Hitler, la Santa Sede e gli Ebrei, la parola agli archivi

chiesa_HitlerAgenzia ZENIT lunedì, 7 giugno 2004

La Santa Sede con i Pontefici Pio XI e Pio XII, contrariamente a quanto sostenuto da un certo filone della critica storiografica, fu lungimirante nel capire già nei primi anni venti i pericoli insiti nel nazismo.

ROMA, A circa 60 anni di distanza dall’offensiva alleata che sconfisse il Nazismo, arriva in libreria il volume “Hitler, la Santa Sede e gli Ebrei” (Jaka Book, 556 pp., 29,00 Euro) scritto dallo storico della Pontificia Università Gregoriana, Giovanni Sale, S.J.

Il volume analizza i rapporti tra il Terzo Reich e la Santa Sede, in un arco di tempo che va dal 1933 al 1945, sulla base di un approccio tematico-interpretativo che fa riferimento ad una inedita documentazione d’archivio in particolare quello Segreto Vaticano relativo alle Nunziature di Monaco e Berlino e quello della “Civiltà Cattolica”. Secondo l’inchiesta condotta dal padre gesuita, la Santa Sede con i Pontefici Pio XI e Pio XII, contrariamente a quanto sostenuto da un certo filone della critica storiografica, fu lungimirante nel capire già nei primi anni venti i pericoli insiti nel nazismo.

Per conoscere nei dettagli le scoperte pubblicate nel libro, ZENIT ha intervistato il professor Giovanni Sale. Riportiamo di seguito la prima parte dell’intervista. La seconda verrà pubblicata nel Servizio dell’8 giugno.

La storiografia ha trascurato quanto fatto dal clero cattolico per contrastare la presa di potere di Hitler e del nazionalsocialismo in Germania. Può spiegarci in che modo si comportò la Chiesa cattolica?

Professor G. Sale: Con la recente apertura degli archivi vaticani relativa alle nunziature di Monaco e di Berlino (1922-39) abbiamo ora la possibilità di valutare meglio come quella “fatidica svolta politica” del 30 gennaio 1933 sia stata commentata e giudicata dai vertici della Chiesa cattolica. Una serie di Rapporti, redatti dal Nunzio Apostolico a Berlino, mons. Cesare Orsenigo, ci dà la possibilità di valutare meglio quegli avvenimenti. Il primo vescovo tedesco a prendere provvedimenti contro il nazionalsocialismo fu l’arcivescovo di Magonza, il quale già nel settembre 1930 pubblicò alcune norme che avevano come scopo di impedire che i cattolici venissero contagiati dal morbo nazionalsocialista; non tutti i vescovi tedeschi però le approvarono, considerandole troppo dure nel contenuto e in ogni caso ancora giudicavano il documento episcopale prematuro, essendo il movimento hitleriano ancora in divenire.

Alcuni vescovi inoltre erano del parere che non bisognasse dare troppo credito alle costruzioni teoriche di alcuni intellettuali del movimento hitleriano, come l’ideologo anticristiano Rosenberg, mentre bisognava invece considerare che il partito nazionalsocialista era l’unico che si opponeva con determinazione all’avanzata del bolscevismo in Europa. Con il passare del tempo però alla linea di condotta dell’ordinariato di Magonza si associò, un poco alla volta, tutto l’episcopato tedesco, “sospintovi – scriveva il Nunzio Orsenigo – dal persistente atteggiamento irreligioso di alcuni capi del nazionalsocialismo”. Nella Conferenza episcopale dei vescovi prussiani riuniti a Fulda dal 17 al 19 agosto 1932 si decise, “avuto presente il pericolo che il movimento nazionalsocialista poteva costituire per le anime”, di emanare disposizioni che vietassero ai cattolici di appartenere al partito hitleriano. Il documento fu approvato all’unanimità.

Fu in occasione della campagna elettorale per le elezioni politiche del 5 marzo 1933, che l’opposizione tra nazionalsocialismo e mondo cattolico venne per la prima volta in piena luce. In un dispaccio del 16 febbraio 1933 inviato alla Segreteria di Stato, mons. Orsenigo trattava della gravità della situazione e della durezza dello scontro politico in corso tra i partiti, nonché dell’orientamento dei cattolici in ambito politico e della strumentalizzazione della religione a fini di partito: “La lotta elettorale in Germania – scriveva il Nunzio – è ormai entrata nel suo stadio acuto […]

Purtroppo anche la religione cattolica viene spesso adoperata ora dagli uni, ora dagli altri a scopo elettorale. Il Centro ha naturalmente con sé la quasi totalità del Clero e dei cattolici e, pur di avere la vittoria del momento, agisce senza preoccuparsi punto delle penose conseguenze, che potrebbero verificarsi per il cattolicesimo, in caso di piena vittoria avversaria”. Di fatto, durante la campagna elettorale, l’elemento religioso fu molto sfruttato per motivi di propaganda politica sia dai partiti governativi sia da quello del Zentrum.

Questo, considerato da molti come un “partito confessionale”, faceva appello ai valori cristiani per condannare e combattere i princìpi del nazionalsocialismo, quest’ultimo invece faceva appello alla lotta contro il comunismo per mobilitare le forze cattoliche contro il nemico comune. E sappiamo che anche molti uomini di chiesa non erano per nulla insensibili a tale richiamo. In generale il contegno tenuto dalla gerarchia cattolica tedesca durante tutto il tempo della campagna elettorale fu improntato a grande prudenza e senso di responsabilità, essa in generale fece di tutto per non alimentare, con dichiarazioni partigiane o improvvisate, il conflitto esistente tra nazionalsocialismo e Zentrum.

Altrettanto fece la Santa Sede. Dalla documentazione che abbiamo consultato risulta infatti che né la Santa Sede né il Nunzio a Berlino intervennero in nessun modo per influenzare i vescovi o i capi del partito del Centro in una determinata direzione. La Segreteria di Stato in quei mesi si limitò soltanto a prendere visione di ciò che stata avvenendo in Germania, e cercò in tutti i modi di tenersi fuori dalle complicate questioni politiche tedesche; ciò non significa però che non guardasse con apprensione a quanto in quei mesi stava accadendo in quella nazione così importante per i destini dell’Europa.

Pur condividendo il punto di vista dei vescovi tedeschi sulla condanna dell’ideologia nazionalsocialista e pur nutrendo vive preoccupazioni per il destino della Chiesa cattolica in quel Paese, in Vaticano si era pure consapevoli del pericolo di un’eventuale “bolscevizzazione” della Germania, che avrebbe trascinato tutta l’Europa continentale nel caos, consegnandola inerme al comunismo.

Questo spiega perché in Vaticano in quel periodo non si giudicasse con eccessivo rigore l’ascesa di Hitler al potere, tanto meno il suo progetto politico di creare in Germania un Governo forte, autoritario, sul modello di quello mussolinano. Il punto più dibattuto in sede storica riguarda però l’appoggio determinante dato dal Zentrum al consolidamento della dittatura hitleriana, attraverso la votazione della legge sui pieni poteri del 23 marzo 1933. Va ricordato che il passaggio dei pieni poteri legislativi dal Reichstag al Cancelliere era un procedimento, sebbene eccezionale, previsto dalla Costituzione, e quindi legittimo.

La responsabilità del Zentrum in ordine al consolidamento del potere del nazionalsocialismo va a nostro avviso limitata al solo fatto che attraverso il suo voto fu reso possibile l’ampliamento dei poteri del Cancelliere; ciò non significava però ancora l’assunzione del potere assoluto (che restava in mano all’esercito e al presidente della Repubblica) da parte di Hitler, di cui invece fu successivamente investito, con un semplice decreto da lui stesso sottoscritto, dopo la morte del presidente Hindenburg.

Per cui, caricare sul Zentrum la responsabilità dell’avvento della dittatura hitleriana, come spesso viene fatto da certa pubblicistica, ci sembra oltre che ingiusto anche errato sul piano della verità storica. Furono le forze reazionarie e conservatrici dello Stato a permettere che il nazionalsocialismo andasse al potere in Germania e furono sempre queste a permettere che Hitler – sebbene ne conoscessero le idee e il progetto politico – fosse investito dei pieni poteri, illudendosi di poterlo dominare e strumentalizzare a proprio vantaggio; non va neppure dimenticato, inoltre, che furono poi gli elettori nelle elezioni del 5 marzo 1933 a confermare tale scelta, concedendo al partito hitleriano un’alta percentuale di suffragi.

Se il partito di Centro il 23 marzo si fosse rifiutato di votare i pieni poteri i nazionalsocialisti – che allo scopo di intimorire i deputati avevano fatto circondare l’edificio dove si teneva la seduta dalle SA – avrebbero utilizzato la forza per ottenere questo risultato, facendo anche scorrere del sangue innocente.

A nostro avviso, i deputati del Centro che votarono nel marzo 1933 la legge delega agirono in buona fede, pensando in questo modo di rendere un buon servizio alla Patria, di preservare la pace sociale e politica e salvare la Costituzione, e non ebbero certo davanti agli occhi tutti gli effetti negativi, molti dei quali a quel tempo erano imprevedibili, che sarebbero poi seguiti a quell’assunzione di poteri.

L’ideologia nazionalsocialista risultò pagana e decisamente anticristina. Ma lo scontro più duro tra nazisti e Chiesa cattolica avvenne in occasione della legge sulla sterilizzazione obbligatoria del 1933. Fu con questa legge che i nazisti cominciarono ad applicare in maniera criminale la selezione della razza. Può illustrarci in che modo reagì la Chiesa cattolica?

Professor G. Sale: In realtà i dissapori tra Santa Sede e Nazionalsocialismo iniziarono già all’indomani della stipulazione del Concordato del luglio 1933, quando Hitler iniziò senza troppi complimenti a violarne non soltanto lo spirito ma anche la lettera, limitando a suo piacimento i diritti della Chiesa in materia di associazione, formazione ecc. La Santa Sede però già nell’aprile 1933 aveva fatto sapere a Hitler, sia attraverso i canali della diplomazia pontificia sia attraverso la mediazione di Mussolini, di disapprovare la legislazione antisemita adottata dal nuovo Governo, poiché in violazione del diritto naturale e fece di tutto per attenuarne il rigore.

Va anche detto, ad ogni modo, che fu la legge sulla sterilizzazione obbligatoria che entrò in vigore all’inizio del 1934 a rappresentare il primo terreno di scontro tra le autorità vaticane e quelle del nuovo Reich germanico, ormai risoluto a dare attuazione alle sue teorie eugenetiche in materia di selezione razziale: teorie che Pio XI aveva apertamente condannato nell’enciclica Casti Connubii del 1931. Su richiesta della Santa Sede l’episcopato tedesco fece di tutto (anche attraverso lettere pastorali, contatti personali con dirigenti del regime ecc.) per ottenere la modifica della legge sulla sterilizzazione. Tale mobilitazione del mondo cattolico tedesco portò infatti alla modifica del regolamento di applicazione della legge, che fu pubblicato il 5 dicembre 1933.

Esso conteneva due clausole importanti, fatte inserire nel testo definitivo dai rappresentanti dei vescovi dopo faticosi incontri con le autorità governative e contro le resistenze dell’ala radicale del partito nazionalsocialista: la prima permetteva alle persone affette da malattie ereditarie che non volevano essere sterilizzate di ricoverarsi presso una clinica o casa di salute; la seconda garantiva al personale sanitario che per motivi di coscienza non voleva eseguire o assistere a operazioni di sterilizzazione, di esserne esentati.

Maggiore fortuna ebbe nel 1941 la coraggiosa denuncia fatta da alcuni vescovi tedeschi contro il programma (segreto) di eutanasia dei soggetti portatori di malattie ereditarie, in particolare i malati di mente – quegli stessi cioè su cui era stata praticata la sterilizzazione in base alla legge del 1933 – il cui mantenimento era considerato troppo oneroso per lo Stato. Fu il vescovo di Münster, Clemens August Graf von Galen, in un’omelia del 3 agosto 1941, che raccontò nei particolari come venivano uccisi i malati che venivano portati in alcune case, appositamente predisposte a questo scopo, e come ai familiari venissero comunicate notizie false sul decesso dei loro cari.

Il vescovo condannò con forza questi fatti, definendoli veri e propri delitti, e chiedendo che venissero puniti coloro che ne erano i responsabili. Il mancato rispetto per la vita umana – continuò – avrebbe portato alla fine alla eliminazione fisica di tutte le persone ritenute inabili al lavoro, come i malati gravi, i vecchi, i soldati feriti che ritornavano dal fronte. Guai al popolo tedesco, ammoniva von Galen, se permette l’uccisione di innocenti, lasciando impuniti coloro che perpetrano tali delitti. L’omelia fece un’impressione profonda tra la popolazione civile e anche tra i soldati tedeschi che combattevano al fronte. I capi nazisti, presi in contropiede dalla denuncia del vescovo, reagirono con violenza: alcuni chiesero addirittura l’impiccagione di von Galen, accusato del reato di alto tradimento.

Hitler, però, sebbene a malincuore, decise – per non creare malumore tra la popolazione civile di quella importante regione, nonché tra i numerosi soldati cattolici – di rimandare la resa dei conti con la Chiesa a quando fosse finita la guerra. In ogni caso, un ordine del Führer dello stesso 3 agosto 1941 bloccò ufficialmente l’esecuzione del programma di eutanasia. Negli anni successivi, nonostante l’ordine di Hitler, essa continuò ad essere praticata in alcune situazioni particolari; ma il programma ufficiale su larga scala non fu più ripreso.

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Hitler, la Santa Sede e gli Ebrei, la parola agli archivi (Parte II)

ROMA, martedì, 8 giugno 2004 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito la seconda parte dell’intervista al prof. Giovanni Sale, S.J., in merito al volume da lui scritto dal titolo “Hitler, la Santa Sede e gli Ebrei” (Jaca Book, 556 pagine, 29,00 Euro). La prima parte dell’intervista è stata pubblicata nel Servizio Quotidiano di ZENIT del 7 giugno 2004.

La Mit Brennender Sorge e la mancata visita in Vaticano di Hitler nel 1938, dimostrano quanto la Santa Sede fosse ostile al regime nazista. Un suo commento sulla condotta di Pio XI nei confronti del regime nazista.

Professor G. Sale: La recente apertura degli archivi vaticani relativi alle nunziature di Monaco e Berlino (1922-39) getta nuova luce sia sulle vicende relative alla mancata visita di Hitler in Vaticano (nella visita di Stato che fece a Roma nel 1938), sia su quelle che accompagnarono la formazione e la divulgazione in Germania dell’enciclica Mit brennender Sorge (1937), cioè dell’enciclica di Pio XI contro il nazismo.

Su quest’ultima in particolare la nuova documentazione vaticana ci informa in maniera sorprendentemente puntuale, sulle vicende relative alla sua ricezione da parte degli Stati e degli ambienti della diplomazia internazionale. Dalle fonti risulta che l’enciclica fu letta a quel tempo, nella maggior parte dei Paesi occidentali non legati alla Germania, come un coraggioso atto di denuncia del nazismo e delle dottrine razziste e statolatriche da esso professate, nonché dei suoi metodi violenti di disciplinamento sociale.

La Mit brennender Sorge fu una delle prime encicliche papali che ebbe una risonanza realmente mondiale, anche se per motivi soprattutto politici; essa fu uno dei primi atti pontifici che superò le frontiere del mondo cattolico: fu letta da credenti e non credenti, da cattolici e protestanti, anzi per la prima volta questi ultimi tributarono a un documento papale riconoscimenti pubblici che erano impensabili fino a poco tempo prima.

Secondo un prestigioso giornale protestante olandese, l’enciclica “varrebbe” anche per i riformati, “perché in essa il Papa non si limita a difendere i diritti dei cattolici, ma quelli della libertà religiosa in generale”. Certamente la Mit brennender Sorge fu recepita diversamente secondo la sensibilità e la cultura politica dei tanti che la lessero. Sta di fatto però, come abbiamo rilevato, che essa fu generalmente interpretata non soltanto come un atto di protesta della Santa Sede per le continue violazioni del Concordato da parte del Governo tedesco, o come una sconfessione dottrinale degli errori del nazionalsocialismo, ma soprattutto come un atto di denuncia del nazismo stesso e del suo Führer, e questo i gerarchi del Reich lo capirono immediatamente.

È vero, come è stato più volte sottolineato dai commentatori dell’enciclica, che essa non menziona mai né il nazionalsocialismo né Hitler, ma, andando oltre la superficie “letterale” del documento, è facile cogliervi dietro ogni periodo, dietro ogni pagina un autentico atto di accusa contro il sistema hitleriano e contro le sue teorie razziste e neopagane. Ciò certamente sfuggì alla gran parte dei lettori del documento papale; esso rimane perciò una della maggiori e più coraggiose testimonianze di denuncia della barbarie nazista, pronunciata autorevolmente dal Vescovo di Roma quando ancora la gran parte del mondo politico europeo guardava a Hitler con un misto di ammirazione, sorpresa e paura. Pio XII e l’olocausto.

Cosa emerge dalle ricerche storiche da lei condotte? Che cosa ha fatto Papa Pacelli per difendere e salvare gli ebrei dalla persecuzione?

Professor G. Sale: Riguardo agli ebrei deportati nei territori occupati dal Reich, l’azione svolta in loro favore dalla diplomazia della Santa Sede si mosse soprattutto in direzione dei Governi dei Paesi alleati della Germania, dove esisteva una maggioranza cattolica e un episcopato “combattivo”. In una nota della Segreteria di Stato del 1° aprile 1943 si legge: “Per evitare la deportazione in massa degli ebrei, che si verifica attualmente in molti Paesi d’Europa, la Santa Sede ha interessato il Nunzio d’Italia, l’Incaricato di affari in Slovacchia, e l’Incaricato della Santa Sede in Croazia”.

Pio XII, utilizzando i canali diplomatici vaticani, fece di tutto per ottenere da quei Governi (a volte amici) qualcosa – spesso purtroppo molto poco – in favore degli ebrei. È noto, inoltre, che egli esortava l’episcopato locale, in particolare quello tedesco, a denunciare con forza gli orrori commessi dai nazisti contro cattolici ed ebrei. Mentre non desiderava che gli interessi politici avessero il sopravvento su quelli religiosi e umanitari. Va anche ricordato che la maggior parte degli interventi pontifici avevano come obiettivo principale quello di difendere gli ebrei cattolici e garantire l’indissolubilità dei matrimoni misti, facendo riferimento ai Concordati stipulati con questi Stati.

In verità la Santa Sede non poteva chiedere o fare di più attraverso i canali diplomatici ufficiali. La Germania, dopo l’occupazione della Polonia, aveva replicato alla Santa Sede, che chiedeva l’applicazione del Concordato tedesco ai territori polacchi “inglobati” nel Reich, che esso non poteva essere applicato fuori della Germania. La verità era che neppure in territorio tedesco esso veniva rispettato. Gli archivi del Ministero degli Esteri del Reich attestano periodici interventi del nunzio C. Orsenigo riguardanti gli ebrei. Ma i dispacci da lui inviati alla Segreteria di Stato segnalano tutta la difficoltà dell’impresa.

Uno, del 19 ottobre 1942, dice: “Nonostante le previsioni, ho tentato di parlare al ministro degli Affari Esteri, ma come sempre, specie quando si tratta di non ariani, mi fu risposto ‘non c’è nulla da fare'”. Ogni incartamento riguardante gli ebrei, egli continua, “viene sistematicamente o respinto o deviato”. Nelle parole dei diplomatici vaticani si coglie spesso un senso di impotenza e di sconforto a questo riguardo.

L’attività diplomatica svolta dalla Santa Sede in favore degli ebrei non fu però, come a volte si dice, totalmente inutile o inefficace. A volte essa riuscì a “rallentare” le operazioni di deportazione o, quando non poté fare diversamente, a escludere da essa alcune categorie di soggetti. Una parte della storiografia recente, soprattutto quella statunitense, disconosce tale attività svolta dalla Santa Sede in favore degli ebrei.

Essa denuncia i “silenzi” di Pio XII, giudicandoli “colpevoli”. Secondo essi il Papa aveva il dovere di denunciare ciò che stava accadendo in Europa, a costo di mettere a repentaglio la propria vita. La verità è che questo avrebbe esposto alla rappresaglia nazista non solo la vita del Papa (che in diverse occasioni egli disse di essere pronto a donare), ma quella di tutti i vescovi, preti e religiosi/e che vivevano nei territori occupati, nonché la sicurezza di milioni di cattolici.

Circa la cosiddetta “soluzione finale” dalle fonti da me consultate, alcune delle quali conservate presso il nostro archivio di Civiltà Cattolica, risulta che il Papa sapeva “non molto”: in base però a notizie un po’ fumose e a volte perfino contraddittorie egli sapeva che moltissimi ebrei, senza colpa alcuna e soltanto a motivo della loro stirpe, venivano trucidati dai nazisti in vario modo, come, del resto, poco tempo prima, era avvenuto nei confronti di molti cattolici polacchi e soltanto a motivo della loro nazionalità. Ma egli non sapeva nulla della “soluzione finale”; fino al 1944 in Vaticano si ignorava perfino dell’esistenza di Auschwitz.

La stessa propaganda alleata, che pure si soffermava diffusamente a descrivere le atrocità tedesche, le rappresaglie selvagge e altro, non diceva nulla sui campi di sterminio. Le prime notizie certe si ebbero soltanto con il famoso Protocollo di Auschwitz, nel quale due giovani ebrei, fuggiti dal campo di concentramento di Auschwitz nella primavera del 1944, denunciarono al mondo lo sterminio dei loro correligionali nelle camere a gas. Il testo, conosciuto in parte già nel giugno dello stesso anno, fu integralmente pubblicato soltanto nel mese di novembre.

Che cosa sapevano, invece, gli Alleati sulla soluzione finale? Certamente più del Papa. Secondo lo storico Richard Breitman sia Roosevelt sia Churchill sapevano molte cose intorno allo sterminio sistematico degli ebrei, anche perché i loro servizi segreti decifravano le comunicazioni in codice delle SS. Una tempestiva denuncia dei crimini da parte degli Alleati, secondo Breitman, avrebbe costituito un serio ostacolo all’attuazione della “soluzione finale”, ma ciò non venne fatto (cfr. “Il silenzio degli alleati: La responsabilità morale di inglesi e americani nell’Olocausto ebraico”, Mondadori, 1999).

Nel suo libro lei dedica due capitoli al radiomessaggio di Pio XII nel 1942. Ci spiega perchè questo radiomessaggio fu così importante?

Professor G. Sale: Il radiomessaggio natalizio di Pio XII del 1942, che tratta della pacificazione tra gli Stati, indicando anche criteri per la rifondazione di un nuovo ordine interno delle nazioni basato sulla legge morale e naturale, è tra gli atti più significativi e allo stesso tempo più controversi del pontificato pacelliano. Esso, al tempo in cui fu pronunciato, ebbe un’eco enorme in tutti i continenti e fu ascoltato e apprezzato anche al di fuori del mondo cattolico. Giornali e periodici di diverso orientamento culturale e politico ne riportarono ampi stralci e commenti, il più delle volte benevoli.

Diversa fu invece l’accoglienza che riservarono al messaggio papale i Governi e il mondo della diplomazia: esso fu accolto con aperta ostilità dalle potenze dell’Asse, in particolare dalla Germania, e con ostentata freddezza da quelle Alleate, in particolare dagli inglesi. In esso il papa non soltanto ripudiava il nuovo “ordine europeo” che il nazionalsocialismo intendeva realizzare, ma condannava esplicitamente le atrocità della guerra, sia i bombardamenti a tappeto effettuati dagli Alleati sulle città tedesche, sia le atrocità compiute dai tedeschi su civili innocenti, in particolare il papa denunciava lo sterminio degli ebrei europei: “Questo voto di pace – diceva il papa – l’umanità lo deve alle centinaia di migliaia di persone le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragioni di nazionalità o di stirpe sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento”.

Se tale passaggio del radiomessaggio fu quasi ignorato dalla stampa internazionale, non lo fu certamente dalla occhiuta censura nazionalsocialista. Il ministro degli Esteri del Reich Joachim von Ribbentrop incaricò immediatamente l’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede perché informasse il papa sul pensiero del Governo tedesco in tale materia: “Da alcuni sintomi parrebbe – dice il comunicato – che il Vaticano sia disposto ad abbandonare il suo normale atteggiamento di neutralità e a prendere posizioni contro la Germania. Sta a voi informarlo che in tal caso la Germania non è priva di mezzi di rappresaglia”.

Parole concise ma chiare. Ma quale era il pensiero del Papa sul contenuto del suo messaggio natalizio di quell’anno? Era egli convinto di aver parlato, denunciato al mondo gli orrori della guerra, la deportazione e il massacro di popolazioni innocenti, quali erano gli ebrei e i polacchi, come gli veniva chiesto da diverse parti? Dalle relazioni degli ambasciatori dei Paesi alleati sembra proprio di sì: il Papa era pienamente convinto di aver fatto fino in fondo il suo dovere davanti a Dio e davanti al tribunale della storia. In una lettera del 30 aprile indirizzata all’arcivescovo di Berlino, K. von Preysing, scrive con tono sereno di aver “detto una parola di ciò che si fa attualmente contro i non-ariani nei territori sottomessi all’autorità tedesca.Fu un breve cenno ma fu ben compreso”.

Anche con il direttore di Civiltà Cattolica Pio XII fa riferimento al messaggio natalizio, che evidentemente aveva alleggerito il suo cuore e la sua coscienza di Pastore: “Il Santo Padre – riferisce il p. Martegani – si è trattenuto dapprima sul recente messaggio natalizio, che sembra esser stato bene accolto un po’ dovunque, sebbene certamente fosse piuttosto forte”. Il Papa insomma era “soggettivamente” convinto di aver denunciato al mondo ciò che stava accadendo ai “non ariani” nei territori sottoposti all’autorità tedesca, di aver parlato “forte” contro gli orrori della guerra e in particolare contro i crimini compiuti dai nazisti.

Alcuni storici ritengono però che tale denuncia sia stata insufficiente, dettata più da ragioni di prudenza politico-diplomatica che di sentita umanità. In ogni caso essa risultava, sempre secondo questi interpreti, “oggettivamente” inadeguata alla grande tragedia che si stava consumando nel cuore dell’Europa. L’atteggiamento di “riserbo” che la Santa Sede aveva scelto di tenere nel corso della guerra verso i belligeranti si rivelò soprattutto in quel frangente, commentano questi storici, inadeguato, insufficiente a rispondere alle gravi esigente del momento.

Dal Papa, suprema istanza morale e spirituale dell’Occidente cristiano, il mondo civile, secondo loro, in quel momento si aspettavano non tanto parole “prudenti”, “equilibrate”, forse anche giuste, quanto invece “parole di fuoco” nel denunciare la violazione dei diritti umani, e questo anche a rischio di mettere a repentaglio la vita di innumerevoli cattolici, sia chierici sia laici, che vivevano nei territori del Reich.

In tale modo il Papa avrebbe compiuto la sua alta missione profetica. Secondo noi tale giudizio storico sull’operato di Pio XII ci sembra eccessivamente semplicistico sul piano storico-fattuale e ingiusto sotto il profilo soggettivo. Esso non tiene conto delle reali difficoltà del momento storico in cui si sviluppò l’azione del Pontefice, e allo stesso tempo prescinde del tutto dall’indole, dalla sensibilità e dalla cultura di Papa Pacelli.

Alcuni storici spesso parlano del Papa e del papato in modo astratto, ideologico, senza considerare il fatto che il “ministero petrino” si concretizza a livello storico nella persona di singoli individui, con i loro pregi e con i loro limiti umani, e che la Chiesa nella sua azione concreta, come tutte le grandi istituzioni che hanno una lunga tradizione, guarda anche al passato e insieme al futuro, oltre che alle necessità e alle urgenze del presente. Abbiamo già detto e anche cercato di provare, che Pio XII era “soggettivamente” convinto di avere parlato “forte”.

Egli pensava che la modalità, mediante la quale egli aveva espresso la sua denuncia, fosse la più adeguata, la più giusta in quel momento particolare per esprimerla. Egli era convinto di aver detto “tutto” e “chiaramente” e di averlo fatto in modo tale da non esporre alle rappresaglie naziste i fedeli cattolici che vivevano nei territori del Reich e gli ebrei. Per lui questo era un punto di estrema importanza – come disse chiaramente sia durante la guerra sia subito dopo – al quale avrebbe sacrificato ogni altra cosa.

Insomma si può discutere all’infinito se la denuncia del Papa sia stata adeguata o meno alla gravità del momento, e su questo si possono avere legittimamente in sede storica posizioni differenti, ma non si può dire, come si fa da parte di alcuni “pamflettisti”, che il Papa abbia scientemente “taciuto” ciò che stava accadendo agli ebrei, o perché filonazista o semplicemente per insensibilità verso di loro a motivo del suo antigiudaismo o antisemitismo.