La questione islamica

Londra_attentatoStudium n.1 gennaio/febbraio 2006

di Roberto AM. Bertacchini

e Piersandro Vanzan S.J.

La questione islamica è oggi all’ordine del giorno (1), come mostrano l’assassinio in Turchia di don Andrea Santoro, un esponente della linea dialogica con l’Islam più convinta, e le gravi manifestazioni di intolleranza, sia anticristiane sia contro ambasciate occidentali e sedi UE, dopo la pubblicazione di alcune vignette di satira antislamica.

Dopo le stragi di Londra il correlativo terrorismo internazionale allarma seriamente anche quei governi europei che, fino a ieri, di fatto ritenevano fosse sostanzialmente una questione «israelo-americana», ossia di politica estera. Purtroppo le analisi mediatiche più diffuse (2), spesso più reattive che argomentate, annebbiano le ragioni del fenomeno: soprattutto il rapporto tra Islam e terrorismo. Per cui l’idea che quello islamico sia un attacco all’Occidente imperialista e cattivo – come si affanna a sostenere certa stampa – è giudizio che offusca la realtà assai più che la riveli. Tenteremo dunque di chiarire che il terrorismo islamico è un’assai complessa risposta a ciò che è percepito come minaccia devastante.

Che quello con l’Occidente sia per l’Islam un incontro mortale a noi tendenzialmente sfugge, né lo immaginiamo, anche perché ben vediamo che – tutto sommato – in tale impatto il cristianesimo sta sopravvivendo meglio di quanto ipotizzato dai «profeti laici» dell’Ottocento. E, in ogni caso, il Concilio Vaticano II ha sancito in modo chiaro che il progresso è un dono divino da accogliere, pur consapevoli dei molti squilibri e delle contraddizioni che trascina. Vediamo allora di approfondire il discorso, seguendo il filo della ricostruzione storica.

La lettura storica si articola per un credente su due piani: quello della teologia della storia, e quello dell’analisi critica dei processi, attraverso l’intelligenza delle cause seconde e dei loro effetti. In prospettiva teologica la crisi attuale rende ancora più urgente proseguire nel dialogo interreligioso e accelerare i processi di integrazione, secondo gli obiettivi e gli intendimenti chiaramente espressi dal Vaticano II e dal successivo magistero pontificio.

Al tempo stesso siamo convinti che la crisi islamica, per quanto grave e forse – temiamo – ancora lontana dal suo apice, abbia tuttavia anche un senso provvidenziale come occasione di maturazione per l’Occidente. Già infatti sono chiari – e si stanno diffondendo – i segni di un certo ripensamento da parte del pensiero laico e anche laicista, costretto a prendere atto dei propri eccessi anticristiani che hanno comportato conseguenze sociali non lievi, come, ad esempio, la progressiva distruzione della famiglia e della sua stessa possibilità. C’è poi il piano della ricostruzione critica, su cui verteranno le pagine che seguono.

Islam e Occidente

La storia dei rapporti reciproci ha fin qui tre epoche ben definite. La prima (fase-1) è la fase espansiva, che caratterizza le vicende islamiche da Maometto sino al 1683 con l’assedio di Vienna. La seconda (fase-2) è la fase regressiva, il cui inizio è databile emblematicamente dal 1699 con la pace di Carlowitz, che impose all’impero ottomano le cessioni di Ungheria, Transilvania, Azov, Morea, parte della costa dalmata, Podolia e Ucraina.

Questa fase ha il punto di minimo con la pace di Versailles e l’espansione coloniale europea; e in essa la superiorità e il prestigio occidentali sono così schiaccianti, che lo slogan è: modernizzare l’Islam. Programma messo in atto per esempio in Turchia, Egitto e Tunisia, con riforme filoccidentali. Questo trend non si interrompe con la seconda guerra mondiale, ma se mai evolve nel senso che alcuni Stati saranno orientali dal socialismo sovietico. Tuttavia nel secondo dopoguerra già si percepiscono segni di una inversione di tendenza, che subirà una fortissima accelerazione con la guerra dei sei giorni e le successive connesse vicende.

Alla luce delle teorie di Toynbee. – Per comprendere il senso, le condizioni di possibilità e i modi di sviluppo della complessa transizione dalla fase-2 alla fase-3 attuale, è illuminante rifarsi a Toynbee: in sintesi la sua idea è che trovandosi in una «umiliante condizione di sudditanza», la civiltà più debole «incomincia a imitare il modo di vita alieno che prende a modello» (3). Fin qui siamo grosso modo ai processi della fase regressiva che, in rincorsa all’Occidente, avevano ad obiettivo di modernizzare l’Islam.

Tuttavia non sempre le cose vanno lisce: può accadere che le strutture di base della società investita dalle radiazioni culturali allogene «palesino una rigidità tale da rendere impossibile una pronta ed efficace risposta adattiva. In questi casi, l’aggressione culturale si trasforma in un vero e proprio dramma storico. Infatti il primo impulso della società aggredita sarà quello di opporre una ostinata e astiosa resistenza all’intrusione della cultura allogena, che percepirà come un attentato ai suoi valori assiali e, quindi, come uno snatura-mento della sua identità spirituale» (4).

E questo è il caso dell’Islam (5), dovuto al fatto che mentre Vittorio Emanuele II epurò le scuole e le università dalla presenza dei preti, ciò non accadde negli Stati islamici, dove la cultura restò saldamente in mano alle autorità religiose. Ed è infatti nelle università islamiche e nelle scuole coraniche (madrase) che è maturata quella radicalizzazione delle posizioni infine emersa in un vero e proprio movimento generale di lotta.

In questo senso Iran e Afghanistan restano due emblemi. In altri termini, anche nei casi migliori lo Stato si limitò a introdurre riforme di carattere economico e burocratico-amministrativo, senza incidere sull’auto-comprensione popolare (6). La scuola di Vittorio Emanuele II diede una nuova identità nazionale col mito del Risorgimento. Ciò coprì le molte storture introdotte e i gravi danni sofferti dal popolo, dal Friuli alla Sicilia. Ma impedì fenomeni di rigetto dei Savoia. Viceversa nell’Islam l’identità restò fortemente ancorata alle precomprensioni religiose. Ed è questo – come vedremo più in dettaglio – l’elemento di rigidità che ha scatenato la reazione (7).

Secondo Toynbee, la modernizzazione «non può non apparire, allo sguardo fondamentalista degli zeloti [l’ala radicale della civiltà aggredita] la strada maestra che conduce all’annientamento delle specificità spirituali del loro mondo. Di qui l’inevitabile lotta fra i modernizzatori e i tradizionalisti» (8).

E in effetti nel caso islamico ciò avvenne realmente. Alla fine degli anni Ottanta vi fu un serrato confronto tra le posizioni più moderate di ‘Azzam (semi-erodiano) e quelle più oltranziste di al-Zawahiri (zelota), vero ideologo del jihad nella forma attualmente assunta, che include nella categoria di “nemico” anche gli erodiani, ossia i collaborazionisti con la civiltà aggreditrice. Il 24 novembre 1989 ‘Azzarn a Peshawar resta vittima di un attentato (fratricida?) e al-Zawahiri ha campo libero.

Ma c’è ancora un punto dottrinale decisivo: per gli zeloti «tutto ciò che viene dall’esterno è come un veleno per le tradizionali forme di vita, perciò essi ritengono che non c’è che un modo per evitare la catastrofe culturale: espellere l’invasore e chiudere ermeticamente le frontiere, di modo che nulla possa inquinare e corrompere il loro macrocosmo» (9). Puntualmente questa è in parte la posizione di Bin Laden, non solo contrario alla presenza americana in Iraq, ma anche in Arabia Saudita.

E, purtroppo, qui è il nodo dolente. Ossia nel fatto che, contro l’aggressione della civiltà occidentale, questo programma difensivo sarebbe comunque irrealizzabile (10). Essa infatti, a differenza di tutte le civiltà precedenti, non è di tipo locale, ossia territorialmente circoscrivibile. L’aggressività del villaggio globale è tale, che vi è un solo modo per sottrarsi alla sua morsa: quello di distruggerlo. Ed è appunto questo il programma ideologico di al-Zawahiri, perseguito con una complessa politica e strategia.

In primis alla formula «modernizzare l’Islam» si sostituisce l’altra: «islamizzare la modernità» e, perciò, l’Occidente. Islamizzare diviene così la parola chiave dell’ultimo trentennio – e siamo alla fase-3, o del ritrovato orgoglio islamico -, con le sue molteplici valenze ad intra e ad extra. All’interno islamizzare significa deoccidentalizzare tutto: dalle istituzioni politiche e culturali a quelle economiche, fino a ripensare lo stesso stile delle banche (11). All’esterno, significa diffondere l’Islam, con una potente azione missionaria – sia in Europa, sia negli USA -, sostenuta soprattutto dall’Arabia Saudita; ma, secondo interpretazioni più radicali, islamizzare l’Occidente significa aggredirne con violenza il potere politico e l’economia, senza escludere di colpire la popolazione civile.

Un pericolo da non sottovalutare. – Questo programma pantaislamizzante può far sorridere, come a suo tempo non pochi sorrisero davanti a Hitler, prima della sua ascesa politica. Si tratta perciò di argomentare che questo programma è vero, che è attuato secondo un disegno lucido, e che, se pure lentamente, sta macinando successi. Che il programma sia vero emerge in molti modi, e sarà ancora più chiaro dal complesso di ciò che scriviamo.

Ma il primo dato macroscopico è che «dall’Afghanistan al Kashmir alla Cecenia al Dagestan all’Ossezia alle Filippine all’Arabia Saudita, al Sudan alla Bosnia al Kosovo alla Palestina all’Egitto all’Algeria al Marocco […] gruppi consistenti […] hanno dichiarato una guerra […] all’Occidente» (12). Impossibile pensare che si tratti di eventi del tutto indipendenti gli uni dagli altri (cfr. infra le dichiarazioni di G. Habash e soprattutto di Ornar Bakri).

Il secondo dato macroscopico è il terrorismo, soprattutto se si ha la pazienza di percorrere il filo rosso che dal 7 luglio 2005 risale al 1969, con l’aereo partito da Fiumicino, che Leila Khaled dirottò e fece esplodere a Damasco. Il 1972 fu l’anno delle Olimpiadi di Monaco e del relativo eccidio; ma già il 16 agosto un aereo diretto a Tei Aviv esplode per un mangianastri al tritolo regalato a due turiste inglesi da due corteggiatori arabi. Se oggi vi ripensiamo viene freddo: al-Qaeda è una novità molto relativa.

Corteggiare due donne per provocare una strage significa infatti essere radicalmente imbottiti di ideologia. E significa che vi è un’articolazione tra ideologia e organizzazione. Il mangianastri al tritolo, infatti, tutt’oggi non lo vendono dal ferramenta. Meno che mai due arabi incontrano due turiste che per caso vanno a Tel Aviv, e per caso gli viene in mente di fare un attentato, e sempre per caso hanno pronto un amico che gli fornisce il pacchetto-sorpresa. Ma già nel 1970 vi furono ben sei tra dirottamenti e aerei saltati in aria o esplosi in volo. Perciò non da tutti gli aeroporti sarebbe stato ugualmente facile far passare il tritolo. E infatti i due arabi scelsero Roma.

In breve le condizioni di possibilità dell’attentato del 16 agosto sono così complesse che esigono un disegno pianificato da anni, dotato di strutture propagandistiche eccellenti e di risorse economiche e umane di prim’ordine. Il senso morale delle persone non si altera in cinque secondi. Quelle ragazze probabilmente erano pure carine: e magari vi era anche stato del tenero. Mettendo in parallelo questo episodio con Beslan, coi centocinquanta bambini uccisi, coi tre giorni di sevizie e la tortura della sete nella palestra, con le bambine prima stuprate e poi uccise, vediamo una ferocia talmente opposta al comune senso morale, da esigere una carica ideologica assoluta (13). E una tale ideologia, che ha base religiosa, esige che proprio tra i teologi si annidino i teoreti del terrore (14).

Il terzo dato è l’antisionismo (15). Osserviamo la consecutio temporum. Nel 1967 abbiamo la guerra dei sei giorni, ossia la grande umiliazione islamica. Nei primi attentati degli anni Settanta l’antisionismo è evidente: clamoroso l’episodio di Monaco. Nel 1973 abbiamo la guerra del kippur, che di nuovo vede Paesi islamici soccombere al fratello minore. Ma il 16 e 17 ottobre di quell’anno, ossia durante la guerra siro-egiziana contro Israele, l’Opec tenne una Conferenza a Kuwait City che stabilì: a) la quadruplicazione del prezzo del greggio; b) l’embargo a Stati Uniti, Danimarca e Olanda; e) la progressiva diminuzione del petrolio estratto; d) l’impegno ad estendere l’embargo ai Paesi che non avessero sottoscritto le loro condizioni; e) di includere nelle condizioni politiche da far accettare ai partners economici il ritiro di Israele dai territori occupati, il riconoscimento dei palestinesi, la presenza dell’OLP alle trattative di pace, l’applicazione della Risoluzione 242 dell’ONU (16).

È un dato oggettivo che Israele al suo costituirsi non fu riconosciuto dai Paesi islamici. E fino alla fine l’ostilità di Saddam nei suoi confronti fu aperta. Dunque vi è una convergenza evidente delle politiche economiche, militari e terroristiche. Dopo gli attentati di New York, di Madrid, di Londra, di Sharm El Sheik, non vedere che il sincronismo è un dato quasi maniacale di questo Islam sarebbe da ciechi. Ma il sincronismo vi è anche tra Conferenza Opec e Guerra del Ramadan. E il sincronismo è un messaggio culturale ad intra, un modo eminente per affermare che l’Islam è unito e coordinato.

Il quarto dato è la missionarietà. Questo è un elemento meno visibile di altri, ma ugualmente chiaro. Negli USA gli anni Sessanta videro una vera invasione di studenti islamici provenienti dall’Africa e finanziati dai Paesi arabi. Il loro slogan era «Revival of Islam», e a quel grido fondarono diverse sette, tra cui il Black Muslims Mo-vement, che adescò tra le sue fila Cassius Clay e molti altri.

Oggi, sotto la spinta di un forte proselitismo, l’85% dei musulmani americani sono neri (17). Nel 1966 Cassius Clay si chiamava già Muhammad Ali: e questo riporta allo scenario precedentemente visto: l’islamizzazione dei neri d’America non fu improvvisata. Fu pensata, pianificata, programmata. Perciò dobbiamo risalire forse agli anni Cinquanta. E non è da escludere che proprio il sionismo e la rinascita di Israele abbiano scatenato l’orgoglio islamico del Revival.

Ma il caso USA non è il solo. Già nel 1974 Giulio Andreotti dava testimonianza delle pressioni arabe per ottenere «la Grande Moschea» di Roma. Ora negli anni Settanta i musulmani di Roma non andavano tanto oltre il personale delle ambasciate e qualche turista occasionale. Perché dunque una «Grande Moschea»? Un tale non piccolo investimento si giustificava solo in quella medesima prospettiva di espansione dell’Islam registrata negli USA. E, in effetti, quando essa venne inaugurata nel 1995 la folla fu tale da dimostrare che chi aveva pianificato l’investimento non era stato affatto avventato.

Ma, di nuovo, ciò lega islamizzazione dell’Occidente e potere politico, perché non furono privati a sostenere quelle spese, ma Arabia Saudita, Kuwait, ecc.: miliardi e miliardi di petrodollari sono tornati nel mondo cristiano sotto forma di moschee, istituti islamici, scuole coraniche, ecc. (18)

Il quinto dato è l’immigrazione. E questa è la cosa per un verso più ovvia e per un altro più difficile da capire. Quando la televisione ci mette di fronte ai flussi di clandestini, subito pensiamo che si tratti di povera gente, di profughi, ecc. E in parte è così. Poi, però, c’è ciò che nessuno dice: ossia che la loro accoglienza è la contropartita al mancato embargo petrolifero. Torniamo alla Conferenza di Kuwait City del 1973.

L’anno seguente la CEE recepì formalmente quelle indicazioni politiche, dando vita, in luglio, all’Associazione Parlamentare per la Cooperazione Euro-Araba: una commissione mista paritaria. Ma entro il 1975 vi furono già i primi importantissimi sviluppi nel Convegno del Cairo, che approvò alcune proposte, poi integrate nella Risoluzione di Strasburgo.

Ed ecco alcuni passi salienti: «Una politica a medio e lungo termine deve d’ora innanzi» prevedere «lo scambio della tecnologia europea con il greggio e con le riserve di mano d’opera araba». Si «chiede ai governi europei di predisporre provvedimenti speciali per salvaguardare il libero movimento dei lavoratori arabi che immigrano in Europa nonché il rispetto dei loro diritti fondamentali.

Tali diritti dovranno essere equivalenti a quelli dei cittadini nazionali» con «uguale trattamento nell’impiego, nell’alloggio, nell’assistenza sanitaria, nella scuola gratuita, ecc.», includendo «l’esigenza di mettere gli immigrati e le loro famiglie in grado di praticare la vita religiosa e culturale degli arabi», nonché «la necessità di creare attraverso la stampa e i vari organi di informazione un clima favorevole agli immigrati e alle loro famiglie» e di «esaltare attraverso la stampa il mondo accademico e il contributo dato dalla cultura araba allo sviluppo europeo» (19). Infine il Comitato Misto di Esperti aggiunse o chiarì il diritto degli immigrati «di esportare in Europa la loro cultura. Ossia di propagarla e diffonderla» (20).

Dunque patti molto chiari: se volete il petrolio, dovete farvi islamizzare. Cioè dovrete accettare un neocolonialismo a rovescio (21), dove la parte dei colonizzateli la fanno quelli che furono colonizzati (22). Se si considera il complesso della strategia, ugualmente lucida nella conquista del millimetro e nelle mazzate tipo 11 settembre, si comprende che l’OPEC ha puntato alla tempia dell’Europa il grilletto petrolifero, e che intende usarlo con una spregiudicatezza assoluta. Conquistata l’Europa, Israele sarebbe accerchiato e si arriverebbe alla resa dei conti finale in casa di Abramo, forse adombrata dall’Apocalisse.

Ma in questa strategia vi è un problema: le truppe americane sul suolo islamico. Da qui due linee politiche divergenti non per il fine perseguito, ma per le strategie concepite. Bin Laden, infatti (ma sicuramente anche l’Iran, e forse il Pakistan), considera che il grilletto petrolifero alla fine peserà meno del grilletto atomico. Cioè il ricatto non potrà durare a lungo per due motivi: uno è che non si può alzare il prezzo del greggio fino a rendere più economiche altre fonti di energia (altrimenti finirà che in Europa si estrarrà il petrolio dai copertoni usati delle auto, come si è già fatto; o si otterrà benzina da qualche vegetale).

L’altro è che quando l’Occidente sarà veramente messo alle strette, reagirà con le armi. Ecco perché occorre una strategia diversa, che portando la guerra in casa all’Europa e all’America impedisca l’uso del grilletto atomico. Ma, per fare questo, occorrono capitali ingenti e disporre delle leve di governo, attualmente in mano a musulmani meno radicali. E così la linea politica terroristica marcia su due direttrici parallele: combattendo i regimi islamici «moderati» e operando attentati spettacolari in Occidente, per rafforzare il proprio prestigio agli occhi dell’Islam e legittimarsi alla sua guida.

E, se questi sono gli scenari plausibili, anche la politica di Bush assume una intelligibilità totalmente diversa. È la politica del controgrilletto. È una scelta di cui si tratterà di verificare la validità. Tutto il problema si riduce alla verifica se l’Iraq divenga o no un secondo Vietnam o una seconda Somalia.

L’ultimo dato sono i sentimenti di gioia esternati dalla popolazione islamica nelle piazze, sui siti internet e anche a mezzo stampa sia dopo l’11 settembre, sia dopo la mattanza dell’uragano Katrina (definito soldato inviato da Dio dal quotidiano kuwaitiano Al Siyassa). Se si arriva a gioire per cose così orribili, tale gioia spezza la naturale solidarietà umana e precisa il senso dell’espressione cani infedeli. Un massacro di cani non mi tocca, non sono uomini. E questo è razzismo, e occorrerebbe – come per esempio fa Pellicani nel libro citato – cominciare a chiamarlo per nome, traendo poi le debite conseguenze. Dunque l’islamizzazione dell’Occidente non è un fantasma né una paura: è un’intenzione e un fatto che emerge dall’esame obiettivo dei dati.

La reattività filocomunista. – Si potrebbe però obiettare che nella storia molti sono i fatti obiettivi che si coagulano dandole significato, senza per questo che esista uno stratega che li pensi a tavolino. E qui siamo al secondo punto: la corrispondenza tra fatti e lucidità di un disegno. Che essa sia ipotizzabile è evidente, sia perché i sincro-nismi parlano da se stessi, sia perché le richieste politiche sottoscritte in atti internazionali non sono casuali.

Ma tale lucidità di programma è anche esplicitamente dichiarata, almeno secondo il resoconto che la Fallaci ne da in La forza della ragione, dove cita l’intervista a lei concessa in anni lontani da George Habash: «La nostra rivoluzione è un momento della rivoluzione mondiale. Non si limita alla riconquista della Palestina. Bisogna essere onesti ed ammettere che noi vogliamo arrivare a una guerra come la guerra in Vietnam. Che vogliamo un altro Vietnam. E non solo per la Palestina, ma per tutti i paesi arabi. […] È dunque necessario che l’intera Nazione Araba entri in guerra contro l’America e contro l’Europa».

Come emerge da Intervista con la Storia le parole di Habash si riferivano all’idea di una rivoluzione trotzkista (il suo Movimento era sostenuto dalla Cina). Poi è vero che egli era nato cristiano e dopo la guerra dei sei giorni si era fatto musulmano. Ma in lui il comunismo era più antico della fede islamica, più radicale nell’analisi politica. Perciò la sua era una battaglia antiamericana, antimperialista, anticapitalista. E questo spiega perché sia così difficile per la sinistra chiamare Habash terrorista. Ciò però che è importante sottolineare è che negli anni Cinquanta e Sessanta gli intellettuali islamici politicamente più impegnati non erano su una linea mahdista: erano comunisti islamici, non islamici comunisti.

Il «risveglio» islamico. – La prima reale presa di distanza da questo stato di cose e di inversione della formula che anteponesse l’aggettivo «islamico», si ha solo nel 1971, quando Sadat, deluso dai russi, rispedisce a casa i consiglieri militari inviati da Mosca. E dichiara che per i sovietici il problema del Medio Oriente era solo uno dei tanti all’ordine del giorno, al quinto o al sesto posto nelle loro preoccupazioni, mentre «qui, da noi, è il problema principale» (23). Ecco il punto: l’internazionalismo comunista al mondo islamico stava chiedendo troppo, e inizia la presa di distanza: si comincia a scindere l’idea del revival islamico da quella della società comunista.

Questo processo non fu immediato né omogeneo. Chi già per le proprie convinzioni religiose diffidava dell’atea URSS fu più rapido. In ogni modo si ebbero due importanti accelerazioni con la resistenza afghana prima e il crollo del muro dì Berlino poi. Dissoltasi l’URSS, l’antico programma anticapitalista rimaneva solo antimperialista, ma mantenendo le note di una prospettiva di lotta globale, e corroborando le motivazioni non più con il materialismo dialettico, ma col jihad. Vi è dunque un abisso tra Bin Laden e il George Habash dei primi anni Settanta. Bin Laden è un asceta, un mahdì. Habash era un Che Guevara mediorientale.

Aisha Farina, milanese convertita all’Islam che per Bin Laden ha pubblicamente attestato la propria venerazione come davanti a una guida ben guidata, ha dichiarato: «Può darsi che tutti gli italiani finiscano per convenirsi, e comunque vi conquisteremo pacificamente. Perché ad ogni generazione ci raddoppiame o di più. Voi invece […] siete a crescita zero» (24). Ecco ciò che pensa l’Islam, e che Aisha ha bene assorbito e detto. L’accelerazione dell’immigrazione, unita a quei diritti civili e politici che la Risoluzione di Strasburgo ha concesso e che molti politici in Italia, sia a destra (Fini) che a sinistra (tutti) vorrebbero estendere, potrebbe produrre col tempo lo scenario che Aisha rappresenta (25). Del resto un tale disegno viene da lontano (26), ed è importante accennare agli anni Venti.

In quell’epoca il mondo arabo si interrogava sul perché della superiorità europea (successi coloniali). E la conclusione fu: per la tecnologia superiore e per le nostre divisioni interne. Perciò la terapia era obbligata: imparare la tecnologia e superare la divisione islamica. Da qui la necessità di progredire nella scienza, ma anche nella fede, perché solo un risveglio della fede avrebbe consentito di ritrovare la coesione necessaria in un confronto tanto impegnativo con l’Occidente. In altri termini lo zelo religioso islamico viene da lontano, anche se ha assunto evidenza particolare con la deposizione dello scià in Iran e con i talebani afghani.

Questa riflessione, anticoloniale prima che antisionista, rinnova la teologia islamica e matura la domanda: se il giudeocristianesimo coloniale ha fatto questo a noi, perché non fare lo stesso a lui? Perché mai l’Islam non dovrebbe espandersi nuovamente? E infatti la Turchia laica di Ataturk per prima cosa cacciò i greci, e appena possibile rimise le mani su quel che le riuscì di Cipro. E nel 1973 Siria ed Egitto ci riprovarono con Israele. Ma appunto, il fatto che abbiano trovato un osso più duro dei loro denti, non deve far trascurare i molti successi che la politica neoislamica ha ottenuto, ovvero di quelli a portata di mano o sfiorati (27).

Ma l’Islam avanza anche in altro modo: a Mazara del Vallo dalla fine degli anni Settanta vi è una comunità tunisina che ha ottenuto di rimanere tale a tutti gli effetti, con scuole tunisine, insegnanti mandati da Tunisi, leggi tunisine, ecc. E così la poligamia è illegale, ma la si tollera. In altri luoghi l’Islam apre scuole illegali, ma non si interviene. Si pratica l’infibulazione, ma nessuno è processato. Nell’insieme ciò induce una asimmetria dei cittadini davanti alla legge, in forza della quale alcune minoranze dall’essere tutelate divengono privilegiate (28). E ciò prova l’incompatibilità tra multiculturalismo radicale e Stato di diritto laico fin qui inteso (29).

L’Islam che non immaginiamo

S’è detto che l’Islam ci attacca perché quello con l’Occidente è l’incontro con una modernità mortale. Cosa per noi ardua da immaginare, perché le nostre precomprensioni religiose si modellano sul caso del cattolicesimo che – tutto sommato – all’incontro con la modernità sopravvive meglio di quanto ipotizzato nell’Ottocento. Vi è dunque un sottile gioco precomprensivo che annebbia il giudizio, In effetti se la Gaudium et Spes accoglie in modo chiaro il progresso come un dono divino, pur consapevole dei molti squilibri e contraddizioni che trascina, tuttavia il Vaticano II viene da lontano, né fu la prima apertura alla modernità o l’inizio del confronto.

Uno schema diverso – La storiografia del cattolico Manzoni tiene conto della lezione di Voltaire, mentre ancora oggi nell’Islam la regola storiografica comune è che Storia e Storia dell’Islam coincidono (30). E mentre il cristianesimo fin dalle sue origini ha preso consapevolezza di avere una preistoria almeno ebraica, per l’Islam non è così. Teologicamente tutto nasce con Maometto, perché il Corano non ha preistoria, essendo rivelato. È infatti increato e coeterno a Dio (31).

L’incontro con la modernità crea all’Islam lo stesso problema che la Chiesa cominciò ad affrontare dal secolo aureo della patristica: quello di una valutazione critica del testo sacro, che non è solo rivelato, ma anche opera umana. L’analisi scientifica del Corano mostra infatti che esso ha complesse stratificazioni; che a volte alcune sure sono risposte a sollecitazioni specifiche di questa o quella persona; che esistono molteplici tradizioni testuali, ecc.

E non basta: la sura 18, 23 riprende pari pari Gc 4, 13-15: «voi dite: “Oggi o domani andremo nella tal città […]”, mentre non sapete cosa accadrà domani […]. Dovreste invece dire “Se il Signore vorrà”»; le sure 2, 256: «Non c’è costrizione nella religione» e 18, 29: «Dì: “La verità viene dal Signore, chi vuole creda, chi non vuole non creda”», riprendono un concetto che ricorre nelle opere di Agostino in vari luoghi (32). L’incontro con la modernità imporrebbe di ammettere le dipendenze letterarie, e dunque di depotenziare la rivelazione coranica, valorizzando sia precedenti rivelazioni, sia la Storia preislamica. Ma quando, nell’aprile 2001, fu tenuto in Algeria un importante Convegno internazionale agostiniano, si trattò di una vera e propria novità.

Nella sua terra – come testimonia l’arcivescovo di Algeri H. Teissier – o Agostino non lo si conosceva, o lo si conosceva a rovescio: in nome dell’ordine romano oppressore del popolo africano donatista. E altrove non è meglio: la Storia coincide con la Storia dell’Islam, e l’Islam non ha preistoria. È solo se si tiene conto di un tale orizzonte che si comprende il vero senso della querelle sul crocifìsso suscitata in Italia da qualche fondamentalista. E dunque si comprende quanto sia semplicemente fuorviante la lettura della questione islamica alla luce del materialismo storico (33).

Non è affatto in gioco un problema economico, ma una questione culturale: ed è diverso. L’Islam accetta il progresso fatto di frigoriferi, di panfili di lusso portato dai petrodollari, ma non la cultura complessa che quel progresso ha prodotto. Cosa che si vedrebbe anche meglio considerando la questione femminile e l’idea islamica di famiglia. L’immigrazione massiccia di musulmani in Europa ha fatto sì che il confronto con la mentalità occidentale fosse inevitabile (34). E la risposta è complessivamente in linea con ciò che già accadde nel dopoguerra nelle università islamiche.

Nel 1947 Muhammad Ahmad Khalafallah, giovane docente dell’Università del Cairo, presentò una tesi sulla tecnica narrativa del Corano. Il suo intento era di difendere il testo sacro nel suo impatto con la modernità (per esempio sosteneva che il disprezzo per le donne rifletteva la cultura araba del tempo, ecc.) (35), ma nel giro di pochi anni fu bollato come miscredente, con la conseguenza non solo di non poter più insegnare, ma anche di non poter sposare legalmente una donna musulmana.

La reazione a noi pare inverosimile, ma la motivazione teologica fu che il Corano dice il vero quando è in conflitto con la Storia, perché nel conflitto è la Storia a mentire. Se si parte dal presupposto che il Corano è Parola di Dio increata e coeterna, la coerenza è chiara. L’Islam non ha avuto il «caso Galileo» e neppure un Boscovich: ecco la differenza (36). Purtroppo il caso di Khalafallah non fu l’unico. Nel 1992 Nasr Hamid Abu Zayd, pure docente al Cairo e in attesa di promozione, incorse in un analogo processo, con condanna confermata in Cassazione nel 1996.

Se cose simili accadessero in Italia si griderebbe al «medioevo» e alla profanazione teocratica dello Stato laico. Ma nell’Islam strettamente inteso, lo Stato laico è impensabile (37), perché manca l’idea di una Città di Dio distinta dalla città dell’uomo (38). Certo, anche nell’Islam vi sono due città, ma la seconda è quella degli infedeli, che non ha i medesimi diritti della prima. Ecco perché il londonistan e il progetto di Carmagnola (cfr. nota 27).

Perché come il monachesimo medioevale si isolava per costruire la città di Dio, così l’Islam crea i suoi santuari da cui propagarsi. E, dal loro punto di vista, non si tratta di un ghetto: siamo noi che abitiamo la città senza legge. E infatti la prova del nove è nella sottoscrizione da parte di Stati islamici della Carta dei Diritti Umani compilata dalla Conferenza Araba, invece della Carta dei Diritti Umani riconosciuta dall’ONU, con la conseguenza che in Sudan – ma anche in Egitto e altrove – tenere una schiava cristiana non è un reato (e se anche lo fosse formalmente, lo si tollera).

Nel dipingere l’Islam a colori rosa dimentichiamo due fatti basilari: il primo è che la parola libertà (hurriyya = affrancatura) è stata introdotta solo nel 1774 a seguito della necessità di sottoscrivere trattati con gli occidentali, in un momento di riconosciuta leadership dell’Occidente. Il secondo è che almeno dagli anni Sessanta alla fase-2 è subentrata la fase-3, la rinascita dell’orgoglio islamico.

Dunque l’Islam moderato, propriamente, non esiste, perché non esiste una teologia islamica istituzionale e moderata. Esistono musulmani moderati, e anche a volte lungimiranti, come il Presidente dell’Algeria che ha voluto e promosso il Congresso su sant’Agostino (39). Invece l’Islam, ossia la cultura istituzionale religiosa dei musulmani, nel suo incontro con la modernità ha reagito arroccandosi su posizioni fondamentaliste. E questo non solo in Iran o in Pakistan, ma persino in Egitto (40).

Centralità dei teologi islamici. – Tuttavia per comprendere il significato pratico della chiusura intervenuta nelle Università islamiche, occorre qualche cenno ulteriore. Il primo punto è che il Corano è scritto in arabo altomedioevale ed è tramandato da un testo non vocalizzato. Ciò significa che benché molti musulmani lo leggano (41), di fatto la sua comprensione è mediata dagli imam, ossia dai suoi interpreti ufficiali, formati nelle Facoltà teologiche islamiche.

Perciò la chiusura universitaria ha come effetto la formazione fondamentalista degli imam, e dunque l’orientamento in senso fondamentalista della massa dei musulmani. Vi è quindi una convergenza oggettiva tra il trend teologico islamico e l’ideologia dei terroristi. Per fortuna non tutti gli imam hanno il medesimo zelo jihadista, ma il problema è che l’Islam moderato non c’è, ossia non esiste una teologia islamica che abbia integrato la modernità.

Ecco perché non solo sarebbe prudente, come già sosteneva il cardinale Giacomo Biffi, scoraggiare l’immigrazione islamica, ma sarebbe addirittura autolesionismo incoraggiarla senza chiedere contropartite in termini di integrazione (42). Vi è cioè un problema negoziale: sulla linea della Pacem in terris i negoziati non vanno interrotti, ma ripresi con una prudenza e una accortezza politica superiori a quelle viste fino a ieri.

E tuttavia il rischio è che l’albero oscuri la foresta, il terrorismo è motivo di allarme, ma temere non è comprendere, e se si vuole comprendere occorre non fermarsi alle proprie paure. Il punto di fondo è che l’Islam non è compatibile con le liberaldemocrazie per ragioni più forti e profonde di quanto si pensi per lo più: non è solo questione della poligamia, del velo, del venerdì, ecc.

Cioè non è solo un problema di regole comportamentali-morali-religiose (43). E lo si vede considerando come l’Islam funziona in casa propria, e perché la sua civiltà si esprima in tal modo. Si è detto che già negli anni Venti si era cominciata a capire la necessità di una rinascita religiosa unitaria, che si caratterizzasse come fortissima Identità araba. E questo avvenne attraverso le Università coraniche prima e le riforme islamizzanti dello Stato poi.

In Iran vi sono mullah deputati al controllo della moralità. E se si va a guardare in camera da letto, molto di più si controllano cinema, stampa e libri: è il monitoraggio delle espressioni pubbliche di pensiero, censurate se non conformi alla shari’a (o al Corano e sua interpretazione ufficiale). Un professore a scuola non può dire ciò che vuole, e un intellettuale se pubblica ciò che gli pare si assume dei rischi (44).

Per capire il senso del discorso, è vero che solo col Vaticano II la Chiesa abolì L’indice dei libri proibiti, ma tale Istituzione, quando fu abolita, non aveva alcun valore civile (45). Nell’Islam non è così. Una censura religiosa è ipso facto una censura civile, perché le autorità religiose hanno autorità civile e viceversa.

L’insieme di questi e altri consimili fatti interpella allora la nostra onestà intellettuale, perché non possiamo intenderli come casi isolati, privi di significato generale; e se casi isolati non sono, ne deriva una conclusione sola: la parola libertà in arabo non c’era, perché la civiltà islamica non la prevede proprio. Ecco il punto.

E allora l’assolutismo saudita o di altri emiri, l’inferiorità giuridica della donna, ecc., non sono stranezze emendabili. Sono effetti di una causa radicale, che non si può rimuovere senza distruggere l’Islam. Ecco perché tali stranezze sono così difese. Perché esse hanno un rapporto con l’Identità islamica. E allora integrazione potrà esservi con i singoli musulmani, ma non con l’Islam. Ecco perché il vero problema non è neppure tanto l’immigrazione musulmana, ma l’apertura in Europa delle moschee. Ecco perché proprio qui ha puntato i suoi sforzi politici Feisal, che ben si guardò dal concedere di aprire una cappellina in Arabia.

L’integrazione impossibile. – Sul piano filosofico va ricordato che altro è stare, altro è stare bene. E lo stare bene in Italia di un musulmano non coincide affatto con lo stare bene dell’Islam. La bagarre sul crocifisso lo rivelò con chiarezza: chi la suscitò non era una persona semplicemente esaltata. Era un portavoce dell’Islam che in Europa non vuole solo stare, ma anche stare bene, come se fosse a Medina.

E attenzione, è proprio questo che in qualche modo è stato chiesto/concesso con la Risoluzione di Strasburgo. Perciò il rischio dell’atteggiamento diffuso in Europa, che qualcuno definisce «buonismo», è evidente: esso pensa sufficiente la nostra tolleranza ad evitare ogni problema, e non è così. L’Islam d’importazione non cesserà di essere potenzialmente destabilizzante, finché il suo «stare qui» non sia divenuto uno stare bene qui.

Purtroppo la società aperta liberale cade in aporia quando si scontra con una civiltà chiusa non compatibile. Il problema della tolleranza fu impostato all’interno della civiltà cristiana, per depotenziare i suoi conflitti intestini. Ma la sua impostazione produsse senso perché la tolleranza era un valore riconoscibile dagli uni e dagli altri, in quanto teologicamente fondabile. Invece nell’Islam la tolleranza non ha fondabilità teologica in quel senso vasto che caratterizza le nostre società laiche (46).

La libertà di stampa non ha senso. Il Basso Medioevo ha Boccaccio e il Rinascimento Pietro Aretino. Ma l’Islam per molto meno ha censurato Khayyam, che parlava di vino e di ubriachezza. E il fatto che alla fine del sec. XX sia stato un po’ riabilitato in Iran, non è detto che sia tutta quell’apertura che si vuoi far credere da alcuni.

In Arabia l’Islam si protegge proibendo persino l’ostentazione di catenine con la croce. Ma in Europa come può proteggersi? Non è solo il problema dei jeans delle ragazze (47). È il problema della scuola, dei giornali, dei sindacati, delle donne in ruoli dirigenti, del cinema, della televisione, delle biblioteche: è tutto l’Occidente che nelle sue Istituzioni è una minaccia antislamica. E lo è non perché voglia esserlo, ma semplicemente per il suo esistere. Come Israele.

Con la differenza che Israele si è insediato in casa d’altri facendo centinaia di migliaia di profughi e decine di migliaia di morti. La Fallaci teme che le migrazioni islamiche faranno altrettanto con noi. Ci auguriamo che ciò non avvenga, ma è uno scenario possibile. Infatti questo Islam che si espande, che fa proseliti, che impianta le sue Istituzioni, non è affatto un Islam dalle molte identità, come vorrebbe far credere qualcuno (48). Per l’Occidente, oggi, il mondo musulmano (cfr. nota 1) non è un problema. L’Isiam sì (49).

Jihad: un fenomeno da capire

E qui siamo all’ultimo punto e più controverso. I media, infatti, sono su posizioni opposte: la destra sposa quelle preoccupate della Fallaci e parla di guerra dichiarata all’Occidente o guerra di civiltà. La sinistra per lo più tende a depotenziare il fenomeno, analogamente a quanto fece con le BR (della serie: il pericolo è sempre e solo nero). Se questo è il quadro mediatico, ben altro emerge considerando la letteratura di livello più impegnato.

Quando per esempio Giovanni Sartori, invece di scrivere due cartelle sul Corriere della Sera, si allarga nella Prefazione al citato libro di Pellicani, ecco cosa dice: «I politici rispondono quasi tutti di no» (ossia dicono che il conflitto di civiltà non esiste, e che Huntington è un poverino). «Ma la loro è una risposta diplomatica, “furba”, che si propone di minimizzare e rassicurare. […] Rispondono di no, ovviamente, anche i pacifisti e i terzomondisti e, soprattutto, la vasta schiera dei lieto-pensanti, che vive sperando e muore cantando» (p. 5).

Quindi prosegue definendo peregrina la tesi di Daniel Pipes, che sostiene l’esistenza di due Islam, di cui uno moderato, e riconoscendo che comunque oggi l’Islam vincente è quello dei fondamentalisti (cfr. p. 8). E dopo aver citato Ahmed al-Nasiri che bollava la libertà della civiltà occidentale come «una invenzione degli atei» incompatibile ai diritti di Dio ecc., conclude che «lo scontro attuale è religioso e fideisticamente aggressivo soltanto da parte di uno dei contendenti» (p. 9).

E la tesi della guerra asimmetrica di Ferrara, né più né meno. Giunti ormai all’inizio del 2006, c’è da chiedersi se i politici di sinistra abbiano o no letto queste pagine, che già hanno più di un anno di vita. Perché se gli stessi intellettuali di sinistra sono sulle posizioni di Ferrara e della Fallaci, i politici che fanno: delegittimano la loro stessa intellighenzia?

Lasciamo aperto questo problema, e invece seguiamo l’analisi geopolitica correlativa presentata nel suo «Editoriale» da Limes, nel primo numero del 2004 50. In breve ecco il quadro:

1. Il jihad ha antecedenti remoti di carattere ideologico-religioso in Sayyid al-Qutb (massimo ideologo del movimento dei Fratelli musulmani) e, ancor prima, nel wahhabismo.

2. Il 1979 segna la vera svolta jihadista. In gennaio insorge l’Iran contro lo scià che va in esilio, e in Afghanistan si ha un’insurrezione islamica contro il governo filo-russo. In novembre a Teheran viene attaccata l’ambasciata americana e vengono presi 52 ostaggi. In dicembre l’URSS invade l’Afghanistan a sostegno del governo. A questo punto la lotta islamica esce da una prospettiva strettamente antisionista. Non è più semplicemente in gioco l’invasione di un territorio, ma l’attacco concentrico russoamericano alla civiltà islamica.

3. La risposta all’invasione russa fu complessa e si valse di due assi: la rete delle centinaia di scuole e Università coraniche (dove dal Pakistan al Marocco reclutare, con l’appoggio e le simpatie dei Fratelli musulmani, volontari per l’Afghanistan); e la struttura militare e finanziaria messa in piedi da Bin Laden. Nasce così una multinazionale islamica, con solidi agganci coi servizi segreti pakistani prima e la Cia poi, e con importanti entrature presso i vertici sauditi, ecc., che finanziano generosamente l’impresa. Il rapporto tra jihad e Cia fu di strumentalizzazione reciproca e, dopo il caso afghano, si rinnovò nella guerra contro Belgrado. Ma si trattò di convergenze tattiche, la cui natura emerse ben presto in Somalia. Anche il sodalizio con l’Arabia Saudita non rimase stabile, soprattutto a causa degli sviluppi intervenuti nel 1989 con la morte di ‘Azzam e la correlativa egemonia ideologico-politica di al-Zawahiri, e nel 1991 con la guerra del golfo e l’installazione di basi americane in Arabia.

4. Tuttavia i precedenti imponenti flussi di petrodollari e il cospicuo capitale personale di Osama consentirono di impiantare un vero impero finanziario mondiale, con attività dalle Filippine a Singapore, al Libano, a Panama, a Zurigo, Hong Kong, Londra, New York, ecc. Alle attività finanziarie e imprenditoriali (soprattutto immobiliari, ma non solo) si aggiunse poi il lucroso traffico dell’oppio, controllato mediante il governo afghano (dal ’96 talebano) e pakistano. La guerra in Bosnia prima e in Kosovo poi consentì a Osama di impiantare in quei Paesi ulteriori basi per alimentare il narcotraffico verso l’Europa. Parallelamente cresceva la rete delle lavanderie, dislocate persino in America Latina.

5. Nel ’92 Osama si trasferisce a Khartum, invitato da Hasan al-Turabi, «fratello musulmano» e jihadista spinto. Qui collabora al progetto di un grande califfato esteso dalla Nigeria all’Egitto; e con l’appoggio governativo entra nei traffici di diamanti e pietre preziose: ciò che è anche un modo di colpire gli interessi ebraici.

6. A questo punto, se si considera che nello scacchiere internazionale entrano in gioco anche la Thailandia, il fronte caucasico e la gestione dei flussi migratori clandestini verso l’Europa, si comprende la forza poderosa di una macchina, nata come apparato di difesa (51), che non arriverà certo ad autosmantellarsi per senescenza naturale. La sua stessa natura a rete rende difficile colpirla in modo mortale; e le foltissime motivazioni ideologiche la spingono a perseguire come proprio fine intrinseco la distruzione dell’Occidente. Un fine che si avvale, oltre che delle forze proprie, anche dell’ efficace simpatia di Stati visceralmente antioccidentali, come l’Iran e il Sudan, oltre che dei mai interrotti rapporti coi servizi segreti pakistani.

Per questo pensatoio di sinistra Oriana Fallaci e Magdi Allam sono quasi dei dilettanti nelle loro rappresentazioni del quadro internazionale (52). Davanti agli attentati di Madrid, ci siamo consolati perché gli attentatori venivano da fuori. Quando due kamikaze inglesi andarono a farsi esplodere in Israele, ci siamo consolati pensando che l’Europa era solo una base logistica. Il 7 luglio finalmente ci siamo allarmati: e ogni volta non abbiamo capito.

Ecco il commento di Ornar Bakri dopo le stragi del 30 aprile 2003 in Israele: «Sono anni che i nostri combattenti vanno a fare ‘ il jihad in Bosnia, in Afghanistan, in Kashmir, in Cecenia e anche in Palestina. È vero che Asif è il primo martire britannico in Palestina. Ma ci sono stati altri martiri britannici in Kashmir e in Cecenia. Attualmente abbiamo dei combattenti in Iraq che continuano a lottare contro l’occupazione americana. Per noi è un fatto naturale.

Con il martirio noi attestiamo che siamo un’unica nazione, che abbiamo un’unica causa, e che perseguiamo lo stesso obiettivo: la vittoria della nazione islamica». Ecco il punto: l’internazionale islamica del terrore. Alla globalità della minaccia culturale dell’Occidente solo una risposta globale è proporzionata: ed essa oppone la sua unità e coordinazione alle nostre divisioni intestine.

Conclusioni

Senatores boni viri, senatus mala bestia. Certamente non sono pochi i musulmani che la pensano come Magdi Allam, bonus vir. Ma, anche se fossero la metà del totale – e presumibilmente non lo sono (53) -, il problema è ben altro ed è dato dal convergere e dalle sinergie attivate tra strutture ideologico-identitarie ed economico-militari, entrambe ramificate a livello planetario e sostenute anche a livelli governativi.

Anche se formalmente questi governi non ci hanno dichiarato guerra, la verità è che essa non solo è in atto, ma – purtroppo – non sarà breve e ci farà pagare il fio di moltissime scelte sbagliate e miopi. Non ultima quella della voluta distruzione dell’etica cristiana, divenuta per l’Islam una provocazione insopportabile (distruzione della famiglia, libertà sessuale, ecc.). «Non abbiamo considerato la profondità e l’imminenza della minaccia fondamentalista in casa nostra. […] Non possiamo fingere un’integrazione che non c’è» (54).

Queste parole, non capite e accolte quando pubblicate, sono macigni dopo il 7 luglio. La necessità di un’autocritica vasta, che finalmente esca da un “buonismo” cieco e suicida, è inderogabile. E qui è allora da chiarire il senso teoretico e pratico di una tale palinodia.

Gli scenari a breve non vanno confusi con quelli a medio e lungo termine. Sul breve periodo temere un uragano è necessario almeno per minimizzarne i danni, ove non fosse possibile evitarlo del tutto o ridurlo almeno a temporale. Sul medio periodo è plausibile che a un transitorio turbolento segua una fase di riequilibrio complessivo. Ma in ogni caso è evidente l’importanza di lavorare per diffondere semi di pace e depotenziare il più possibile i semi di violenza tanto ideologici quanto affettivo-passionali. Ciò che semplicemente sembra contrario alla prudenza sono l’irenismo -che sottovaluta i pericoli – e la superficialità – che sottovaluta la difficoltà di trovare soluzioni efficaci (55).

Uscire dal “buonismo” non significa dimenticare la bontà e il dialogo, significa invece realizzare che altro è il dialogo, e altra la retorica del dialogo. Dialogare con i Magdi Allam è un piacere, purtroppo non concesso da tutti i musulmani. Certo discriminare è impresa delicata e ardua, ma dialogare con chi ha il retropensiero di islamizzarci e di ridurci a dhimmi, semplicemente non ha senso. Il dialogo coi musulmani moderati non solo va perseguito, ma va incrementato e tale controparte va sostenuta in tutti i modi, anche più di quanto si sostenne il dissenso sovietico.

Ma insieme a tali aperture occorre una politica della diffidenza e del sospetto che stringa quanto possibile le maglie della rete, e scoraggi al massimo la presenza in Europa degli islamizzatori. Essi infatti sono la colonna ideologica del terrorismo: non si può combattere questo senza contrastare quelli.

Che fine fa, dunque, la sbandierata libertà di religione? Dove finisce la nostra amata tolleranza? Questo in effetti è il nostro trauma più profondo, che nasce dalla disillusione che l’Islam produce. Tutto il pensiero laico si fonda su un presupposto e un pregiudizio. Il presupposto sottostimato è l’ambito di cristianità in cui si sviluppa; il pregiudizio è che la ragione sia sufficiente a regolare la vita civile. Ma il pregiudizio è falso, perché i jihadisti non sono persone pazze: essi agiscono secondo ragione e secondo coscienza, semplicemente identificando un pericolo – che siamo noi – che per noi non è tale.

La ragione non basta, perché la ragione sviluppa il rigore apodittico da presupposti anapodittici. Ecco il punto. E la tolleranza e la libertà pertengono a tali presupposti. Ecco perché Marcello Pera ha così tanta ragione nel sentire il bisogno di un rinnovato bagno etico, ispirato dal cristianesimo. Dialogo, libertà e tolleranza hanno infatti come presupposto la carità. È solo a partire dal riconoscimento del ruolo “fondamentativo” di un tale valore che hanno senso molte tesi e aspirazioni del pensiero laico. L’accoglienza è e deve restare un valore, da esercitarsi il più possibile, pur consci dei limiti imposti dalla finitezza storica. Ma non si può accogliere tutto.

Per entrare al banchetto occorre la veste nuziale, che dobbiamo esigere da chi bussa alla nostra porta. Una veste che non è battesimale, ma che subordina l’accettazione all’«osservanza delle nostre leggi. Altrimenti non potremo impedire che alcune moschee, centri di cultura islamica e circuiti di predicazione elettronica coltivino l’odio contro di noi» (56).

L’odio, appunto. Un sentimento verso il quale da troppo tempo mostriamo una tolleranza suicida. Un sentimento che è la condizione di impossibilità della vita sociale. Ecco dunque dove deve parare la nostra palinodia. In una prudenza che nasce da un’autocritica sincera e radicale: non possiamo negare cittadinanza all’odio, solo perché islamico. Abbiamo immaginato di poter cambiare il mondo appoggiandoci al peggiore dei veleni: l’odio ideologico. È stata una follia. È ora di cominciare a chiamare le cose col loro nome.

E tuttavia sarebbe troppo triste pensare che con la fase-3 finisca il mondo. Dobbiamo invece essere profeticamente certi di una fase-4, o della tolleranza-integrazione. Purtroppo, però, la fase-3 impedisce che l’auspicabile fase-4 possa coincidere con la pregressa fase-2: da qui la difficoltà di immaginarne i lineamenti. Dal punto di vista dei rapporti interculturali è probabilmente necessaria una certa diminuzione del tasso di laicismo delle società occidentali: ciò che non avverrà senza vincere molte resistenze (57).

Ma dal punto di vista della teologia islamica l’itinerario non è tanto ovvio, anche perché i centri culturali sembrano fortezze difficili da espugnare. Una via forse praticabile è quella di tornare ai grandi mistici del mondo musulmano: per esempio Rabi’a o al-Hallagj. Dai loro scritti emerge un’interpretazione coranica fortemente orientata al superamento della dicotomia, che poi è la vera patologia che oggi dobbiamo fronteggiare e che minaccia gravemente i nostri giorni. Ma al-Hallagj fu martirizzato da un califfo, non certo dai cristiani. Perciò il problema si connette con quello di una possibilità teoretica e pratica di una molteplicità teologica islamica. Onestamente pensiamo che il problema sia arduo, ma che resti pa-rimenti sbagliato ritenerlo insormontabile o inesistente.

E questo vale anche sul piano politico. Servizi segreti e quant’altro non vanno demonizzati, ma un’azione politica che si riduca a questo e a una negozialità più accorta resterebbe perdente. L’Islam di oggi pone all’Europa il problema del riconoscimento civile della sua Identità. È un problema serio, che il cristianesimo non ha saputo porre con la medesima forza.

Trovare una soluzione su una base di equità – ossia che contemperi e tuteli allo stesso modo i diritti di tutti i gruppi religiosi – non sarà semplice, ma certo non è pensabile che si conceda a una minoranza quella tutela civile della propria Identità e quel riconoscimento culturale che il laicismo figlio dell’Illuminismo francese nega fin qui alla maggioranza cristiana. In breve la questione islamica sollecita ripensamenti profondi dello Stato, che non può identificarsi con una parte religiosa, ma che forse ai gruppi religiosi deve concedere molto di più di quanto oggi avviene. E questa la sfida che ci attende, e che nel suo lato più bello appassiona

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