimo e non fa parte di quelle forme di protestantesimo che avrebbero generato l’e­conomia capitalista, non è il suo ripudio del cattolicesimo a confe­rirle il primato economico mondiale di cui gode a partire dalla fin del XVII secolo, ma la resistenza di corpi intermedi e libertà citta­dine e comunali che risalgono all’epoca cattolica e che, nonostante i tentativi di teologi e filosofi influenzati dal protestantesimo del­l’Europa continentale, la monarchia non riesce a estirpare.

E la si­tuazione si sarebbe ripetuta nel Nuovo Mondo, dove (ma sul punto la trattazione di Stark è un po’ rapida, e qualche perplessità rimane) gli Stati Uniti avrebbero riprodotto il sistema britannico e l’Ameri­ca latina quello spagnolo, con conseguenze economiche evidenti.

Si è sostenuto che lo straordinario successo del protestantesimo in America Latina nell’ultimo quarto di secolo – cui peraltro ha fatto da contrappunto una vigorosa ripresa della partecipazione reli­giosa cattolica, il che conferma la tesi cara a Stark secondo cui la concorrenza fa bene alla religione in genere – potrebbe finire per produrre una classe imprenditoriale protestante, capace finalmente di rendere l’America Latina più «capitalista» e più vicina agli Sta­ti Uniti.

Di questa tesi, spesso ripetuta, mancavano verifiche empiriche. Nel 2004 il sociologo Anthony Gill ha però pubblicato uno studio che Stark giudica finalmente adeguato, fondato su un ampio campione che coinvolge Messico, Argentina, Brasile e Cile.

Gill ha scoperto che la differenza di atteggiamenti economici non è fra protestanti e cattolici, ma fra cristiani praticanti e che prendono sul se­rio la loro fede (protestanti o cattolici) da una parie, e cristiani non praticanti e non credenti dall’altra. «I cattolici e i protestanti seria-,mente impegnati nelle loro rispettive religioni non manifestano differenze di rilievo nei loro atteggiamenti politici ed economici.

En­trambi i gruppi sono più liberisti in economia, più conservatori in politica, più attivi nel sostenere cause civiche e sociali, e più fidu­ciosi nella possibilità di avere buoni governi rispetto ai loro concit­tadini che non sono religiosi o lo sono meno» (ibid., 231; cfr. Gill 2005). Gill conclude: «È chiaro che Weber non è al lavoro in America Latina» (Gill 2005, 25). Al termine dell’opera, Stark si chiede: se è vero che «il cristia­nesimo ha creato la civiltà occidentale» (Stark 2005b, 233), questa è ora in grado di camminare senza la religione?

Stando al sociologo americano ci sarebbero in teoria motivi per sostenere l’ipotesi se­condo cui la fiducia in un mondo che funziona secondo leggi razio­nali, che la ragione può scoprire, è penetrata così profondamente nell’immaginario collettivo occidentale da potere sopravvivere per generazioni anche separata dalla sua origine storica, che deriva dal­la nozione cristiana di Dio e della creazione.

Ma ci sono due elementi che mettono in dubbio questa ipotesi. Il primo è lo stesso tema di questo mio libro: il declino dell’Europa, che sembra parallelo in modo davvero sospetto al rifiuto delle sue istituzioni pubbliche di riconoscerne le radici cristiane, il secondo è il successo del cristianesimo in tutti i Paesi non europei che intra­prendono il cammino della modernizzazione scientifica, della li­bertà politica e dell’economia moderna.

Molti non si rendono conto che nell’epoca della globalizzazione molti Paesi in via di sviluppo prima vedono fiorire ampie minoranze (e talora maggioranze) cri­stiane e poi progrediscono sul piano della scienza, della democrazia e dell’economia. «L’Africa sta diventando cristiana così rapidamente che ci sono più anglicani a Sud del Sahara che in Gran Bretagna o nel Nord America, per non parlare delle decine di milioni di battisti, pente­costali, cattolici o membri di gruppi protestanti di origine locale – circa la metà degli africani che vivono a Sud del Sahara oggi sono cristiani» (ibid., 234).

In un volume del 2006 che propone un in­ventario dell’eredità lasciata da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI, George Weigel nota che in Occidente non si ha ancora l’esalta per­cezione dell’immensa opera svolta da Papa Wojtyla in Africa e per l’Africa, meta di dieci dei suoi viaggi apostolici, che lo hanno portato in trentanove Paesi.

L’Africa ha spesso avuto l’impressione che Giovanni Paolo II fosse l’unico leader mondiale disposto a prender­la sul serio, e i risultati sono stati impressionanti: il continente con­tava cinquantacinque milioni di cattolici all’inizio del pontificato di Papa Wojtyla, che ne ha lasciati in eredità a Benedetto XVI ben centocinquanta milioni (Weigel 2005b, 49-50).

Ma quanto succede in Africa non ha paragoni con quanto sia sta avvenendo, sia potrebbe avvenire in Cina, un tema su cui dovremo ritornare. Nelle parole del 2003 rivolte al giornalista David Aikman da un intellettuale cinese – che ha preferito rimanere anonimo ma che il giornalista definisce «uno dei maggiori del Paese» -: «Una delle cose che ci è stato chiesto di studiare è la ragione del dominio dell’Occidente sul mondo. Abbiamo studiato tutto quello che abbia­mo potuto dal punto di vista storico, politico, economico e culturale. Quindi abbiamo pensato che voi aveste il sistema politico più avan­zato.

In seguito ci siamo concentrati sul vostro sistema economico. Ma negli ultimi vent’anni abbiamo concluso che il cuore della vostra cultura è la vostra religione, il cristianesimo. E’ questa la ragione per cui l’Occidente è diventato così potente. Il fondamento morale cri­stiano della vita sociale e culturale è il fattore che ha reso possibile l’emergere del capitalismo e la transizione a una politica democrati­ca. Non abbiamo più dubbi su questo punto» (Aikman 2003,5).

«Né ho dubbi io», conclude Rodney Stark (Stark 2005b, 235). La grande lezione della trilogia di Stark è che la scienza moder­na, l’idea di libertà politica, l’economia fondata sulla proprietà pri­vata e sul libero scambio sono nate in Europa e non potevano na­scere che in Europa, perché l’Europa era cristiana e il cristianesimo fa volare l’uomo – per dirla con l’enciclica di Papa Giovanni Paolo II Fides et Ratio (Giovanni Paolo II 1998) – insieme con le due ali del­la fede e della ragione.

Quando l’ala della fede si atrofizza – sem­pre secondo la mirabile analisi dell’enciclica – lo squilibrio travol­ge anche la ragione, e l’Europa perde insieme la sua identità e il suo primato universale. Naturalmente, su questo o quel giudizio storico la discussione continua, nè la trilogia di Stark ha l’ambizione di presentarsi come un manuale di storia.

Lo scopo del sociologo è quello di mostrare, attraverso lo studio dì episodi emblematici anche se particolarmente controversi, che – contrariamente al  pregiudizio passato dal marxismo in gran parte della cultura contemporanea – i fenomeni che si presentano come religiosi non sono soltanto la maschera di fattori e interessi materiali, ma hanno spesso cause effettivamente e veramente religiose. Stark postula la necessità di una «sociologia degli dèi», cui dedica un’appendice metodologica nel volume del 2003 (Stark 2003, 367-376), capace di superare l’idea trasmessa alla sociologia delle religioni da Émile Durkheim (1858-1917) secondo cui solo il rito e il sostegno dell’ordine morale sono sociologica­mente interessanti nella religione.

In realtà, è a quale tipo di Dio o di dèi il rito si rivolge che spiega le conseguenze sociali di ciascuna religione e il suo influsso sulla storia. E, come sono state coinvolte in episodi tragici e discutibili, così la religione cristiana, e in parti­colare la Chiesa cattolica, hanno anche scritto pagine tra le più lu­minose della storia dell’Europa, una storia da cui la religione rima­ne, per quanti sforzi in contrario si facciano, indissolubile.

Se anziché Dio regnasse il Fato: i dilemmi della giovane Tru

Come abbiamo visto, Stark sostiene che l’origine della nozione di persona sta nel superamento dell’idea precristiana del Fato, e nella nascita di un’immagine dell’uomo che può e deve conoscere le leggi morali iscritte da Dio nell’universo, diventando così responsabile delle sue azioni.

Nella tragedia greca l’eroe, il cui tipo è Edipo, è semplicemente «nelle mani del Fato» (Stark 2005b, 24), e non c’è nulla che possa fare per cambiarlo. La televisione americana contemporanea ha prodotto un buon numero di serial di notevole qua­lità, che ha generalo un’ampia letteratura di commento non solo letterario ma filosofico.

Quello che è interessante notare in questa sede è che molti di questi telefilm sono interessanti proprio perché mettono in scena un mondo precristiano e retto dal Fato dove le forze che sembrano guidare le schiere del Bene e del Male combatto­no, s’incontrano, negoziano, ma alla fine riconoscono che sono en­trambe in balìa di un potere superiore, il Destino, che è ultimamen­te imprevedibile e che né il Bene né il Male possono controllare.

Con varianti, è questa la mitologia di Charmed (in Italia Streghe), di Buffy the Vampire. Slayer e della serie derivata da quest’ultima, Angel, che esplora più in profondità proprio il tema dei limiti delle forze del Bene e della loro sottomissione al Destino.

Forse il tema non è mai stato trattato con tanta chiarezza come è avvenuto in Tru Calling, un telefilm acclamato dalla critica ma sospeso metà, prima che finisse, dal network televisivo americano produtto­re, parte di un mondo di Hollywood la cui logica qualche volta sembra altrettanto imprevedibile di quella del Fato pagano. In Tru Callìng Eliza Dushku (l’attrice che interpreta la cacciatrice di vampiri ribelle Faith in Buffy) è Tru Davies, una studentessa di medicina che lavora in un obitorio. Scopre che da alcuni cadaveri – non da tutti – esce una voce che solo lei può sentire e che chiede: Aiutami».

A questo punto le ultime ventiquattro ore «si riavvolgono»: Tru le rivive una seconda volta, ricordando tutto quello che è già avvenuto (così che, per esempio, può impedire piccoli guai fa­miliari) e cercando di salvare la vita alla persona che le ha chiesto aiuto. Se la prima stagione era apparsa ripetitiva ai critici, la secon­da ha ricevuto numerosi consensi. La storia si è andata sempre più concentrando sulla lotta fra Tru e il suo rivale Jack.

Per entrambi le stesse giornate «si riavvolgono», ma i due lavorano per Poteri diversi: Tru cerca di salvare chi e stato vittima di un incidente o di un omicidio, Jack di impedire che Tru svolga la sua opera di salvezza perché il Potere che lo ispira pensa che il Destino non debba cambiare

Scopriamo anche che il mentore di Jack – e il suo predecessore in in una lunga catena di «agenti» del Fato immutabile – è il padre di Tru, e che l’ultima in una serie di persone cui è invece concesso di cambiare il Fato e salvare persone destinale a morire è stata, prima di Tru, la sua defunta madre. Gli spettatori e Jack sanno – ma non lo sa Tru – che alla fine, disperando di poterla battere, il padre della protagonista ha ucciso la moglie. Nonostante i consensi della critica, la casa produttrice Fox ha come si è accennato, tagliato brutalmente la serie dopo la sesta puntata della seconda stagione. In America capita spesso: se gli ascolti non sono quelli sperati i telefilm finiscono anche se non è finita la storia.

Anzi, l’ultimo episodio «natalizio» di Tru Calling e slato distribuito solo in Nuova Zelanda e in Italia: il pubblico americano non lo ha mai visto. La serie lascia così molte questioni irrisolte e nell’ultimo episodio americano (penultimo in Italia) Tru per la prima volta ha salvalo una persona che è morta ma non le ha chiesto aiuto, il biondo studente Jensen di cui si è innamorata, cercando fra i morti di giornata fino a che ha trovato qualcuno che le ha detto «Aiutami», provocando il «riavvolgimento» del tempo consentendole di salvare, oltre a questa persona, anche Jensen. Nell’episodio «natalizio» Jack e il padre di Tru promettono di «occuparsi» di Jensen a tempo debito: ma la serie finisce.

Tuttavia una delle autrici delle sceneggiature – Doris Egan – ha parlalo (Egan 2005), e sappiamo così come sarebbe proseguito Tru Calling. Come per Buffy e per tutti gli show della «famiglia» di Buffy – dove c’è sì una religiosità di fondo, ma a metà fra lo gnosticismo e il paganesimo – cruciale è quella che gli autori chiamano «mitologia». Come in Angel, in Tru Calling ci sono due Poleri che si contrappongono senza che l’uno riesca a prevalere sull’altro.

Il Potere ha programmato il Fato come tutti lo conosciamo: come si dice, chi muore giace e chi vive si dà pace. La mitologia non spiega per quali fini questo Potere, che è il più antico, agisca: Jack e suoi predecessori ci direbbero che, nonostante tutte le apparenze, assicura l’ordine, una chiara frontiera fra la vita e la morte, e il migliore dei mondi possibili.

A un punto imprecisato nel tempo, forse perché il primo Potere sì è diviso in se stesso come in altre cosmologie gnostiche, un secondo Potere è sorto, si è ribellato e ha deciso di offrire ad alcune delle persone che muoiono – scelte in modo più o meno arbitrario – una seconda possibilità.

Dopo la morte passano in uno stato intermedio in cui possono scegliere se rimanere morte o chiedere aiuto agli agenti del secondo Potere, che in questo caso riporteranno indietro il tempo di ventiquattro ore e cercheranno di salvarle. Come le cacciatrici di vampiri di Buffy, le agenti del secondo Potere esi­stono da secoli e si tramandano la capacità di rivivere le giornate una seconda volta secondo linee generazionali (Tru l’ha ricevuta dalla madre).

Ma il primo Potere non è rimasto inattivo e ha creato a sua volta una linea di agenti per cui il tempo torna indietro esatta­mente quando si riavvolge anche per le Tru di tutte le generazioni.

Questi agenti dei Potere più antico, l’ultimo dei quali è Jack, lavo­rano perché il Fato si compia senza interferenze e chi era destinato a morire, in effetti, muoia. Doris Egan afferma di essersi ispirata allo scrittore contempora­neo (che in effetti si potrebbe definire neo-gnostico) Philip Pullman, ma c’è una lunga linea di ribelli al Fato a partire dal Satana di John Milton (1608-1674) nel XVII secolo.

Dal momento che lo spettatore è indotto a fare il tifo per chi salva le vite e non per chi lavora per la morte, un critico cristiano potrebbe obiettare che la mitologia di Tru Calling è vagamente luciferina e si schiera dalla parte di chi si ribella a Dio e ai suoi imperscrutabili disegni. Ma questo critico sbaglierebbe obiettivo, perché l’universo mitologico di Tru Cailling non è cristiano, è pagano.

Non ci sono i buoni e i cattivi. Dio e il Diavolo, ma – appunto come in una tragedia greca- c’è il Fato, che è capriccioso e crudele e non corrisponde affatto alla nozione cristiana di una Provvidenza amorosa e volta al bene. E c’è chi, nobile e generoso, si ribella al Fato (non a Dio): ma così interferisce con il destino e deve sempre pagare un prezzo.

In Streghe le sorelle protagoniste, che sono «streghe buone», possono viaggiare nel passato ma cercano raramente di cambiarlo, perché sanno che il prezzo da pagare può essere altissimo. Questo, appunto, sarebbe stato chiarito nella parte di Tru Calling che non è mai stata realizzata, e che avrebbe riservato grosse sorpese a chi – interpretando quasi istintivamente alla luce di duemila anni di religiosità cristiana un universo mitologico pensato invece dai suoi creatori come pagano – si era abituato a considerare semplicemente Tru e i suoi amici che ne condividono il segreto «i buoni» e Jack e i suoi complici «i cattivi».

Niente affatto, avrebbero piegato le puntale successive, che sarebbero andate ben oltre le recedenti, e in cui si sarebbe visto Jack diventare più umano e ammettere di sentire il suo lavoro come un peso di cui preferirebbe liberarsi. Torniamo alla penultima puntata: Tru salva Jensen, che non ha chiesto aiuto, perché è innamorala di lui. Così facendo, viola le regole non solo del Potere per cui opera Jack, ma anche del Potere ribelle che si serve di lei e che l’ha incaricata di sottrarre alla morte solo quei pochi cui, in modo arbitrario, è stata offerta una scelta (Jensen non è fra questi).

Quando glielo si fa notare, risponde che non sa bene per chi lavora e che nessuno le ha mai fatto vedere un regolamento (in realtà qualche cosa di simile a un manuale – a somiglianza del Libro delle Ombre in Streghe – esiste: è il diario della madre di Tru, custodito in una banca e che il padre fa di tutto per tenere nascosto alla figlia; ma anche questo è materia di una punta­ta che non è mai stata girata).

Nell’episodio «natalizio» interlocutorio sembra che la «colpa» commessa da Tru quando ha salvato Jensen non abbia conseguenze. Ma nelle puntate successive, mai girate né andate in onda (e in par­ie scritte, non a caso, da una delle autrici di Buffy, Jane Espenson), Tru scopre che – dal momento che Jensen non poteva «tornare» – quello che e tornato sembra Jensen, ma è un corpo con un’altra anima, profondamente disturbata dall’anomalia creata dalla violazione delle regole di tutti i giochi cosmici. Esteriormente, Jensen è anco­ra lo studente di cui Tru si è innamorata. Segretamente, è diventato uno psicopatico che a poco a poco si rivela un serial killer.

Tru si rende gradatamente conto dell’orribile verità: il «nuovo» Jensen è un mostro, ed è stata lei a crearlo. Decide così di allearsi con l’e­sperto di morte, Jack, per cercare di tornare indietro ed eliminare Jensen prima che inizi a uccidere. Alla fine, i due Poteri collaborano contro un’anomalia che rischia di metterli in discussione en­trambi. Ma chi ha ragione? Tru o Jack? In un dialogo che non sentiremo mai, rivelato dalla Egan, Tru torna indietro nel tempo per salvare una donna. Jack la supplica di non farlo, e Tru gli chiede cosa c’è di male a salvare una vita. «Jack: È sbagliato perché c’è un Piano più grande di quanto chiunque possa capire.

Se questa donna vive, il Piano esce dai binari. Questa donna sarà a casa quando il suo vici­no avrà un attacco di cuore. Lo salverà, il vicino sopravviverà e abu­serà dei suoi due figli. Uno dei due bambini diventerà il prossimo Unabomber. L’altro sposerà una donna che era destinata a un altro, a un medico che lei avrebbe aiutalo a scoprire la cura per il cancro. Tru: Non puoi saperlo! Jack: Ma so che c’è un Piano e che tu lo stai distruggendo» (Egan 2005). Ha ragione Tru? La serie ci ha abituato a rispondere di sì, ma se la Fox non ce l’avesse fermata a metà avremmo visto Tru, almeno nel caso di Jensen, finire per dare ragione a Jack.

La lezione è che la vita e la morte sono entrambe necessarie, che senza l’ombra la luce non è luce, ma anche che in un mondo dominato dal Fato e non dalla Provvidenza è più difficile vivere, perché non si capisce mai facilmente chi rappresenta l’ombra e chi la luce. O che, per dirla con Doris Egan, «il fatto che Quelli per cui lavora Tru sembrino privilegiare la libertà di scelta umana potrebbe farvi pensare che il loro piano è quello che tutti preferiamo. Ma, se fossi in voi, non scom­metterei il futuro dell’intera razza umana basandomi solo sul fatto che Loro sembrano più gentili ed educati » (Egan 2005).

Bene: ma si potrebbe rispondere, con Pierre Corneille (1606-1684), il poeta cattolico contemporaneo e critico di Milton, che si deve essere davvero grati al cristianesimo perché ci ha liberali dal­la dittatura del Fato, spostando il problema della libertà e del desti­no dell’uomo su un piano completamente diverso. E anche a Doris Egan, perchè ci ha mostrato, in un telefilm di grande qualità finito troppo presto, in che razza di pasticci ci si andrebbe a cacciare in un mondo da cui non fosse passato il cristianesimo. O piuttosto in che tipo di dilemmi – fra morali e immorali – si rischia in effetti di ca­dere oggi in un mondo che, quando rifiuta il cristianesimo, sembra talora voler davvero tornare a un paganesimo precristiano.

Marte e Venere

Nel 1992 un medico americano, John Gray, scrive un libro di enorme successo, Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere che – tradotto in quaranta lingue – arriverà a vendere trenta mi­lioni di copie (Gray 1992). Il fatto che sia stato criticato in quanto si limiterebbe a riproporre in salsa vagamente New Age ricette di buon senso sui rapporti di coppia non ha giovato al libro di un illustre esponente della corrente neo-conservatrice, Rohert Kagan, Paradiso e potere, che non ha resistito alla tentazione di servirsi della me­tafora per affermare che il medio americano del XXI secolo «viene da Marte » mentre il medio europeo occidentale «viene da Venere».

Il libro di Kagan, tuttavia, non è affatto superficiale. Parte da una riflessione sulla tendenza degli europei – cui anche noi abbiamo già fatto cenno – a confondere la forza con la violenza, a rifuggire dal­la forza e a considerare «potere» una parolaccia per concludere che gli europei, dopo la Seconda guerra mondiale, hanno proclamato in­sieme la fine della guerra e la fine della politica e hanno cercato di vivere in un Paradiso kantiano dove tutti i conflitti sono risolti (spesso negando che esistano).

L’Europa ha tratto dalla sua idea di Paradiso anche un notevole vantaggio economico, destinando alle spese militari – a differenza di Stati Uniti, Russia e Cina – una parte irrisoria dei suoi bilanci nazionali. Il Paradiso europeo, obietta però Kagan, sì è costruito sulla finzione secondo cui il nuovo Eden (dove in effetti non ci sono state guerre) potesse vivere senza esse­re protetto dal potere militare. In realtà alle porte dell’Eden, senza che la maggioranza degli eu­ropei se ne accorgesse, vigilava un angelo con la spada fiammeg­giante: il potere militare americano, sostenuto dalle ingenti spese militari finanziate dai contribuenti degli Stati Uniti, senza il quale l’Unione Sovietica avrebbe fatto dell’Europa un solo boccone.

E oggi la situazione sì ripropone in tema di ultrafondamentalismo isla­mico: salvo che i neoconservatori come Kagan chiedono agli euro­pei di prendere coscienza del fatto che il Paradiso è solo un sogno e di fare la loro parte anche dal punto di vista delle spese per la difesa. Ma sanno che l’Europa dirà di no. Infatti il carattere «venusiano» e « femmineo» della mentalità europea non sarà scosso da nes­suna bomba e nessun attentato, che anzi spingerà gli europei a cer­care ancor più freneticamente di negoziare e di accordarsi.

Secondo Kagan l’idealizzazione kantiana della pace in Europa, pur avendo una lunga storia, deriva come causa prossima dai disa­stri della Prima e della Seconda guerra mondiale, del nazismo e del comunismo, che gli Stati Uniti non hanno invece sperimentalo sul loro suolo. Questi orrori hanno definitivamente convinto gli europei che la peggiore pace è preferibile alla migliore guerra.

Rispondendo a un neo-conservatore piuttosto «laico» come Ka­gan, un neo-conservatore religioso (teo-conservatore, theo-con, se­condo l’espressione americana), il già citato teologo cattolico Geor­ge Weigel (2005a), giudica l’analisi esatta ma insufficiente.

Occor­re infatti chiedersi perché in Europa – e non altrove – si sono scatenate le prime due guerre mondiali e perché gli europei non tro­vano la forza di reagire come la logica imporrebbe alla nuova guer­ra, «asimmetrica» e che richiede risposte nuove, scatenata dall’ultrafondamentalismo islamico.

Secondo Weigel, la risposta non può essere semplicemente politica o storica (anche se sull’aspetto stori­co torneremo nel secondo capitolo), ma – per andare più in profon­dità – deve scendere fino alle radici religiose, La fortezza e la speranza sono virtù prima di essere atteggiamenti politici.

La perdita della speranza e della carità politica, che comprende la fortezza, deriva ultimamente dalla perdita della fede. Per dirla con le parole di Benedetto XVI nel suo Messaggio la celebrazione della giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2006, deriva dalla perdita della verità e dal trionfo satanico della menzogna.

«La pace apparirà allora in modo nuovo: non come sem­plice assenza di guerra, ma come convivenza dei singoli cittadini in una società governata dalla giustizia, nella quale si realizza in quanto possibile il bene anche per ognuno di loro» (Benedetto XVI 2006a n. 5).

Non basta che non ci siano guerre perché ci sia la pace: occorre che la società sia fondata sulla verità. «Chi e che cosa – continua il documento pontificio – può impedire la realizzazione della pace? A questo proposito, la Sacra Scrittura mette in evidenza nel suo primo Libro, la Genesi, la menzogna, pronunciata all’inizio della storia dall’essere dalla lingua biforcuta, qualificato dall’evangelista Giovanni come “padre della menzogna” (Gv 8, 44). La menzogna è pure uno dei peccati che ricorda la Bib­bia nell’ultimo capitolo del suo ultimo Libro, l’Apocalisse, per segnalare l’esclusione dalla Gerusalemme celeste dei menzogneri: “Fuori… chiunque ama e pratica la menzogna!” (22, 15).

Alla men­zogna è legato il dramma del peccato con le sue conseguenze per­verse, che hanno causato e continuano a causare effetti devastanti nella vita degli individui e delle nazioni. Basti pensare a quanto è successo nel secolo scorso, quando aberranti sistemi ideologici e politici hanno mistificato in modo programmato la verità ed hanno condono allo sfruttamento e alla soppressione di un numero im­pressionante di uomini e di donne, sterminando addirittura intere fa­miglie e comunità. Come non restare seriamente preoccupali, dopo tali esperienze, di fronte alle menzogne del nostro tempo, che fanno da cornice a minacciosi scenari di morte in non poche regioni del mondo?

L’autentica ricerca della pace deve partire dalla consapevo­lezza che il problema della verità e della menzogna riguarda ogni uomo o ogni donna, e risulta essere decisivo per un futuro pacifico del nostro pianeta» (Benedetto XVI 2006a, n. 5). E l’analisi, ancora una volta, non può essere solo politica ma de­ve risalire alle cause morali e religiose, che si tratti del «nichili­smo» che ha ispirato le ideologie di morte del XX secolo o dell’ultrafondamentalismo islamico del XXI.

«A ben vedere, il nichilismo e il fondamentalismo fanatico si rapportano in modo errato alla ve­rità: i nichilisti negano l’esistenza di qualsiasi verità, i fondamentalisti accampano la pretesa di poterla imporre con la forza. Pur avendo origini differenti e pur essendo manifestazioni che si inscrivono in contesti culturali diversi, il nichilismo e il fondamentalismo si trovano accomunati da un pericoloso disprezzo per l’uomo e per la sua vita e, in ultima analisi, per Dio stesso. Infatti alla base di tale comune tragico esito sta, in definitiva, lo stravolgimento della piena verità di Dio: il nichilismo ne nega l’esistenza e la provvidente presenza nella storia; il fondamentalismo ne sfigura il volto amorevole e misericordioso, sostituendo a Lui idoli fatti a propria immagine» (Benedetto XVI 2006a, n.10).

La radice di tutte le crisi dell’Europa – che certo poi si sviluppano seguendo processi che possono essere studiati in modo «laico» dalle scienze umane – sta, in ultima analisi, nello «stravolgimento della piena verità di Dio».

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Dello stesso autore ed editore:  

Le Nuove religioni

Il cappello del mago

Il ritorno dello gnosticismo

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La nuova guerra mondiale. Scontro tra civiltà o guerra civile islamica?

La Turchia e l’Europa.Religione e politica nell’islam turco.