Quando le Brigate Rosse uccisero il giudice Alessandrini

Emilio AlessandriniLa Nuova Bussola quotidiana

29 gennaio 2015

di Giuseppe Brienza

In un mondo politico-giudiziario nel quale abbondano corrotti ed imboscati, è doveroso rievocare l’esempio di dedizione e servizio del giudice Emilio Alessandrini (1942-1979), «uno dei magistrati migliori che Milano abbia mai avuto», l’ha definito Mario Calabresi, figlio di un altro grande uomo di Stato come Luigi Calabresi (1937-1972). Il giudice Alessandrini, come l’eroico commissario di Polizia, è stato assassinato a Milano il 29 gennaio 1979, a sangue freddo, da un commando di terroristi rossi.

Uno dei due killer appartenenti al gruppo comunista di Prima Linea, ha anche pubblicato un libro, Miccia corta, sulla sua esperienza della “lotta armata”. Da questa “epopea”, com’è spesso capitato di sentirla definire nel nostro Paese negli ultimi decenni, è stato poi tratto un film che, lo stesso figlio del giudice, Marco Alessandrini, ha giudicato «superficiale, come superficiali erano quei terroristi degli anni Settanta […]: dei deficienti, degli idioti in senso tecnico che giocavano alla guerra. Solo noi sappiamo quanto devastanti sono state le conseguenze dei loro gesti irresponsabili» (Io, mio padre e gli eroi sconfitti di Prima Linea, in La Stampa, 13 novembre 2009).

L’omicidio del valente giudice di origine abruzzese segnò il punto di non ritorno nella storia di sangue del gruppo terrorista artefice dell’attentato, facendogli perdere ogni sostegno perché, colpendo la persona di Alessandrini, veniva violato un esempio universalmente riconosciuto di integrità morale e competenza. Ciò è tanto vero che, nei filmati di repertorio, chiunque può vedere ancora oggi la folla immensa che accompagna la bara del magistrato portata per i funerali nel Duomo di Milano.

La morte del giudice suggellò il culmine dell’escalation degli omicidi di matrice terroristica in Italia: dieci furono, infatti, i morti innocenti per mano comunista nel 1976, 13 nel 1977 e, appunto, 35 nel 1978. Tutti omicidi compiuti con una naturalezza e, spesso, senza rimorso. Anzi, a distanza di anni, la mitizzazione prosegue nei film, nelle rievocazioni, diari, interviste etc.

Nella poesia Gli attentatori del premio Nobel Wislawa Szymborska (1923-2012), l’animo di questi assassini è invece così denunciato con parole tanto evocative quanto realistiche: «Per giorni interi pensano a come uccidere […] e a quanti ucciderne […]. Oltre a ciò mangiano con appetito i loro cibi […], si lavano […], telefonano […], scherzano un po’ […], guardano la luna e le stelle […] e dormono saporitamente fino all’alba, purché ciò che hanno in mente non si debba far di notte».

La scena dell’attentato ad Alessandrini, forse più di altri, ebbe uno svolgimento davvero terribile. L’abbiamo rivista nella fiction sull’avvocato Giorgio Ambrosoli Qualunque cosa succeda, andata in onda su Rai Uno con Pierfrancesco Favino il 1° e 2 dicembre 2014. Parte dalla figura di un bambino di scuola elementare che, tutto contento, si vede scendere con la sua cartella blu in spalla da una modesta automobile, una Renault 5. É il piccolo Marco Alessandrini, figlio del giudice che sarebbe stato ammazzato di lì a poco, che ogni mattina lo accompagnava personalmente fino all’ingresso di scuola, prima di recarsi in Procura.

Ecco quindi l’uomo che si china amorevolmente verso il figlio per compiere quel gesto, comune ma indimenticabile, di un bacio e di una parola di incoraggiamento per una giornata di studio che gli servirà, una volta cresciuto, a sostenere la famiglia ed edificare la comunità. Pur pressato da gravosi e pesanti incarichi, Alessandrini non veniva mai meno a questo quotidiano appuntamento con la sua indispensabile missione di marito e padre. Il sostituto procuratore di Milano, che allora aveva appena 39 anni, si dirige quindi in macchina verso l’incrocio dove lo avrebbero ammazzato.

Nel corso della sua carriera si era occupato delle inchieste più scottanti, da quelle sul terrorismo di sinistra agli scandali finanziari del Banco Ambrosiano, dalle investigazioni sui servizi segreti “deviati” alla strage provocata con l’attentato alla sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana. Da tutto ciò gliene era ritornata una “esposizione” pubblica non indifferente, come testimonia fra l’altro il libro Fiasconaro e Alessandrini accusano: la requisitoria su la strage di piazza Fontana e le bombe del ’69, pubblicato nel 1974 dai due giornalisti Roberto Pesenti e Marco Sassano (Marsilio editore).

Chi lo ha conosciuto personalmente lo ricorda come una persona equilibrata e seria, sempre disponibile, un “punto di riferimento”, specie per i colleghi più giovani. Chi ha lavorato con lui, ricorda come, nel suo ufficio, Alessandrini teneva gelosamente un Codice di procedura penale commentato dal celebre avvocato Gian Domenico Pisapia (1915-1995). Nella prima pagina c’era una dedica che spesso rivedeva, e che ne riassume l’identità di uomo e Italiano: “Al dott. Alessandrini, maestro di diritto e di vita. G. D. Pisapia”.

A Penne, in provincia di Pescara, la sua città natale, gli è stata dedicata una piazza. A Trento ad Alessandrini è stata intitolata un’aula del Palazzo di Giustizia. Di recente, il presidente dell’Associazione Emilio Alessandrini, Ennio Di Francesco, ha indirizzato all’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano una lettera che, in segno di speranza, ha così concluso: «Il nostro Paese può contare sugli antivirus nati dalla memoria dei Caduti per impuniti tentativi di eversione stragista; sul sacrificio dei Falcone, Cassarà, Borsellino, Ambrosoli, Dalla Chiesa, Alessandrini, Emanuela Loi, Custra, Varisco e degli altri “Servitori dello Stato” che hanno dato la vita per la democrazia; nei magistrati e tutori dell’ordine che ne continuano l’impegno; in quella “passione eversiva” che papa Francesco spande nelle coscienze con la sua Evangelii Gaudium».