E se Franco avesse perso…

Spagna_repubblicanaTempi n.4 del 19 gennaio 2006

Rivalutazione storica del generalissimo e inquietanti paralleli fra la Spagna del fronte popolare e quella di Zapatero. Il successo del libro dello storico Pio Moa (ex maoista) fa esplodere un caso politico

di Rodolfo Casadei

Non c’è dubbio che il ruolo della Spagna franchista nel salvataggio degli ebrei europei sia stato decisamente superiore a quello delle democrazie antihitleriane. Le operazioni di salvataggio che permisero di trarre in salvo dai 30 ai 60 mila ebrei – 45 mila, sostiene un recente studio di uno storico americano – vennero condotte su specifica ed energica richiesta del Generalissimo.

Quella di Franco è stata una vera scoperta per me. è una verità scomoda da dire, ma è la verità. E pensare che nell’unica intervista in cui il Generalissimo è entrato nell’argomento, si è limitato a spiegare laconicamente il suo atteggiamento nei confronti degli ebrei come un “elementare senso di giustizia e carità cristiana”.

Enrico Deaglio, direttore de Il Diario

Franco non si ribellò contro la democrazia, ma contro il processo rivoluzionario che aveva liquidato la democrazia in Spagna nel febbraio 1936. Non fu la guerra civile a distruggere la democrazia, ma fu la distruzione della democrazia da parte della sinistra salita al governo che causò la guerra.

La Spagna è stata fortunata che la vittoria sia toccata a Franco, perché se avesse vinto il Fronte Popolare sarebbe stato instaurato un regime stalinista molto peggiore, che avrebbe certamente preso parte alla Seconda Guerra mondiale, mentre il Generalissimo tenne fuori il paese da tale avventura e inaugurò il periodo di pace più lungo nella storia spagnola.

La dittatura franchista ha lasciato in eredità un paese politicamente moderato ed economicamente prospero, il che ha favorito la transizione senza scossoni alla democrazia e all’economia di mercato, mentre le dittature comuniste, per le quali simpatizzavano gli antifranchisti, hanno lasciato paesi impoveriti che faticano a risollevarsi.

Nei quasi quarant’anni che è durato, il franchismo non ha mai avuto alternative: l’opposizione democratica al regime è stata quasi inesistente, l’unica opposizione vigorosa era quella comunista e dei terroristi baschi, molto più anti-democratica del franchismo, e questo ha fatto sì che la maggioranza della popolazione preferisse convivere col regime anziché dare luogo a una resistenza.

Finiti i regolamenti di conti del dopoguerra, il franchismo è stato una dittatura mite, autoritaria ma non veramente fascista, con pochi prigionieri politici, quasi tutti estremisti o terroristi, mentre la Seconda Repubblica era stata un’arena di illegalità, violenza politica e abusi tollerati dal governo.

La democrazia spagnola attuale procede dal franchismo per riforma e non per rottura, come avrebbero voluto gli antifranchisti che tentarono senza successo di sabotare il processo di transizione all’indomani della morte di Franco.

Pio Moa, bestia nera della storiografia ufficiale

Se pensate che i concetti sin qui esposti siano punti della scaletta del discorso di un nostalgico franchista, magari da tenersi in occasione del 70° anniversario dell’alzamiento del Generalissimo, che cade il 18 luglio di quest’anno, vi sbagliate di grosso. È vero che i suoi avversari lo etichettano come “neo-franchista” e che l’ex segretario del Partito comunista spagnolo Santiago Carrillo lo ha accusato, trent’anni dopo la fine del regime, di essere stato un confidente della polizia di Franco.

Ma Pio Moa, il più letto, brillante e controverso storico della Guerra civile spagnola, contro il regime franchista ha praticato la lotta armata negli anni Settanta nelle file dei maoisti del Grapo, uno dei gruppi più sanguinari dell’estrema sinistra.

Abiurata la fede comunista all’inizio degli anni Ottanta, oggi si definisce politicamente liberal-democratico. Alla fine degli anni Novanta ha cominciato ad occuparsi della storia della guerra civile spagnola e in poco tempo è diventato la bestia nera della storiografia ufficiale. Ad irritare gli esperti non sono stati solo l’estrazione non accademica dell’autore e le sue tesi controcorrente, ma il folgorante successo di vendite dei suoi libri: Los Mitos de la Guerra Civil, il più famoso della dozzina che ha scritto in pochi anni, ha venduto 150 mila copie.

Un record che sarà quasi certamente battuto dal titolo entrato in libreria tre mesi fa: Franco: Un balance historico. I giudizi storico-politici che abbiamo enunciato in apertura riassumono parte dei contenuti del libro.

Moa è abituato alle polemiche e alla demonizzazione, e reagisce a quelle che stanno divampando intorno al suo ultimo libro con l’abituale aplomb. Per anni è stato attaccato e ingiuriato sulle pagine di El Pais, La Vanguardia, La Voz de Galicia, ecc. senza poter mai esercitare alcun diritto di replica; quando nel 2003 la tivù pubblica si occupò per la prima e unica volta del fenomeno Moa intervistandolo, El Pais pubblicò uno stizzito commento dello storico Javier Tussell, che si scandalizzava che la televisione pubblica non avesse censurato Moa; in parlamento i deputati del Psoe presentarono un’interrogazione parlamentare dello stesso tono.

Stavolta però la polemica sembra aver superato il punto di non ritorno: sul Periodico de Cataluña l’universitario Jordi Gracia è arrivato a scrivere che gli storici «sono tentati di pensare che i neo-franchisti come Pio Moa hanno bisogno di una punizione», mentre le accuse calunniose del vecchio Carrillo stanno creando un clima che mette a rischio la sicurezza personale dello scrittore.

A far tracimare in minacce vere e proprie l’ostilità ideologica nei confronti di Moa è lo spirito che pervade il suo ultimo libro – un saggio che non è una novità storiografica, ma che tira le somme delle ricerche che gli hanno permesso di scrivere i libri precedenti – e che si condensa nella conclusione: «Una società che non sa riconoscere e apprezzare i meriti di quelli che l’hanno beneficiata è condannata a mettersi al seguito di demagoghi seppellitori di Montesquieu, infinitamente ansiosi di far pace coi terroristi e di intendersi coi separatisti e coi dittatori che più minacciano il loro paese».

Zapatero ripete gli errori della Repubblica degli anni Trenta

Il problema, insomma, è che stavolta Moa attacca Zapatero, e lo fa proprio nel libro che propone una riabilitazione storica di Francisco Franco per risultare quanto più polemico possibile nei confronti dell’obiettivo politico più importante del leader socialista radicale: l’attuazione di una “seconda transizione” di rottura, che dovrebbe collegare direttamente la democrazia spagnola di oggi alla Repubblica degli anni Trenta, perché quella figlia della prima transizione sarebbe solo frutto di compromessi fra franchisti e antifranchisti.

Moa ribalta l’eredità rivendicata da Zapatero contro di lui: l’attuale alleanza fra Psoe e nazionalisti catalani di sinistra sarebbe una riedizione dei pessimi governi di sinistra del 1931-33 e del febbraio-luglio 1936, responsabili di riforme demagogiche e confusionarie e di aver permesso violenze di tutti i tipi contro gli oppositori politici e la Chiesa cattolica, ma soprattutto di aver distrutto l’essenza democratica del sistema.

Come ha detto nel suo intervento al Meeting di Rimini nell’agosto scorso: «L’obiettivo del Fronte Popolare consisteva nel trasformare il regime in un senso simile a quello del Partito rivoluzionario istituzionale in Messico, eliminando la destra o riducendola ad un ruolo secondario, impedendole un futuro accesso al potere».

Moa è convinto che Zapatero e i suoi alleati pensino e agiscano come Manuel Azaña e Largo Caballero, i leader repubblicani degli anni Trenta. Ha dichiarato a Libertad digital: «Bisogna fare attenzione a questa gente che vuole la rottura, perché non hanno imparato nulla dal fallimento repubblicano.

Dovevano aver imparato che in Spagna, perché un regime funzioni, deve servire la grande maggioranza degli spagnoli. L’idea generale che avevano le sinistre durante la Repubblica, e che continuano ad avere oggi, è che c’è democrazia quando comandano loro. Quando non comandano loro, non lo accettano. Quel che dovevano aver imparato, e che sembrava avessero imparato, è che riconciliazione significa riconoscere gli altri». Invece così non era: «La sinistra e i separatisti hanno accettato l’esito della prima transizione perché non avevano altra scelta. Ma adesso che tornano a sentirsi forti, tornano ad usare il vecchio linguaggio repubblicano».

L’unica differenza profonda riguarda la natura del principale pericolo che la Spagna correva negli anni Trenta e di quello che corre oggi: allora era la dittatura comunista, oggi sarebbe la frammentazione separatista che Zapatero sta facilitando. Ma il rischio di fondo, Moa fa capire, è lo stesso di allora: che la società spagnola si trovi un altro Franco e reagisca con un altro alzamiento.

Ecco la ragione delle reazioni intimidatorie.