Matrimonio tra omosessuali?

matrimonio_gayTratto da: Una filosofia della famiglia, Giuffrè, Milano

Dietro le attuali prospettive sulla omossessualità e le unioni omosessuali vi è la sfiducia nella possibilità di elaborare un discorso obiettivo sulla persona umana, sulle sue spettanze, sulle sue esigenze autentiche e profonde, sui suoi doveri; la stessa categoria dell’identità personale è ritenuta non tematizzabile; la persona è vista come fondamentalmente inafferrabile, indicibile, evanescente, quindi come fondamentalmente irrelata, avulsa da ogni logica di comunicazione e riconducibile unicamente alla dinamica costitutivamente instabile dei desideri individuali e soggettivi. Da qui pesanti conseguenze sul piano del diritto

Francesco D’Agostino

§ 3. Matrimonio tra omosessuali?

(…) 3.3. Che cosa propriamente chiedono coloro che auspicano una riforma così radicale del diritto di famiglia come quella che dovrebbe aprirlo al riconoscimento formale delle coppie omosessuali? Essi chiedono che l’ordinamento giuridico prenda sul serio il fatto che l’omosessualità non può più essere intesa come una malattia (8); di conseguenza, che non è più possibile continuare a gestire la questione omosessuale come si è fatto finora, cioè attraverso un’attenta miscela di tolleranza privata e disapprovazione pubblica.

Proprio in quanto non sono soggetti malati, gli omosessuali – ma su questo, si noti bene, non c’è chi non sia d’accordo – hanno il diritto a non subire alcuna discriminazione a causa della loro identità (9).

Potrà e dovrà continuare ad essere combattuta l’omosessualità che si manifesterà in forma violenta, ma non diversamente peraltro da come può e deve essere repressa ogni pratica sessuale violenta posta in essere da eterosessuali. Ma una pratica omosessuale liberamente e consapevolmente accettata deve oramai – così si sostiene – avere lo stesso riconoscimento di una pratica eterosessuale.

Poiché dunque esistono serie e rispettabili convivenze omosessuali, che presuppongono nei conviventi profondi impegni reciproci di affettività e solidarietà, bisogna procedere nei loro confronti ad una vera e propria forma di riconoscimento legale, secondo modalità normative sostanzialmente analoghe a quelle che governano le coppie coniugate.

In una prima e generica approssimazione, sembra che tutto quindi si condensi in una richiesta che sembra avere dalla sua una certa ragionevolezza, la ragionevolezza di chi insiste che bisogna prendere atto di un dato che oramai appartiene alla realtà del nostro tempo.

Se però cerchiamo di andare al di là di questa prima approssimazione e vogliamo mettere a fuoco l’essenziale del dibattito in materia di questi ultimi anni, ci accorgiamo che le cose non possono essere ridotte in termini così semplici. Infatti, la linea dei “riformisti” (per riunire sotto quest’unica categoria tutti coloro che ritengono giunto il momento di riformare radicalmente il diritto di famiglia) non è univoca: nel loro fronte convivono almeno due diverse linee di tendenza, irriducibili di principio tra loro, che solo occasionalmente si trovano, nel nome della rivendicazione di un modello “pluralistico” di famiglia, ad essere alleate contro la prospettiva giuridica “tradizionale”, quella che parla di famiglia “al singolare”, come fondata su un concetto univoco di matrimonio, inteso come l’unione stabile di due individui di sesso diverso (10).

3.4. Da una parte c’è la linea di tendenza che potremmo denominare liberazionista – seguendo l’indicazione di Andrew Sullivan in quello studio a suo modo esemplare che è virtually normal (11) -secondo questa linea la lotta per il riconoscimento delle convivenze omosessuali si inquadrerebbe in una linea politico-progettuale assolutamente più ampia.

E’ evidente che il riconoscimento di un matrimonio tra omosessuali comporterebbe, nell’immediato, un effetto sociale inevitabile e cioè il depotenziamento della famiglia in generale e in particolare di un istituto giuridico, come quello dei matrimonio legale, ritenuto dai “liberazionisti” obsoleto e repressivo (e già questo basterebbe per i suoi fautori a renderlo auspicabile). Infatti, per ricomprendere in se stesso l’unione tra omosessuali, il matrimonio legale dovrebbe essere “depubblicizzato”, reso cioè sempre più simile a un mero contratto di diritto privato, che per definizione va affidato nei suoi contenuti concreti alla più piena disponibilità dei contraenti.

Riconoscendo le convivenze omosessuali, il sistema giuridico si troverebbe quindi obiettivamente costretto a fare un primo, ma decisivo passo indietro; il primo dei molti, ulteriori passi indietro che dovrebbero condurre se non all’estinzione del diritto di famiglia, almeno alla sua riduzione ai minimi termini.

E qui comincia a delinearsi l’ulteriore effetto, destinato a manifestarsi in tempi medio-lunghi, dell’auspicato riconoscimento giuridico delle convivenze omosessuali, un effetto dotato di una valenza ancor più significativa di quella appena accennata, perché non si limiterebbe ad alterare radicalmente un capitolo del diritto privato come quello del diritto familiare, ma coinciderebbe sostanzialmente con una lotta politico-sociale dì carattere libertario e antigiuridista.

Il riconoscimento del matrimonìo tra omosessuali sarebbe quindi il primo passo di un processo – i cui tempi ovviamente, per chi se ne fa fautore, non sono oggi puntualmente prevedibili – che dovrebbe comunque condurre ad instaurare un modello di convivenza sociale assolutamente nuovo, radicalmente individualistico, liberato insomma dal peso di quel vincolo estrinseco e soffocante che è il diritto.

3.5. Occasionalmente alleato al movimento liberazionista, ma profondamente diverso nei suoi presupposti ideologici e nella sua dimensione progettuale, è il movimento che (sempre seguendo Sullivan) possiamo denominare liberale e che considera il riconoscimento giuridico delle convivenze omosessuali un autentico e specifico obiettivo, privo di qualsiasi carattere strumentale rispetto a finalità ulteriori.

Si tratta evidentemente di un liberalismo secundum quid, perché sposta la sua attenzione dal piano della teoria e della prassi delle forme di governo (quello proprio del liberalismo classico) al piano del vissuto individuale dei cittadini, per come questo vissuto è destinato ad acquistare rilievo giuridico-istituzionale.

Effettivamente questo movimento non può che essere definito liberale, perché prende veramente sul serio l’ispirazione più profonda del liberalismo (che è nello stesso tempo quella più problematica), quella ispirazione pluralistica, costitutivamente intinta però di un irriducibile individualismo e relativismo etico, che portò nel secolo scorso i liberali (o almeno i più conseguenti tra essi) a un durissimo scontro con la Chiesa (scontro composto solo nei limiti in cui il riferimento di alcuni liberali a un articolato sistema di positivizzazione dei diritti umani, come diritti inviolabili, ha consentito alla fine, e fortunatamente, di individuare fruttuosi piani di intesa e collaborazione tra cattolici e laici).

Diversamente dal modello precedente, quello liberale non si prefigura nessuna palingenesi sociale, né meno che mai si lascia suggestionare da utopie antigiuridiste. Per i liberali, è semplicemente giunto il momento di riconoscere che è definitivamente tramontato l’ideale (o l’illusione) di un’etica (e in particolare di un’etica sessuale) universalmente condivisa e meritevole quindi di essere tutelata istituzionalmente.

Ciò comporta che andrebbe ritenuta parimenti tramontata l’idea (che per i liberali più propriamente va ritenuta un’illusione) che le forme private di vita – ivi comprese quelle sessuali – siano tutte da ricondurre a modelli univoci, univocamente determinabili sul piano del diritto (come è appunto il caso del matrimonio che esige che i contraenti appartengano a sessi diversi).

Esistono – sostengono i liberali – svariate modalità di vivere la sessualità, così come esistono diverse modalità di vivere la fede religiosa o di praticare un impegno politico o di ricercare la propria felicità. Ciò che spetta al diritto – sempre nell’opinione dei liberali – non è privilegiarne alcune, ma riconoscerle tutte, senza operare indebite discriminazioni di alcuna sorta. Regolamentare giuridicamente le convivenze omosessuali non implicherebbe pertanto un dire di no al diritto, ma solo il chiedere al diritto lo sforzo di porsi al servizio del nuovo politeismo etico che si è imposto nel nostro tempo.

Per farlo, il diritto deve saper rinnovare se stesso e le sue forme tradizionali, deve inventare nuove risposte alle nuove e profonde esigenze che emergono nella società civile. Nel breve periodo, ciò può di fatto comportare l’adozione di strategie normative non molto diverse da quelle richieste dai liberazionisti; ma nel lungo periodo, il progetto liberale manifesta una sua spiccata identità: esso vede il diritto non come una realtà repressiva, ma come un sistema di difesa dell’unico diritto umano che per i liberali è davvero fondamentale, quello di ciascun individuo di veder riconosciute, protette e potenziate istituzionalmente le proprie insindacabili scelte personali di vita.

(…) l’intreccio di queste due prospettive non è privo di una sua ragione, sulla quale è utile riflettere, se non altro perché può aiutarci a giungere più rapidamente a percepire quale esattamente sia la questione essenziale da fronteggiare. Le due diverse prospettive non si intrecciano – lo abbiamo già detto – per la loro specifica portata propositiva: è vero che i sostenitori delle due posizioni si battono perché gli omosessuali possano sposarsi legalmente, ma lo fanno in base a progetti politico-sociali significativamente diversi.

Si intrecciano piuttosto perché muovono da un implicito, comune (e tragico) presupposto, nel quale si riassume uno dei tratti tipici della modernità e che ha un carattere fondamentalmente antropologico.

Sia i liberazionisti che i liberali non hanno alcuna fiducia nella possibilità di elaborare un discorso obiettivo sulla persona umana, sulle sue spettanze, sulle sue esigenze autentiche e profonde, sui suoi doveri; la stessa categoria dell’identità personale è ritenuta da essi non tematizzabile; la persona è vista sia dagli uni che dagli altri come fondamentalmente inafferrabile, indicibile, evanescente, quindi come fondamentalmente irrelata, avulsa da ogni logica di comunicazione e riconducibile unicamente alla dinamica costitutivamente instabile dei desideri individuali e soggettivi.

Ne segue che del diritto non è più percepita (e quindi gli viene sottratta) la funzione tipicamente propria, quella appunto di essere uno strumento al servizio della comunicazione interpersonale (e rivolto alla difesa della parte che, nella dinamica comunicativa, si rivela più debole).

Il diritto mantiene una sua (residua) legittimità (e questo peraltro solo per i liberali) unicamente nei limiti in cui lo si riconosca al servizio esclusivo dell’individuo e gli si imponga di omaggiare e di potenziare i suoi (privati e insindacabili) desideri. La battaglia che liberazionisti e liberali combattono contro il significato “tradizionale” (cioè monistico ed eterosessuale) del matrimonio, equivale quindi ad una battaglia contro l’idea che esistano modalità, obiettive, o – se così si preferisce dire – naturali di comunicazione interpersonale, modalità che il diritto sia chiamato a formalizzare, a regolamentare, a garantire.

3.7. Siamo così giunti al punto essenziale della questione, che, per i giuristi, può essere formulata in termini molto semplici: quella tra omosessuali non può avere riconoscimento giuridico perché non è una comunicazione; o meglio, e più propriamente, non è una comunicazione nel senso, nell’unico senso, che può avere rilievo per il diritto (12).

E’ evidentemente fuori discussione, infatti, che esistono mille modi per gli uomini di comunicare tra loro e che possono anche possedere un immenso rilievo esistenziale, ma che non possiedono, né in linea di principio possono possedere alcun rilievo giuridico: l’amicizia è l’esempio più emblematico che si possa fare al riguardo.

L’amicizia non è giuridicizzabile non perché il rapporto che unisce affettivamente due persone amiche non risponda ad una logica comunicativa, ma perché si tratta di una logica comunicativa strettamente privata e di conseguenza insindacabile e non istituzionalizzabile (l’amicizia, in altre parole, non muta natura, se resta nascosta agli occhi di terze persone).

Il matrimonio non istituzionalizza una comunicazione affettiva (che non può che essere privata), ma una scelta, anzi uno stato di vita, che non può non avere rilievo pubblico (e che solo per questo può essere sindacabile da parte di un giudice). Gli status che il matrimonio istituisce, quello di marito e quello di moglie, possono essere attribuiti solo a partire dalla manifestazione di una formale e pubblica volontà in tal senso degli sposi; ma non è propriamente la loro volontà a istituire questi status, bensì il riconoscimento pubblico che questa unione ha un significato umano e sociale che trascende la soggettività stessa degli sposi.

L’intuizione secondo la quale il matrimonio sta a fondamento della famiglia, cioè della cellula fondamentale della società – secondo un modo di dire che per alcuni potrebbe suonare antiquato, ma che in realtà è assolutamente insuperato – si basa sulla percezione (se si vuole implicita) che il matrimonio possiede una propria finalità strutturale, cioè la regolamentazione dell’esercizio della sessualità al fine di garantire l’ordine delle generazioni, e che questa finalità non è un dato condizionato culturalmente, o che sia emerso nel corso della storia solo in una determinata fase dello sviluppo economico dell’umanità, ma è un principio che caratterizza costitutivamente l’essere dell’uomo.

In quanto esseri sessuati, gli uomini, non diversamente dagli animali, procreano; ma in quanto propriamente esseri umani, divengono genitori, mariti e mogli, padri e madri, figli e figlie: acquistano cioè la propria identità, grazie all’assunzione di ruoli familiari, resa possibile da quella straordinaria struttura antropologica che è il matrimonio (13).

Ecco perché, dunque, ogni analogia tra matrimonio e convivenza omosessuale è fallace. In quanto costitutivamente (e non accidentalmente) sterile, il rapporto omosessuale non può rivendicare una autentica pretesa mimetica nei confronti di quello eterosessuale (che può essere sterile di fatto, per volontà delle parti, a causa della loro età o per fattori patologici, ma non è mai sterile nel suo principio).

Questa pretesa è quindi con ogni evidenza oggettivamente infondata, quali che possano essere le ragioni soggettive (che possono anche essere degne di profondo rispetto) che inducono a farla insorgere: ciò è quanto basta al giurista per fargli qualificare la comunicatività di un rapporto omosessuale giuridicamente irrilevante e quindi non formalizzabile.

3.8. Il giurista che si attesti sulle posizioni appena descritte verrà certamente a trovarsi in una situazione particolarmente scomoda. In una società, come quella contemporanea, che si è liberata dai pesanti (e nella maggior parte dei casi infondati) pregiudizi secolari contro l’omosessualità, fino al punto paradossalmente di banalizzarla; in una società che ha marginalizzato l’etica, che ha rimosso l’idea che esistano peccati contro natura e che cerca di elaborare un’interpretazione della sessualità come di una innocente istintualità polimorfica, che si pone quindi prima e oltre ogni distinzione sessuale; in una società che è divenuta ipersensibile e reattiva nei confronti di ogni, sia pur lieve, forma di criminalizzazione sociale, che non abbia una giustificazione esplicitamente economica; sembra che l’unico no nei confronti dell’omosessualità debba essere il giurista a dirlo.

Non c’è quindi da meravigliarsi troppo, se molti giuristi rifiutano di accollarsi questo onere, di cui proprio non riescono a rendersi ragione, per assumere l’atteggiamento prudente e attendista di cui parlavamo all’inizio di queste considerazioni.

Eppure, il compito del giurista oggi è questo. Non perché spetti a lui valutare eticamente, psicologicamente, sociologicamente l’omosessualità; né, meno che mai, perché spetti a lui riflettere su quale possa essere la politica sociale ottimale da adottare nei confronti degli omosessuali (o addirittura se debba esserci una specifica politica sociale al riguardo).

Ciò che spetta al giurista è mostrare che il problema dell’omosessualità non è un problema di diritto, ma di fatto; che esso cioè appartiene ad una di quelle dimensioni di mera fattualità che caratterizzano l’esistenza umana, che il diritto è impotente a gestire e regolamentare, perché hanno un carattere ed una valenza pregiuridica.

Il tentativo di far entrare a forza il diritto anche entro questi ambiti corrisponde all’illusione che una più pervasiva giuridificazione dell’esistenza possa donare agli omosessuali quell’equilibrio interiore della cui mancanza, con ogni evidenza, essi soffrono, e duramente. Un diritto che sappia reagire contro queste illusioni non è un diritto insensibile o crudele; è semplicemente un diritto che sa restare fedele alla verità delle cose, anche e soprattutto quando il solo riconoscerla implica uno sforzo etico e psicologico non indifferente.

Note

(7) Si legga ad es. quanto scrivono F. LEROY-FORGEOT e C. MAcARY, nonché il cunoso esempio che portano a difesa della loro tesi: “La question de l’ouverture du mariage aux unions homosexuelles est politique, c’est-à-dire que la réponse qui sera apportée est choix politique, comme celui qui fit, par exemple, le gouvernement élu en 1981 en décidant d’abolir la peine de mort alors qu’une grande majorité de Frangais y était opposé” (Le couple homosexuel et le droit, Odile Jacob, Paris 2001, p. 85).

8) Questo è formalmente vero, da quando nel 1980 l’American Psychiatric Association nella terza edizione del suo Diagnostic Statistic Manual non ha più inserito l’omosessualità tra le categorie diagnostiche. Che sia sostanzialmente vero che l’omosessualità non debba essere considerata una patologia, è ovviamente un altro problema, tuttora aperto. Restano ad es. ancora da interpretare i dati obiettivamente rilevati da Simon Le Vay, neurobiologo di Harvard, nel 1991, in ordine alle differenze anatomiche tra etero ed omosessuali maschi nell’ipotalamo (cfr. I. WICKELGREN, Discovery of ‘Gay Gene’ Questioned, in “Science”,1999, 284, pp. 571 ss.). Va altresì sottolineato che la cancellazione dell’omosessualità dal novero delle patologie non è stato l’effetto di specifici e innovativi accertamenti scientifici ma della pressione sociale degli omosessuali stessi, quando sono giunti a riconoscersi come gruppo sociale e ad agire efficacemente come movimento (cfr. le giuste osservazioni di T. NATHAN, specificità dell’emopsichiatria, in La sfida dell’altro. Le scienze psichiche in una società multiculturale, a cura di M. GALZIGNA, Venezia 1999, pp. 41-42).

9) L’omosessuale ha il fondamentale diritto di essere riconosciuto come persona umana, dotata della dignità e dei diritti di ogni altro essere umano. Tale riconoscimento esclude tassativamente che l’omosessuale, a motivo della sua condizione sessuale, possa essere considerato, in quanto a dignità e a diritti, in modo non paritario rispetto agli eterosessuali; che inoltre possa essere discriminato nella vita sociale, religiosa, politica, economica, cultu rale… La qualifica di persona, infatti, appartiene all’essere umano nativamente, a prescindere dalla sua caratterizzazione sessuale”: così G. CONCETTI, Diritti degli omosessuali, Casale Monferrato, Piemme, 1997, pp. 27-28.

10) Su tale concetto “univoco” di matrimonio, cfr. V. BELLVER-J.J. SILVESTRE, La heterosexualidad come principio calífzcador del matrimonio, in “Cuadernos de Bioética”, VIII, 1997, n. 32, pp. 1368-1384.

11) Tr. it. col titolo “Praticamente normali. Le ragioni della omosessualità”, Milano, Mondadori, 1996.

12) Qui comunque potrebbe aprirsi la questione se in generale quella omosessuale sia davvero una comunicazione. Non c’è dubbio che nella cultura di questi ultimi decenni si siano moltiplicati gli studi volti a mostrare (per usare le parole di Oraison) che “può esistere un rapporto tra due omosessuali, anche temporaneo, attraverso il quale passa un’autentica amicizia, un’autentica carità” (M. ORAISON, La question homosexuelle, Paris 1975, p. 10). Non lo nego; mi limito a chiedere se questa amicizia, questa carità (della cui autenticità Oraison pretende di essere testimone e di certo nessuno può o vuole negargli tale qualifica) si radichino nell’identità omosessuale dei partners, o – come appare più probabile – nella loro più generale capacità personale di incontro. Se così stessero davvero le cose, resterebbe aperta la questione (che qui è impossibile approfondire) se questa che ho chiamato ‘capacità personale di incontro’ sia fino in fondo compatibile con un rapporto omosessuale e con la sua obiettiva e pur sempre inadeguata (se non disperata) mimesi dell’eterosessualità. Non mi sembra lontana da questa prospettiva Christine Boutin, quando afferma con forza che l’omosessualità non può essere eretta al rango di norma sociale, perché veicolo di esclusione: “Qu’est-ce que l’homosexualité, si non l’impossibilité d’atteindre la personne de l’autre dans sa diffèrence? Qu’est-ce ensuite que cette impossibilité, souvent voulue, sinon la forme la plus Accomplie (parce que volontaire) de l’exclusion? Pourrait-on alors faire d’un comportement exclusif une règle sociale, en intégrant l’homosexualité dans un cadre législatiP Non: cette ,~:perspective est inacceptable pour quiconque est attaché à la dìgnité de la personne humaine” (Ch- BOUTIN, La défense de la famille contre les unions homosexuelles, in ‘Tamilia et Vita”, 4, 1999, n. 1, pp. 99-100).

13) M. MIELI (Elementi di critica omosessuale, Torino, Einaudi, 19772) considera “ipocriti” coloro che erigono la procreazione a dogma e ritengono l’eterosessualità “normale” in forza dell’equazione amore=procreazione (p. 40). “Considerare la sessualità come finalizzata alla riproduzione – egli scrive – significa applicare una categoria interpretativa teleologico-eterosessuale, e quindi riduttiva, al complesso molteplice delle funzioni libidiche dell’esistenza” (ibídem). Ora, non c’è alcun dubbio che la riproduzione (nel senso strettamente, biologico del termine) non abbia bisogno in sé e per sé dell’amore e che, come scrive André GIDE, “non è la fecondazione che l’animale cerca, è semplicemente la voluttà. Cerca la voluttà – e trova la fecondazione per caso fortuito” (Corydon, tr. it., Milano 1952, p. 83 e ss.). Ma non c’è nemmeno alcun dubbio che nessun rapporto sessuale umano sia del tutto paragonabile a un rapporto sessuale animale. “Pensiamo – ipotizza Vittorio Mathìeu – a un atto sessuale in cui non ci sia scambio di parole. In realtà un tale rapporto sarebbe subumano” 1 Nel caso che la coppia non disponga di una lingua comune, si sviluppa, anzi, un insegnamento, che gli inglesi chiamano “pillow teaching”. La funzione che ha la lingua in ogni rapporto amoroso si palesa anche nell’uso popolare del verbo parlare per fare la corte, o addirittura avere un rapporto. Analogo l’antico italiano donneare, ossia parlare di amore con donne” (L’ermeneutica, ponte sulla differenza ontologica, in MATHIEU, L’uomo animale ermeneutico, Torino, Giappichelli, 2000, p. 83). Insomma, se è evidente che la sessualità umana veicola i propri significati anche al di là di intenzionali e/o fattuali finalità procreative (dato che l’uomo è sì un essere naturale, ma non naturale del tutto), resta però fermo che proprio nel suo determinarsi come umana la sessualità non può essere ridotta alle sue strutturazioni libidiche. Abbìamo il dovere di prendere sul serio l’ordine delle generazioni, il fatto cioè che, anche se non siamo e non intendiamo divenire padri o madri, siamo comunque figli o figlie; di prendere sul serio il fatto che è in quest’ordine che la nostra identità sessuale trova la propria misura. E poiché si tratta di una misura antropologica (o, se si vuole etica) e non biologica, ne segue che l’esercizio della sessualità da parte dell’individuo umano è chiamato a seguire una logica del senso e non semplicemente dell’istinto o, per usare l’espressione di Gide, della voluttà.