Energia e ambiente dopo Kyoto

energiaAspenia (rivista di Aspen Institute Italia) n.32-2006

Corrado Clini

(direttore generale per la Ricerca ambiente e Sviluppo del ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio )

Il rapporto dell’Agenzia europea dell’Ambiente, del novembre 2005, mette in evidenza che – sulla base delle proiezioni al 2012 – solo la Gran Bretagna, la Svezia e il Lussemburgo, tra i 15 Stati membri dell’Unione Europea, potranno rispettare l’impegno della riduzione delle (emissioni di anidride carbonica (C02) assunto nell’ambito del protocollo di Kyoto.

 L’impegno di riduzione delle emissioni entro il 2008-2012, rispetto ai livelli del 1990 – anno base di riferimento – è stato definito dall’UE con il cosiddetto burden sharing, approvato nel 1998, che stabilisce la ripartizione della riduzione delle emissioni tra gli Stati membri. Le emissioni di C02 sono generate prevalentemente dall’uso dei combustibili fossili, e dipendono dal loro diverso contenuto di carbonio (minore nel gas naturale, maggiore nell’olio combustibile e nel carbone). (Questo spiega perché solo tre paesi sono in linea con l’obiettivo Kyoto:

  • la Gran Bretagna ha sostituito il carbone con il gas naturale dopo il 1990, e ha potuto così “contabilizzare” la riduzione delle emissioni ottenute con la modifica del combustibile primario secondo le regole del protocollo di Kyoto, diversamente dall’Italia che aveva realizzato gran parte del programma di penetrazione del gas naturale nel sistema energetico prima del 1990. Nello stesso tempo la Gran Bretagna ha mantenuto nel portafoglio energetico una quota significativa di nucleare, che non ha emissioni;
  • la Svezia, nonostante l’impegno assunto nel 1998, ha continuato a usare il nucleare per coprire circa il 50% del proprio fabbisogno energetico;
  • il Lussemburgo ha chiuso, dopo il 1990, le centrali termoelettriche a carbone e le acciaierie, e di conseguenza ha eliminato i fattori di emissione.
Se la Gran Bretagna e la Svezia avessero abbandonato l’energia nucleare, sarebbero molto lontane dall’obiettivo di Kyoto. E anche Francia e Germania – che già hanno difficoltà a rispettare gli impegni di riduzione delle emissioni – sarebbero molto più distanti dall’obiettivo di Kyoto se non usassero l’energia nucleare per coprire rispettivamente il 75% e il 25% del proprio fabbisogno energetico.

Diversamente dai primi 15 Stati membri, i nuovi 10 Stati membri – a eccezione della Slovenia – non dovrebbero avere difficoltà a rispettare l’obiettivo di Kyoto; ma non bisogna dimenticare che questi paesi, dopo il 1990, hanno conosciuto una grave crisi economica e industriale con la chiusura di centrali termoelettriche e impianti.

In generale, si può dire che gli impegni assunti dall’Unione Europea per la riduzione delle emissioni non sono stati sostenuti da conseguenti politiche europee in campo energetico, industriale e nei trasporti. Infatti, nel bilancio delle emissioni dell’Europa a 25, l’Unione Europea potrà rispettare gli obiettivi del protocollo di Kyoto in larga misura per i “crediti” generati dalla crisi economica post 1990 dei paesi dell’Europa centro-orientale, e per il ruolo rilevante del nucleare nel portafoglio energetico europeo.

La performance dell’Unione Europea potrebbe essere diversa se venissero adottate misure effettive per l’aumento dell’efficienza energetica, lo sviluppo delle fonti rinnovabili, la trasformazione del sistema dei trasporti, in parte previste da direttive europee. Tuttavia, per l’attuazione di queste misure non sono sufficienti direttive europee “quadro”, che stabiliscono obiettivi e obblighi ma rischiano di non essere efficaci in assenza di una politica energetica comune, di regole comuni per la fiscalità energetica, di finanziamenti finalizzati allo sviluppo di tecnologie innovative.

Senza queste condizioni, è difficile che gli Stati membri possano programmare e gestire politiche energetiche nazionali coerenti con gli obiettivi di riduzione delle emissioni, considerando sia che gli Stati membri devono assicurare prioritariamente la sicurezza degli approvvigionamenti energetici e la competitività delle economie nazionali, sia la già elevata performance dell’economia europea in termini di intensità energetica rispetto al prodotto interno lordo. Infatti, il miglioramento ulteriore dell’efficienza energetica comporta costi marginali molto elevati, che non possono essere sostenuti in assenza di un quadro di incentivi condiviso a livello europeo.

In altre parole, si sta verificando una “dissociazione” tra gli impegni assunti come Unione Europea nell’ambito del protocollo di Kyoto e le politiche nazionali in campo energetico, industriale e dei trasporti. E la crescente dipendenza energetica dell’Unione Europea, messa bene in evidenza dalle recenti incertezze sulla fornitura di gas naturale, rischia di rendere ancora più problematica la prospettiva del rispetto degli obiettivi di Kyoto.

Eppure, nonostante l’evidenza dei dati, la Commissione europea continua a prospettare impegni ulteriori di riduzione delle emissioni per le imprese e per le economie del vecchio continente, senza considerare prioritaria la convergenza delle politiche ambientali con le politiche energetiche, e senza prospettare un forte impegno – in termini di finanziamenti e incentivi – per modificare il sistema energetico europeo.

Potrebbe per esempio essere adottata una decisione comune per la riduzione della fiscalità negli investimenti per l’efficienza energetica e le fonti rinnovabili. Forse questa è la strada per convincere le imprese energetiche europee, che hanno ricavato vantaggi enormi dall’aumento del prezzo del petrolio, a investire in innovazione. Ma questi stessi investimenti potrebbero essere “scorporati” dal Patto di Stabilità e Crescita

(dal testo sono state omesse le tabelle e i grafici n.d.r.)