Cristianesimo e Islam ieri e oggi

islam_cristianesimoLa Società (rivista scientifica fondazione “Giuseppe Toniolo” di Verona) n.1 2006

 Mons. Walter Brandmùller,

Presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche

 Discorso pronunciato il 13 dicembre da monsignor Walter Brandmüller, Presidente deli Pontificio Comitato di Scienze Storiche, alla Conferenza svoltasi a Roma, presso la Pontificia Università Lateranense, sul tema “Cristianesimo e Islam, ieri e oggi”.

Affronterò il tema “cristianesimo e islam” limitandomi da storico a una breve presentazione dei fatti storici, non entrando nello specifico del dialogo religioso-teologico. Ciò mi sembra utile poiché il quinto centenario della nascita di Pio V è stato celebrato un po’ in sordina, soprattutto nell’ambito della cultura accademica.

Il vincitore di Lepanto, il Papa che aveva avuto il coraggio e l’energia di costruire un’alleanza di quasi tutti i regni cristiani contro l’impero ottomano che con la sua avanzata stava minacciando l’Europa e che, nei Balcani, già aveva installato il suo dominio – oggi, proprio a causa della ripresa infelice delle ostilità fra i due mondi – cioè da una parte il mondo che è stato cristiano, e che ancora in parte lo è, e dall’altra il mondo islamico – a molti sembra una presenza ingombrante, che è meglio lasciare in ombra.

Una cosiddetta laicità che vorrebbe mettere sotto accusa tutte le religioni monoteiste tacciandole di fondamentalismo, oppure che esalta il dialogo cancellando le diversità, vuole dimenticare il millenario conflitto che ha contrapposto le due comunità religiose, e soprattutto il pontefice romano che ha voluto e saputo bloccare l’avanzata islamica, salvando così la civiltà cristiana.

Anche se si tratta di due religioni monoteiste, che tra l’altro condividono, sia pure in misura diversa, la tradizione ebraica – uno specialista come Samir Khalil Samir sottolinea come prima di Maometto anche gli ebrei e i cristiani arabi chiamassero il loro Dio con il nome di Allah – tra cristianesimo e islamismo le differenze sono molte, e sono fondamentali. Innanzi tutto, vi era differenza nel modo di concepire la conversione e nell’uso della violenza.

Per i cristiani la conversione doveva essere volontaria e individuale, ottenuta principalmente attraverso la predicazione e l’esempio, e in questo modo infatti si realizzò nei primi secoli la diffusione del cristianesimo. Ovviamente, va sin d’ora riconosciuto che questa concezione del cristianesimo primitivo, ha subito in epoca posteriore, un cambiamento, da col- i legarsi con il diffondersi, anche nella cultura occidentale, di uno spirito i d’intolleranza in materia di religione.

Lo stesso Giovanni Paolo II nella T.M.A. ha riconosciuto, che, sotto questo profilo, i figli della Chiesa “non possono non tornare con animo aperto al pentimento all’acquiescenza manifestata tra Medio Evo e prima età moderna, a metodi di intolleranza.” (T.M.A.,n.35).Da parte musulmana, invece, sin dai primissimi tempi, e cioè durante la vita di Maometto, la conversione è stata imposta con le armi.

L’espansione e l’estensioni’ dell’arra di influenza dell’Islam sono infatti avvenute attraverso le guerre con le tribù che non accettavano pacificamente la conversione, e questa andava di pari passo con la sottomissione all’autorità politica islamica. L’islamismo, a differenza del cristianesimo, esprime un progetto globale, al tempo stesso religioso, culturale, sociale e politico.

Mentre infatti il cristianesimo si è diffuso nei primi tre secoli, nonostante (e persecuzioni e il martirio, in contrapposizione per molti aspetti al dominio romano – e comunque introducendo una netta separazione della sfera spirituale da quella politica – l’Islam si è imposto con la forza di una dominazione politica.

Non stupisce quindi che l’uso della violenza occupi un posto centrale nella tradizione islamica, come rivela il ricorso frequente del termine jihad in moltissimi testi. Anche se alcuni studiosi, soprattutto occidentali, sostengono che con jihad si deve intendere non necessariamente la guerra, ma piuttosto la lotta spirituale, lo sforzo interiore, ancora Samir Khalil Samir ha chiarito che l’uso di questo termine nella tradizione islamica – compreso quello che ne viene folto oggi – è sostanzialmente univoco, e indica la guerra in nome di Dio per difendere l’Islam, che è un obbligo per i musulmani maschi adulti.

Chi sostiene dunque che l’accezione di jihad come guerra santa costituisce una sorta di deviazione dalla vera tradizione islamica non dice la verità, e la storia mostra come purtroppo la violenza abbia caratterizzato l’islamismo fin dalle origini, e come sia stato lo stesso Maometto a organizzare e a condurre sistematicamente le razzie nei confronti delle tribù che non volevano convenirsi e accettare il suo dominio, sottomettendo in questo modo, una dopo l’altra, le tribù arabe. Naturalmente, bisogna anche dire che all’epoca di Maometto le guerre tacevano parte della cultura beduina e che nessuno vi trovava nulla di riprovevole.

Anche la versione che oggi i musulmani – seguiti in questo da molti storici occidentali – cercano di accreditare sulle crociate, non risponde alla realtà storica: secondo questa rappresentazione i cristiani occidentali si sarebbero presentati come invasori in un paese pacifico e rispettoso delle religioni diverse – cioè la Terrasanta, che allora faceva parte della Siria – utilizzando motivi religiosi per mascherare pretese imperialiste e interessi economici.

L’idea delle crociate nacque invece soprattutto come reazione alle misure che il califfo fatimide al-Hakim bi-Amr Allah prese contro i cristiani di Egitto e di Siria: nel 1008 al-Hakim abolì la festività delle Palme, l’anno successivo ordinò di punire i cristiani e di requisire ogni loro bene.

Nello stesso 1009 saccheggiò e fece demolire la chiesa che al Cairo era dedicata a Maria e non impedì la profanazione dei sepolcri cristiani che la circondavano e il sacco di altre chiese della città. Nello stesso anno si ebbe quello che fu sicuramente l’episodio più grave: la distruzione a Gerusalemme della basilica costantiniana della Resurrezione, conosciuta come il Santo Sepolcro.

Le cronache del tempo dicono che egli aveva ordinato “di farvi sparire qualsiasi simbolo di fede cristiana e di provvedere a portar via ogni reliquia ed oggetto di venerazione”. La basilica quindi fu completamente abbattuta, e Ibn Abi Zahir cercò in ogni modo di rimuovere il sepolcro di Cristo e di farne sparire ogni traccia.

Oggi, in molti ambienti intellettuali, sì parla spesso della tolleranza religiosa esercitata durante molti secoli da parte del potere politico islamico perché mentre nei confronti delle popolazioni pagane valeva il detto “abbraccia l’Islam e avrai la vita salva” – i pagani che non si convenivano venivano uccisi – i “popoli del libro”, cioè ebrei e cristiani, potevano continuare a praticare il loro culto.

Nella realtà, la situazione era molto meno idilliaca: cristiani ed ebrei potevano sopravvivere solo se accettavano il dominio politico musulmano e una situazione di umiliazione, aggravata dall’obbligo di pagare imposte sempre più pesanti. Non c’è da stupirsi, quindi, se la maggioranza dei cristiani, anche se non costretti con la forza, a causa delle continue pressioni, economiche e sociali, si sia convertita all’Islam, provocando per esempio la totale scomparsa di una cristianità fiorente per oltre mezzo millennio come quella dell’Africa romana, la terra di Tertulliano, San Cipriano, Ticonio e soprattutto Sant’Agostino.

Ma la differenza più forte tra cristianesimo e islamismo è a proposito di un tema centrale come la concezione di essere umano. Lo dimostra il fatto che molti paesi islamici non hanno accettato la Dichiarazione dei diritti dell’uomo promulgata dalle Nazioni Unite nel 1948, o l’hanno fatto con la riserva di escludere le norme che contravvenivano alla legge coranica, cioè in pratica tutte. Dal punto di vista storico bisogna dunque riconoscere che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo è un frutto culturale del mondo cristiano, anche se si tratta di norme “universali”, in quanto valide per tutti.

Nella tradizione islamica, infatti, non esiste il concetto di uguaglianza di tutti gli esseri umani, né di conseguenza quello di dignità di ogni vita umana. La sharia è fondata su una triplice disuguaglianza: tra uomo e donna, tra musulmano e non musulmano, tra libero e schiavo. In sostanza l’essere umano di sesso maschile viene considerato pienamente titolare di diritti e di doveri solo in quanto appartenente alla comunità islamica: chi si converte a un’altra religione o diventa ateo viene pertanto considerato un traditore, passibile della pena di morte o, come minimo, della perdita di tutti i diritti.

La più irrevocabile di queste disuguaglianze è quella tra uomo e donna, perché le altre possono essere superate lo schiavo con la liberazione, il non musulmano con la conversione all’Islam mentre l’inferiorità della donna è irrimediabile in quanto stabilita da Dio stesso. Nella tradizione islamica, quindi, il marito gode di una autorità pressoché assoluta sulla moglie: mentre all’uomo è consentita la poligamia, la donna non può avere più di un marito, non può sposare un uomo di altra fede, può essere ripudiata dal marito, non ha alcun diritto sulla prole in caso di divorzio, è penalizzata nella divisione ereditaria e dal punto di vista giuridico la sua testimonianza vale la metà di quella di un uomo.

Se dunque l’Islam implicava ed implica non solo un’adesione religiosa, ma tutto un modo di vivere, sancito anche a livello politico – modo di vivere che naturalmente comporta e prescrive come agire con gli altri popoli, come comportarsi in questioni di guerra e di pace, come avere relazione con gli stranieri – è molto facile comprendere come la vittoria di Lepanto abbia garantito all’Occidente la possibilità di sviluppare la sua cultura di rispetto per l’essere umano, al quale viene garantita uguale dignità in ogni condizione.

Se questa caratterizzazione dell’Islam è destinata in futuro a rimanere immutata, come è accaduto finora, non può che risultare difficile la convivenza con quanti non appartengono alla comunità musulmana: in «un paese islamico, infatti, il non musulmano si dovrà sottomettere al sistema islamico, se non vuole vivere in una situazione di sostanziale intolleranza.

D’altra parte, proprio a causa di questa concezione complessiva di religione e autorità politica, il musulmano avrà molte difficoltà ad adattarsi alle leggi civili nei paesi non islamici, ritenendole qualcosa di estraneo alla sua formazione e ai dettami della sua religione.

Bisogna forse chiedersi, se le comprovate difficoltà di persone provenienti dal mondo islamico ad integrarsi nella vita sociale e culturale dell’Occidente, non trovi una delle spiega/ioni in questa problematica. Dobbiamo anche riconoscere il diritto naturale di ogni società di difendere la propria identità culturale, religiosa e politica. Mi sembra che Pio V abbia fatto proprio questo.