Medio Evo e Riforma protestante (I)

di Marco Tangheroni

PRESENTAZIONE

Il testo è frutto della trascrizione, rivista dall’autore, degli incontri tenutisi nei primi mesi del 1990, a cura della Croce pisana di Alleanza Cattolica e del Centro Cattolico di documentazione di Marina di Pisa. Gli incontri furono tenuti nella sala parrocchiale della Chiesa di Santa Maria del Carmine in Corso Italia, Pisa (g.c.). Nella trascrizione si è mantenuto lo stile colloquiale.

Lutero

INDICE

Considerazioni introduttive

La crisi del Medioevo e la Riforma Protestante

La Rivoluzione Francese

Il Risorgimento Italiano

APPENDICE 

 1492 – 1992 : bilancio di un centenario

CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE

Vorrei, prima di tutto, ringraziare i Padri carmelitani che, con la loro ospitalità, ci consentono di svolgere questo piccolo corso di storia, organizzato da Alleanza Cattolica di Pisa. Questa sera l’incontro dovrebbe avere carattere introduttivo e servire a mettere a fuoco, attraverso alcune brevi riflessioni, il senso e l’interesse che l’iniziativa può avere. In primo luogo va chiarito che gli incontri futuri necessariamente limitati nel numero, saranno dedicati a periodi più o meno lunghi, considerati cruciali per la storia dell’Occidente e tali da richiedere particolari approfondimenti.

Ma perché questo corso?.

Naturalmente, la vostra stessa presenza qui dà a tale domanda una prima risposta, dato che non siete certamente mossi da interessi professionali. C’è, comunque, un interesse crescente per la storia; un interesse da non dare per scontato. posto che, per esempio, il ruolo che la storia ha nelle scuole nordamericane è diventato sempre più scarso, tanto che ora c’è un certo ripensamento.

Ancora: la storia è stata una dei grandi imputati del cosiddetto ’68, come forse non è inutile ricordare a voi che siete quasi tutti troppo giovani per ricordarvene. Si voleva allora costruire una “società senza padri”, non saprei dire fino a qual punto rendendosi conto che una società senza padri è anche una società senza figli, una società che rifiuta il passato non può avere diritto al futuro.

Come certe scritte testimoniarono a lungo, c’era, in quei rivoluzionari, un diffuso odio contro il passato, un desiderio di ripartire da zero, da una tabula rasa. Al più si poteva riconoscere alla storia il compito di insegnarci i residui del passato, opprimenti, da cui liberarsi; è questo il senso dell’impostazione dominante della einaudiana Storia d’Italia. Una funzione strumentale che dovrebbe prometterci di liberarci di quei pesi del passato che impediscono il nostro sviluppo progressista e liberatorio.

Certo: oggi molta acqua è passata sotto i ponti. I cambiamenti, radicali o parziali, del clima culturale sono stati, reali o anche solo apparenti, notevoli. Viviamo mesi di straordinaria accelerazione della storia e ciò comporta verso questo ramo della conoscenza un maggior interesse, in quanto si riconosce che essa ci può aiutare ad intendere. Ma se ci domandiamo se l’attuale produzione storiografica è in grado di rispondere a questa crescente domanda la risposta è in buona parte negativa. Almeno per il Medioevo.

Molte volte colleghi delle scuole secondarie mi mettono in imbarazzo chiedendomi un consiglio circa il manuale da adottare; a maggior ragione quando altre persone mi chiedono dove farsi una preparazione storica di base. Certo, vi sono alcuni aspetti della disciplina che i manuali difficilmente possono insegnare per la loro stessa struttura. Essi non trasmettono la problematicità della storia. Intendiamoci: non vi esorto certo allo scetticismo che nasce dalla  constatazione   delle contraddizioni dei testi, della molteplicità delle interpretazioni.

Anzi per quello che la storia ha di scientifico procede, come tutte le conoscenze scientifiche, attraverso l’accostamento progressivo, ma non lineare, e mai definitivo alla verità. La storia può raggiungere risultati veri; ma anche risultati dal diverso grado di verità. Due affermazioni come “Cesare fu ucciso il giorno delle idi di marzo dell’anno X” e “le eresie dell’ XI secolo furono una reazione al trionfo del feudalesimo” sono proposizioni diverse e che per la loro stessa natura contenutistica aspirano a livelli ‘di verità’ molto diversi. In secondo luogo i manuali arrivano sempre in ritardo sui risultati della ricerca storica.

Negli ultimi decenni questa ha conosciuto uno straordinario allargamento tematico e metodologico. Diceva Marc Bloch – e l’immagine è bella – che lo storico è come l’orco delle fiabe, che volge la sua attenzione dove sente odore umano (ricordate la vecchia filastrocca dell’orco e dell’orchessa, “Ucci, ucci, qui c’è odor di cristianucci: o ce n’è o ce n’è stati o ce n’è di rimpiattati” ?). Il lavoro dello storico è quello di ricostruire il passato degli uomini viventi in società.

Si è passati dalle sole fonti scritte, dagli archivi, dalle biblioteche, alla dendrologia, alla Pollinologia storica, alla paleopatotogia…Tutto questo allargamento dell’orizzonte storico non è rifluito nei manuali. Qui occorre una precisazione: questo allargamento, di per sé positivo, viene ad essere addirittura un pericolo, un grave pericolo, quando, nel disprezzo o nel capovolgimento delle gerarchie dell’importanza dei temi, porta ad una vana curiositas, ad una dispersione non finalizzata di studi e letture.

Molto bene si è fatto, a mio parere, a dedicare una giusta attenzione, per fare un esempio ai ceti e ai gruppi “emarginati”, o alla vita delle tante persone comuni, queste apparenti “sillabe atone della storia”. Ciò risponde a quella “pietas” con cui tutti – ma specialmente gli storici- dovrebbero volgersi verso il passato. Cioè il chinarsi su di esso con affetto e con rispetto insieme, come Enea nei confronti del padre Anchise. Chi è mai entrato in un archivio, magari in un archivio parrocchiale alla ricerca dei propri antenati, capirà quel che voglio dire.

La persona che compare nella mia pergamena per un mutuo che non può restituire, per un testamento fatto in giovane età… e che diventerà probabilmente un semplice numero accanto a tanti altri nel mio articolo, in quel momento riappare davanti a me come una persona, che ha amato, sofferto, tradito, pianto, lottato… un uomo come noi. Ma, pur nella comunanza della natura umana, egli è anche un uomo molto diverso da noi, con mentalità e reazioni diverse: diverso, per esempio, il suo senso dello spazio o del tempo, diversa, che so, la sua sensibilità al freddo…

Bisogna guardarsi dallo sceneggiato televisivo, dal romanzo storico da collana Harmony, dal travestimento in costume di atteggiamenti, mentalità, modalità di sentimenti che sono nostri e non di un altro tempo. Niente feste mascherate quando si scrive, si legge, si studia la storia. In questo senso può essere citata la frase riportata dal Cipolla: ” un altro mondo quello; fanno cose diverse laggiù”.

Ma – ripeto a scanso di equivoci circa la mia posizione bisogna neppure pensare che- non la natura umana, l’umanità delle persone sia cambiata. E’ un equilibrio difficile da tenere, come quello tematico cui accennavo prima. Non si  può considerare che positivo l’allargamento di interessi della storia agli emarginati o alla cucina, alle variazioni climatiche o ai poveri. Ma va segnalato il rischio di descrivere un’epoca basandosi solo sugli emarginati o gli eretici.

Con buona pace di Brecht, e di una sua poesia ora frequentemente riportata nelle antologie scolastiche, la storia del cuoco di Cesare non ha la stessa importanza di quella di Cesare (forse ne avrebbe avuta di più se lo avesse avvelenato…). Non tutti i fatti storici hanno la stessa rilevanza. D’altra parte non tutto ciò che accade è raccontabile dallo storico, così come il geografo, soltanto se impazzito, può pensare di rappresentare la terra, o una sua regione, in scala 1:1!

Un certo grado di astrazione fa parte di ogni conoscenza scientifica e di ogni racconto, e la storia, che è l’una e l’altra cosa, è costretta a selezionare. Mi sono soffermato fino ad ora, e molto rapidamente, su alcuni aspetti propri del lavoro dello storico, che io amo paragonare a quello dell’artigiano. I grandi storici nascono una volta ogni morte di papa, se non più raramente, ma la conoscenza storica progredisce grazie a tanti artigiani che collocano un tassello accanto all’altro o, correggendo, al posto di un altro.

Tutto questo lavorio può anche sembrare ozioso, se visto singolarmente: non negherò un certo carattere di oziosità, sia pure nel senso buono ed antico del termine, alle mie lunghe ricerche sull’esportazione dei cereali dalla Sardegna nel Trecento. Ma nell’insieme queste ricerche sono utili e necessarie: ­guai, lo sappiamo bene, ai popoli che dimenticano la propria storia! La storia deve essere per la politica quel che l’esperienza, l’esperimento, può essere per altre attività.

Non a caso’ trattando della virtù della prudenza, S. Tommaso (come bene espone il Pieper in uno dei suoi aurei volumetti sulle virtù) dà tanta importanza alla memoria come suo fondamento essenziale. Si pensi come è difficile già ricordare bene il nostro passato, cui guardiamo, per lo meno, con una costante indulgenza che non siamo soliti applicare anche al nostro prossimo: quei piccoli, marginali, ritocchini che rendono più digeribile la pillola spesso, troppo spesso amara dell’esame di coscienza. Figuriamoci allora   cosa non succede nel campo della conoscenza storica, dove c’è una mediazione essenziale tra lo storico e la realtà oggetto del suo studio.

Konrad Lorenz poteva cercare di ridurre al minimo gli schermi, le distanze tra lui e le taccole o le oche comportandosi da oca o da taccola; la mediazione tra lo storico e il passato, costituita dai documenti, dalla loro natura e anche dalla loro assenza, è evidentemente molto più forte. Certamente – e qui sono d’accordo con Henry Irenée Marrou – il progresso della conoscenza storica non consiste soltanto nel trovare nuovi documenti ma anche nel porre domande nuove a documenti già noti. In questo senso lo storico è un po’ come i cavalieri che dovevano porre la domanda giusta al Re Magagnato; ed il paragone potrebbe utilmente essere sviluppato nella direzione di quella purezza di cuore e di intelletto che, mancando, impediva la “domanda ben fatta”.

Ma un limite dato anche dalla documentazione esiste: non possiamo, come Zichichi, costruire immensi laboratori dentro il Gran Sasso. Esistono insomma dei problemi tecnici che discendono da queste considerazioni che non possono certo essere illustrati in questo corso, che non pretende di formare degli storici con la stessa rapidità con cui i corsi Linguaphone pretendono di insegnare le lingue. Ma è bene che il lettore serio di storia ne avverta l’esistenza per comprendere quel che sta dietro al prodotto diciamo cosi ‘finito’ che arriva tra le sue mani.

Nella seconda parte di questa conversazione vorrei affrontare un tema di maggior peso, cercando di esprimere rapidamente, senza banalizzare, quel che penso del rapporto tra storia umana e storia sacra, cioè, in un certo senso, del rapporto tra riflessione  critica sulla storia e riflessione teologica sulla storia. Naturalmente come storico che è cattolico. Certo ci sono dei begli spiriti come Ruggero Romano il quale, in un pamphlet pubblicato qualche anno or sono dall’ ”Espresso”, diceva che non possono esistere storici cattolici.

Faceva per la verità l’eccezione di Cinzio Violante considerato uno storico che per caso era anche cattolico: posso testimoniare che in venticinque anni da che lo conosco non ho mai visto Violante tanto infuriato… A meno di non assumere la posizione calvinista di tanti teologi d’oggi (un Dio “gratuito e lontano”), anche noi scettici cattolici del XX secolo dobbiamo credere che c’è ‘un’azione costante di Dio nella storia.

Ma, a mio parere, c’è un rischio, una tentazione: la pretesa di leggere, tra l’altro contemporaneamente ai fatti, passo per passo l’azione di Dio nella storia. Un gran vescovo e oratore come Bossuet non corse il rischio di finalizzare tutta la storia al regno di Luigi XIV, sua splendida fioritura? Pure Luigi XVI non era lontano…

Le domande sono legittime, le pretese di trovare tutte le risposte sono assurde. Le profezie si sono sempre svelate “post factum” e sovente hanno avuto bisogno di altre interpretazioni profetiche. E vorrei ricordare quel proverbio portoghese che ci insegna che “Dio scrive dritto ma con righe storte”, cioè che a noi appaiono storte; a noi – e qui il proverbio che mi sovviene è arabo- che vediamo un tappeto dal rovescio, intuendo lo schema, il disegno generale, ma incapaci di leggere i minuti particolari della trama.

Comunque, ciò su cui in questa sede vorrei insistere è che in ogni caso non è al mio mestiere che bisogna chiedere una lettura teologica della storia: noi possiamo soltanto cercare di fornire una base di fatti storici sempre più ricca e sempre più solida. Forse, quanto a vicinanza con la teologia, ma pur sempre entro limiti precisi, si spingono oltre gli. astrofisici o i biologi molecolari.

In uno dei più grandi storici medievali,  Ottone vescovo di Frisinga, zio del grande imperatore Federico I Barbarossa (metà XII secolo), con un evidente rimando a un passo della lettera ai Romani, mi è capitato di leggere un richiamo al fatto che gli occulta consilia Dei sono, appunto, occulti, occultati all’uomo. E questo in un testo che, anche nel titolo, “Storia delle due città”, è di chiara impostazione agostiniana. Si noti peraltro una lieve differenza con Agostino.

Ottone definisce così le due città: quella di Dio e quella del mondo, quindi non del diavolo, ma aperta a lui, permissa Diabulo, ma nella quale interviene anche Dio, talora con azioni inequivocabili, più spesso con i suoi occulta consilia, cioè attraverso piani che volutamente a noi non sono pienamente rivelati. E’ un atteggiamento diffuso negli storici della cosiddetta Età di Mezzo, che sarebbe meglio chiamare Cristianità.

Ritroviamo spesso la convinzione, più forte di quella che noi possiamo avere, che Dio agisce nella storia: si ricordi la  ricorrente espressione gesta Dei per Francos, imprese compiute da Dio attraverso i Franchi. In Ottone trovo anche l’espressione sacratissima magnalia Dei, grandezze di Dio che sono in qualche modo celate, velate, anche se irrompono di tanto in tanto e vengono come tali riconosciute.

Ma, allora, in qual senso posso definirmi come uno storico cattolico e cercare di lavorare come tale? Voglio dire non con la laicistica voglia di annullamento e di nascondimento di uno Scoppola ? Come altri saranno medici cattolici, ingegneri cattolici, veterinari cattolici…

La mia riflessione qui non è ancora sufficientemente matura e mi limiterò a qualche spunto. In primo luogo mi pare che possa giovare molto partire da un’antropologia corretta, strettamente discendente da quella verità sull’uomo continuamente richiamata dal papa Giovanni Paolo II. Prendiamo (ma molto banalmente, senza esaminare le fonti) l’apparizione a Costantino prima della battaglia di Ponte Milvio e la conseguente decisione dell’imperatore di porre sui suoi labari il monogramma cristico.

Posso benissimo credere che la storia sia vera, che l’apparizione avvenne e fu celeste, anche se come storico non lo posso affermare, dovendo rimanere aperto ad altre ipotesi che appaiono ugualmente possibili. Gli storici non religiosi e non cattolici si chiuderanno invece totalmente alla prima ipotesi e questa esclusione li indirizzerà verso spiegazioni spesso forzate, talora anche ridicole.

Quando parlo di antropologia corretta mi riferisco anche alla consapevolezza, tutta cattolica, dei limiti e insieme delle possibilità della natura umana, degli uomini. Lontani dai ricorrenti adoratori del ‘buon selvaggio’, sapendo che il peccato originale ha ferito la natura umana in tutti i discendenti di Adamo (salvo, s’intende, la Vergine), come storico, anche senza voler imporre ai confratelli del mestiere e ai lettori di diverso orientamento, la fede in questo dogma, sarò certo più portato a cogliere i limiti dell’uomo, le sue molteplici motivazioni, di un razionalista che rincorrerà sempre, come don Ferrante, una spiegazione esclusivamente razionale.

Del resto l’economista Schumpeter ha dovuto riconoscere che non tutto può essere spiegato e che alla fine resta un qualcosa di inspiegabile, che egli chiamava “la risposta creativa della storia”. Lontani peraltro dal pessimismo luterano e calvinista circa la natura umana post peccatum, saremo anche portati a respingere tutte le tesi deterministe, di stampo razzista, deterministico-­geografico, economicistico. In confronto con il problema storico dell’interpretazione delle epidemie di peste che si abbatterono su tutta la Cristianità a partire dal terribile 1348, facciamo, per spiegarci in concreto, l’esempio dell’AIDS.

Si può o meno pensare che questa malattia, che rischia di assumere dimensioni rilevanti, anche se non paragonabili a quelle della peste, sia un “castigo di Dio”. Lo si pensò della peste. Ma bisogna riconoscere che non c’è possibilità di fare questa affermazione in modo scientifico. Ma un futuro storico cattolico sarà portato a sottolineare i nessi con la liberazione sessuale e la tossicodipendenza, fenomeni propri ed esasperati degli anni ’70 e 80 del XX secolo; potrà mostrare come si sono creati degli squilibri nei meccanismi naturali e come questi abbiano largamente favorito la diffusione della malattia.

Va anche chiarita una ulteriore questione terminologica. Parlo qui di storia nel senso della disciplina, del ramo del sapere, del conoscere. Il chiarimento è necessario perché non abbiamo in italiano la distinzione che aveva il latino tra le res gestae, cioè la storia come insieme di accadimenti passati, di “cose fatte”, e la historia rerum gestarum, la storia di quegli .accadimenti, la conoscenza e il racconto del passato. Naturalmente, l’atteggiamento verso le res gestae condiziona quello verso la historia rerum gestarum.

Nessuna sopravvaluta­zione, cioè, della disciplina perché si è contrari a ogni concezione immanentistica del senso della storia (nel significato di “cammino umano”). Ma anche, nessun scetticismo verso le possibilità conoscitive perché non c’è nessun cinismo, nessuna disperazione, circa l’esistenza di un senso del “cammino umano”. Non apparteniamo alla delusa gentilitas, non siamo come i pagani che, secondo l’espressione di san Paolo, sono, appunto, “coloro che non hanno speranza”.

Dire che rifiutiamo il senso della Storia con la esse maiuscola, il senso della storia hegeliano della coincidenza della razionalità con la realtà, dell’acquisizione del carattere di necessità degli avvenimenti una volta accaduti, è molto importante in questo momento in cui le profezie marxiste stanno clamorosamente, totalmente e definitivamente fallendo. E il fallimento delle profezie significa il fallimento, anche ideologico, culturale, del marxismo, dato che proprio su di esse appoggiava la propria etichetta di scientificità.

Ciò provoca un disorientamento totale per chi era convinto di essere nel vento della storia, di marciare secondo il Senso della Storia (insisto sul peso delle maiuscole). In una corretta escatologia cristiana noi sappiamo che la guerra è stata certamente vinta da Cristo, ma che prima della fine molte battaglie potranno essere perdute: il tema, celebre, del “già e del non ancora”. Non abbiamo perciò bisogno di verifiche dalla storia.

GLI ELEMENTI COSTITUTIVI DEL MEDIO EVO

Nell’impostare Questo breve corso di storia abbiamo a lungo riflettuto su come affrontare il Medio Evo. Si è alla fine scelto di distribuire le fotocopie di un mio articolo, ormai di qualche anno fa, sulla “leggenda nera sul Medioevo” (Cristianità, 1978, n.34-35), che va utilizzato, in un certo senso, come introduzione a quello che sarà detto questa sera.

In esso sono, infatti, rintracciabili le motivazioni della ancora diffusissima tendenza a considerare il Medio Evo come un’epoca di pura negatività: una “leggenda nera” formatasi attraverso le tappe del Rinascimento (tempo della barbarie estetica e della sottovalutazione dell’uomo), della Riforma Protestante (tempo del trionfo della Chies e, quindi, dell’Anticristo), dell’Illuminismo (tempo del trionfo della superstizione e dell’ irrazionalità).

Non ci siamo sentiti ripetere, in questi gironi, che la Romania stava uscendo finalmente, non dal comunismo, ma dal Medio Evo? Questo stesso termine periodizzante che impieghiamo è un termine frutto di questa “leggenda nera” cui ora accennavo e di cui potrete più ampiamente leggere nell’articolo distribuito in fotocopia: diffuso da un fortunato manuale seicentesco, scritto da uno storico protestante olandese, il Keller, indica un puro tempo intermedio tra due realtà luminose: l’antichità classica e il Rinascimento.

Ora, volendo caratterizzare in positivo questo Millennio, anzi, ponendoci il problema se questo Millennio abbia avuto una sua identità riconoscibile pur in tante variazioni e in tanti cambiamenti avvenuti, dobbiamo porci alla ricerca di un denominatore comune, nello spazio e nel tempo. Altrimenti, dovremmo ricorrere ad una periodizzazione diversa: per esempio, e ponendoci da un punto di vista storico-economico, dovremmo accettare la proposta del Cipolla di parlare di “età pre-industriale”, arrivando, con la periodizzazione, sino alla metà del Settecento.

Questo denominatore comune è da rintracciare nell’essere stati questi secoli, secoli, per certi aspetti e nei luoghi più appartati, fino al nostro secolo, magari fino alla televisione. Ma noi dobbiamo basarci, per periodizzare, su elementi sostanziali; ed allora, ripeto, questi secoli si distinguono per il loro essere i secoli della Cristianità, della Cultura Cristiana, dell’Unità Cristiana. Ed è proprio questo elemento che, tra l’altro, spiega il sorgere e il mantenersi della Leggenda Nera sul Medio Evo.

È legittimo assumere questa dimensione religiosa quale elemento caratterizzante e periodizzante in una prospettiva puramente storiografica. In altre parole, non stiamo qui assumendo ed imponendo una gerarchia di valori precostituita? Mi pare che la semplice constatazione dei fatti ci permetta di dare una risposta negativa.

Se nell’Alto Medioevo, nei secoli V, VI ,VII, VIII, un mondo si è ricostruito in mezzo a tante rovine materiali, ciò avvenne certamente soltanto in forza di un elemento unificante e coagulante: il Cristianesimo nella sua versione ‘romana’. Inteso, cioè, non solo come generale sentimento religioso, ma anche come istituzioni ecclesiastiche, dalla più piccola cura d’anime ai vertici episcopali e fino al papato.

Sentiamo Giorgio Falco, ancora non convertito al Cattolicesimo, nella voce “Medioevo” dell’Enciclopedia Italiana:   Il trionfo della nuova religione sulla tradizione pagana “imposta un problema politico e religioso unico nella storia del mondo, il problema nel quale consiste il Medioevo, cioè la coesistenza di due universalità… la Chiesa che opera sul mondo e nel mondo…, lo Stato a cui è affidata una missione religiosa… La Rivelazione, la coscienza sacramentale, cristiana e romana, sono il carattere unico, la sostanza del Medioevo. Col che s’intende naturalmente esprimere il significato del periodo, non pronunciare su di esso un giudizio di pubblica o privata moralità…A questo credo vanno riferiti tutti i grandi momenti della storia medievale, l’espansione e la formazione d’Europa su nuove basi, le lotte delle potestà universali, le guerre di conquista e di difesa contro Arabi, Turchi, Bizantini, il processo finale di differenziazione e dissociazione della repubblica cristiana. A questo fondamento religioso vanno ricondotti tutti i grandi caratteri del periodo: la filosofia che è una teologia, il mondo sensibile considerato  come  specchio della Verità trascendente, le lettere e le arti destinate ad esaltare la fede, l’incessante richiamo all’ordine e alla purezza in mezzo all’anarchia e alla corruzione, il  germogliare perenne delle profezie escatologiche ed apocalittiche, la sorte degli uomini sulla terra concepita come un dramma umano e divino, che trae luce e valore dalla Provvidenza, dal peccato, dalla Redenzione, dal Giudizio».

Chiedo scusa della citazione un po’ lunga, ma mi è sembrato che, al di là di qualche passaggio che andrebbe, non dirò corretto, ma meglio sfumato e articolato, la risposta alla nostra domanda ci sia; e che sia ben impostato, più in generale, il discorso stesso degli elementi costitutivi del Medioevo.

Bisogna però dire che occorre una maggiore attenzione all’elemento germanico. Non dimentichiamoci che sarà un popolo germanico,  il popolo franco (quello, per l’appunto, convertitosi direttamente dal paganesimo al cattolicesimo, senza l’indugio nella fase ariana!) a ricostruire l’Impero d’Occidente su basi cristiane, con Carlo Magno, a Roma, la notte di Natale dell’anno ‘800. E sarà tedesca, con la dinastia sassone, anche la nuova restaurazione dell’età degli Ottoni (2° metà del X secolo); quegli stessi Sassoni che avevano fermato, sul campo di battaglia della Lechfield, la terribile minaccia ungara.

Vorrei insistere sul forte sentimento di continuità provato nel Medioevo nei confronti del mondo antico. Quando, come sono solito ripetere, dico che “gli uomini del Medioevo non sapevano di vivere nel Medioevo”, non faccio una battuta facile e paradossale; intendo precisamente dire che essi non avvertivano di vivere in un’epoca differente, pur riconoscendo la centralità storica dell’Incarnazione di Cristo.

Si pensi alla Commedia, al posto che in essa ha Virgilio, come personaggio storico, poeta e saggio, oltre che come allegoria della ragione umana, o a quello di Catone, posto, lui, pagano, suicida, nemico di quel Cesare che pure stava preparando quell’impero provvidenzialmente disposto alla diffusione del Cristianesimo, a guardia del Purgatorio.

C’è un’immagine ricorrente negli scrittori medievali del XII secolo, a partire dalla Scuola di Chartres, che rende bene la concezione del progresso propria del pieno Medioevo: “noi siamo come nani sulle spalle dei giganti”. Riconoscimento, cioè, dell’importanza dell’eredità antica e della sua grandezza, ma anche piena consapevolezza della capacità di ogni generazione di dare il proprio contributo al progresso. Riparleremo della nozione di progresso in età moderna e vedremo allora le differenze concettuali.

Vorrei accennare ad un’ultima considerazione a favore dell’importanza oggettiva dell’elemento  religioso, il cristianesimo ‘romano’, per la formazione di un mondo nuovo in mezzo alle rovine, anche materiali, dei tempi della crisi dell’impero romano e delle invasioni germaniche. Quando, nel 410, Roma fu per la prima volta conquistata e saccheggiata ad opera dei Visigoti, guidati da Alarico, la reazione che la notizia suscitò ovunque fu di costernazione e di sgomento. Non stiamo qui a dire quanto grandi fossero le accuse dei gruppi dirigenti ancora legati al paganesimo: per essi era evidente che gli Dei, abbandonati e traditi da Roma, si vendicavano.

Ma anche un cristiano come San Gerolamo, che si era ritirato in un eremo palestinese proprio per vincere le sue tentazioni ‘ciceroniane’ ed impegnato nella creazione di una nuova lingua, semplice, per la traduzione delle Sacre Scritture, pensò che ormai la fine del mondo era vicina. L’orbs, il mondo, sarebbe morto insieme all’urbs, la Città per eccellenza, la Città Eterna.

Fu allora che Sant’Agostino, partendo dalla polemica contro le accuse pagane, concepisce, in quella straordinaria opera di teologia e filosofia della storia intitolata De civitate Dei anche un nuovo mondo, non più inquadrato nelle plurisecolari strutture romane e imperiali; un nuovo mondo nel quale popolazioni romanizzate e popolazioni barbariche potranno fondersi grazie alla comune appartenenza al Cristianesimo.

Molti degli elementi costitutivi del Medio Evo sono ancora, per quanto attaccati o distorti, gli elementi costitutivi della nostra società: quelli che ancora la strutturano e la caratterizzano come società civile. Nell’introduzione al primo volume della Storia del Medioevo in tre volumi da lui curata (tradotta in Italia da Einaudi) Robert Fossier si sofferma su queste eredità e le elenca:

– La capacità di dominare lo spazio, asservire la natura e sostituire la fatica dell’animale a quella dello schiavo.

– L’uso razionale del tempo.

– Il distacco dai vincoli paralizzanti della tribù o del clan e la fondazione della coppia.

– Il dominio della macchina.

–  Nell’ambito della storia di tutti gli uomini, la creazione dell’Europa.

Merita poi riportare quanto lo storico francese scrive a commento di questo ultimo punto: “Ecco – diranno in coro tutti i begli spiriti del ­mondo,- ancora l’Europa! Non vedete altro!’ Eh si, è anche la mia opinione, ed è tempo di scrollarsi di dosso tutti gli pseudo-complessi da cui oggi siamo oberati: il fatto più importante nella storia del pianeta tra il 500 e il 1500 è il profilarsi del primato dell’Europa… la nascita di un’Europa conquistatrice del mondo è un fatto capitale nella storia umana, è un fenomeno meritorio del quale io non arrossisco e tale fenomeno…si chiama ‘Medioevo’ “.

Sempre a proposito di Europa, per le cui radici cristiane vi invito ad andarvi a rileggere il discorso, bellissimo, tenuto a Spira da Giovanni Paolo II, aggiungo soltanto che è da osservarsi come la nascita dell’Europa non escluda, anzi vada di pari passo, con la nascita delle nazioni, dei popoli. Unità nella distinzione: come si può verificare a livello di lingua, di diritto, di rito, di istituzioni ecclesiastiche… E come nascono i popoli? Covertendosi.

Così, ad esempio, quello ungherese, già flagello d’Europa, si riconosce popolo attorno alla conversione del re Stefano… E – sempre in tema di unità europea – come non evocare, a questo punto, dico almeno evocare, l’apporto essenziale del monachesimo benedettino, espressione quasi esclusiva, nelle sue varie riforme e nelle sue varie famiglie, della vita religiosa in senso stretto fino alla nascita dei nuovi ordini mendicanti all’inizio del XIII secolo?

Hanno contribuito in larghissima misura al salvataggio della    cultura antica, hanno da  missionari diffuso il cristianesimo al di fuori dei vecchi confini dell’Impero Romano, sono stati grandi costruttori, ma anche i riformatori della Chiesa e i bonificatori primi di foreste e paludi. Ma tutta la civiltà altomedievale, pur in mezzo a tante distruzioni, a tante difficoltà materiali, pur con una speranza di vita, alla nascita, non superiore ai trentacinque anni, appare proiettata verso il futuro.

Qualcuno di voi ricorderà quei brutti versi del Carducci in Presso le fonti del Clitunno nei quali viene evocata, in contrapposizione alla civiltà antica, un Medioevo penitente e flagellante sulle orme di un “rosso Nazareno”… Niente di più riduttivo è possibile pensare, come appare anche da tante poesie dello stesso poeta laicista.

Giustamente Arno Borst – grande medievalista tedesco- si dice colpito dal sacro zelo di uomini che, mossi in prima istanza dal desiderio di servire Dio, per una realtà non terrena, non storica, sono, proprio da questa istanza portati ad assumersi in prima persona immani compiti terreni di ricostruzione. Nel Medioevo, dice lo stesso Borst, “raramente si incontra il sorriso scettico o la rassegnazione del fallito… Non c’è la calma che regna in Paradiso, o nel carcere”

Il commento, la giustificazione, l’esemplificazione degli altri elementi ricordati dal Fosser sarebbero evidentemente troppo lunghi; d’altra parte la loro elencazione mi pare abbastanza chiara. Vorrei rapidamente sottolineare l’importanza della scomparsa pressoché totale della schiavitù, che si riproporrà, come fenomeno rilevante, soltanto alla fine del Medioevo, anche perché è un argomento di cui nessun manuale parla, pur, magari, dopo aver tanto insistito sul carattere schiavistico dell’economia antica.

Il servo medievale, infatti, non è certamente lo schiavo antico che era, in diritto, una pura cosa; ha dei vincoli (ma talora essi sono anche una garanzia, come nel caso del vincolo alla terra): la parola latina ha mutato significato. Questa scomparsa è legata, in una situazione di sottopopolamento, allo sviluppo tecnologico di questi secoli, sviluppo che Gimpel addirittura definisce è il titolo di un suo libro – “La Rivoluzione Industriale del Medioevo“.

Se ­rifacendomi ad una scena del film “Il nome della rosa” ­Guglielmo di Baskerville nascondeva gli occhiali alla vista dell’abate non era, come vorrebbe il film, perché temeva l’avversione della Chiesa al ‘nuovo’, al ‘tecnico’, ma per motivi egoistici e ignobili…

Sulla facciata del Duomo di Pisa è murata l’epigrafe di Buscheto, primo architetto di Questo straordinario e difficile edificio. In essa è lungamente lodata la sua ingegnosità tecnica che lo ha portato a costruire delle macchine per il trasporto e la posa in opera delle colonne tali che – si dice nell’epigrafe- ora il lavoro che prima richiedeva decine di uomini può essere svolta da poche ragazze.

Anche la fondazione del matrimonio monogamico merita di essere sottolineata perché ugualmente assente da tutti i manuali. Elevato a dignità di sacramento, esso vede gli sposi elevati al rango di ministri di questo sacramento. L’elemento consenso diviene decisivo per la validità dell’unione. Questa considerazione si legherebbe ad un discorso sulla condizione femminile, come oggi si usa dire.

Voi conoscete le opere della Pernoud, una delle quali specificatamente dedicata all’argomento. Vi segnalo, perché di recente traduzione presso Laterza, il buon libro di Robert Delort su La vita quotidiana nel Medioevo,  nel quale, dopo un esame sintetico, si conclude giustamente che, soprattutto tra XI e XIII secolo, la condizione femminile è assolutamente migliorata, in specie Rispetto alla condizione di età romana,  in cui era giuridicamente molto debole.

Pur nella loro eccezionalità, allora, personaggi come lldegarda di Bingen o Eleonora d’Aquitania, Giovanna d’Arco o Caterina da Siena, non ci appaiono in contrasto con una realtà radicalmente diversa, anzi opposta. E già che ho citato Delort, vi raccomando la lettura della prima parte del suo libro per intendere il rapporto tra gli uomini e la natura in quest’epoca; un tema di cui egli è gran specialista anche a livello di ricerca diretta.

Certo, oggi salvare gli ultimi esemplari di lupo appenninico può essere una buona cosa, anche se non la cosa buona per eccellenza, come molti intendono. Ma a quel tempo, certo, il problema non era salvare i lupi bensì salvarsi  dai lupi! Neppure in città, in certe annate, era impossibile incontrarli.

LA CRISI DEL MEDIOEVO E LA RIFORMA PROTESTANTE

Sono, questi, due argomenti che avrebbero meritato al­meno un incontro ciascuno. Tuttavia è bene osservare che l’unione, anche se dettata da ragioni di tempo, non è arbitra­ria. Gli ultimi due secoli di quell’ epoca storica che siamo abituati a chiamare Medioevo possono e debbono essere visti in­sieme come crisi della cristianità e come origine del mondo mo­derno. Così, ad esempio, è impossibile intendere quella rottura decisiva dell’unità cristiana rappresentata Dalla Riforma Protestante senza prima ricercare i precedenti segni di  crisi nella Cristianità.

Un’ altra precisazione. Secondo il taglio di questo corso vengono lasciate sullo sfondo e date per conosciute le essen­ziali linee interpretative date da un breve capitolo di Rivolu­zione e Contro-Rivoluzione del prof. Plinio Correa de 0liveira basate sull’ importanza decisiva della Rivoluzione nelle ten­denze. Sempre dal punto di vista delle questioni generali voglio anche ricordare l’interesse che,  proprio per questo periodo, suscita l’interrogativo posto da don Giussani: “è la Chiesa che ha dimenticato il mondo o è il mondo che ha dimenticato la Chiesa?”.

In queste lezioni, infatti, ci collochiamo ad un livello più descrittivo; fenomenologico. Anche, però, a questo livello non è facile trovare un equilibrio esposi ti va tra aspetti apparentemente lontani e che pure. sono collegati.  Facciamo esempio. C’è tutto uno sviluppo in campo filosofico; un campo che sembrerebbe elitario, limitato a di­scussioni di scuola, tutto all’ interno della filosofia scola­stica. Che nesso c’è con le eresie e le agitazioni sociali nu­merose e diffuse negli ultimi secoli del Medioevo?

Ma la storia va studiata globalmente perché i vari livelli fanno parte  della stessa realtà e tra essi esistono delle interconnessioni che è nostro compito ricercare. Intendiamoci: se noi volessimo fare una descrizione sta­tica, fotografica, del XIV o XV secolo gli elementi di cui par­leremo stasera sarebbero statisticamente poco rilevanti. La so­cietà rimaneva largamente uguale a quella dei secoli prece­denti. Ma ciò che noi stiamo facendo è un modo diverso di fare storia, cinematografico, col quale andiamo a ricercare in quei secoli le origini di certi fenomeni successivi anche se non massicciamente presenti in un’epoca.

A livello economico e sociale possiamo così avvertire dei segni di crisi. Per cominciare bisogna ricordare la grande catastrofe demografica provocata dalla peste del 1348 e dalle ricorrenti epidemie successive. Esse erano allora considerate un castigo  di Dio, come anche nelle religioni pre cristiane (basti richia­mare alla mente l’inizio dell’Iliade). Una questione di tal genere appartiene però all’ambito della teologia della storia.

Ma  dal punto di vista fenomenologico ciò che interessa è vedere come la società, di fronte a questa grossa catastrofe, abbia mostrato grossi cenni di cedimento: si possono rileggere a que­sto proposito le prime illuminanti pagine del Decamerone di Giovanni Boccaccio le quali ci mostrano che, almeno a Firenze, anche i legami familiari e le solidarietà cittadine vennero meno e che, passata la peste, nei sopravvissuti si scatenò una caccia al lusso resa materialmente possibile dal concentrarsi delle fortune nelle mani dei sopravvissuti.

A parte la peste, nella seconda metà del Trecento comin­ciamo a notare altri segni del venir meno della compattezza e della organicità della società medioevale. Si moltiplicano le sommosse e le rivolte, a carattere ora esclusivamente sociale ora a carattere insieme sociale e religioso, sia nelle città che nelle campagne. Ricorderete dai libri di storia il cosid­detto “tumulto dei Ciompi” del 1378 a Firenze, ma dobbiamo pen­sare anche alle jacqueries francesi (da Jacques bonhomme so­prannome del contadino tipico), ai Lollardi in Inghilterra col­legato all’eresia predicata da Wycliffe, alle rivolte catalane.

Certi movimenti dalle componenti egualitaristiche suonano come campanelli d’allarme per quella che era stata, pur nel movimento, la sostanziale stabilità della società medioevale. I cambiamenti della mentalità possono essere sintetizzati nel riferimento ad un crescente individualismo: la tendenza a vedere nell’uomo singolo la misura di tutti i valori.

Questa tendenza si esprime anche nelle forme di devozione e di pietà più ortodosse che insistono sul legame strettamente personale con Dio, con un certo accantonamento del primato della Sua glo­ria. E’ questo, per esempio, il caso della “devotio moderna” o dei mistici tedeschi e fiamminghi. Un grande fenomeno di religiosità collettiva come le cro­ciate perde sempre più seguito.

Anche le grandi costruzioni re­ligiose romaniche e gotiche non ebbero niente di analogo nei secoli seguenti specialmente sotto l’aspetto della partecipa­zione comunitaria. All’attenzione sul giudizio universale si sostituisce una accentuata preoccupazione per quello individuale. Naturalmente i due elementi devono essere ugualmente presenti in una buona teologia cattolica, ma descrivendo i cambiamenti della menta­lità e della religiosità questo spostamento di accento va se­gnalato.

Particolarmente tra i mercanti si nota questa preoccupa­zione non più vista come momento risolutivo della vita, ma come possibile momento di cambiamento della vita. Negli archivi si conservano molti testamenti di mercanti che, in punto di morte, si rendono conto dello scarto tra la loro vita e l’etica cri­stiana e perciò dispongono la restituzione dei loro guadagni ottenuti con l’usura. Sono spie di una rottura della continuità piena tra la vita e la morte che è evidente negli uomini del medioevo.

Leg­gete la descrizione della morte di Rolando nella più antica delle chansons de geste, la Chanson Roland. Oppure il primo ca­pitolo del libro di George Duby, Guglielmo il Maresciallo. Questo individualismo lo ritroviamo anche nella filoso­fia. La Scolastica aveva raggiunto nella seconda metà del Due­cento la sua piena maturità soprattutto con la grande sintesi di San Tommaso, attraverso una rivisitazione cristiana della filosofia aristotelica nella quale natura e grazia, intelletto e sentimenti, avevano trovato un loro pieno equilibrio.

Nel Trecento questa filosofia entra in crisi prima di tutto per un movimento sviluppatosi al suo interno, il Nomina­lismo. Esso rifiuta l’esistenza di idee o di concetti di carat­tere generale: esistono solo i nudi nomi (nomina nuda tenemus). Cioè non potremo più parlare di umanità, per esempio, ma solo di singoli uomini.

Cosi in teologia diviene difficile qualsiasi riflessione sulla Trinità e l’azione di Dio viene concepita, con Ockham, come qualcosa di assolutamente gratuito: le cose sono sante non perché espressione della santità di Dio ma sem­plicemente perché Egli ha stabilito che esse fossero così. Egli nella Sua totale onnipotenza avrebbe potuto stabilire che quelle cose non fossero sante e altre invece lo fossero.

In politica il nominalismo tende a porre a fondamento dello stato l’individuo e non le varie comunità intermedie a cominciare da quella familiare. Nel Quattrocento nasce poi in Italia e si diffonde nella Cristianità un movimento culturale che, con attenzione soprat­tutto all’aspetto filologico letterario, siamo soliti chiamare Umanesimo e, in senso più generale, chiamiamo Rinascimento.

Esso pone l’uomo al centro di ogni attenzione e di ogni attività. Esso non è, se non in alcuni rappresentanti, anticri­stiano, anche se con la sua critica generale e spietata sul passato della Chiesa cattolica ha preparato, anche per l’ idea del ritorno al cristianesimo delle origini, almeno in una certa misura il terreno alla Riforma Protestante. Si pensi ad Erasmo da Rotterdam, alle sue polemiche con­tro gli ordini monastici e mendicanti.

Certo, c’erano in essi fenomeni di decadenza ma anche sforzi di ritorno alla stretta osservanza delle regole. Così, ancora, il clero secolare e lo stesso episcopato erano afflitti da gravi difetti, perché sol­tanto col concilio di Trento e la Controriforma sarà impostato sistematicamente, con la generalizzazione dei seminari, il pro­blema della formazione dei preti. Ma se leggiamo Erasmo si vede che la critica non è rivolta alle manifestazioni patologiche ma all’essenza stessa delle realtà criticate; per esempio è l’idea che della gente si chiuda in un monastero per darsi alla con­templazione a non essere accettata.

Nasce il mito del cristianesimo delle origini; un mito perché esso viene ricostruito e plasmato secondo i propri orientamenti. In campo artistico l’arte medioevale viene condannata come barbarica:. come, gotica appunto.

In campo letterario si vuole ritornare al latino classico finendo col recidere quei legami che facevano ancora in una certa misura del latino me­dioevale una lingua viva. La parola d’ordine è: “ritornare all’antichità”. Un’antichità vista ed interpretata in modi negromantici: in un certo senso si risuscita un cadavere assumendo lo come un mo­dello costituito da tratti innovativi e spesso alternativi a quelli propri della civiltà cristiana.

Naturalmente anche in questo caso bisogna guardarsi dalle eccessive generalizzazioni in quanto esistettero anche filoni di umanesimo cristiano che sarebbe interessante seguire. Ma è indubbio che, sinteticamente, è giusto dire che prevale in campo religioso e filosofico la coordinazione, cioè “Dio e l’uomo” una formula che può pericolosamente scivolare verso “prima l’uomo e poi Dio”, un Dio sempre più lontano o sempre più confuso con la Natura.

In filosofia il XV secolo è dominato largamente dal neo platonismo inteso, prevalentemente, in un senso nuovo e spesso paganeggiante molto diverso dalla componente neo platonica che, attraverso lo Pseudo Dionigi, è fortemente presente anche in San Tommaso e in generale in tutta la filosofia medioevale. A questo neo platonismo spiritualistico, sempre tentato di scivo­lare nel panteismo (Giordano Bruno), si contrappone un aristo­telismo ridotto a puro razionalismo.

Nelle varie corti la rinascita dell’antichità è spesso un alibi ideologico per l’abbandono a i lussi e ai piaceri della vita. La stessa corte pontificia nel momento in cui Martin Lu­tero proclama le sue tesi non era certo nella situazione mi­gliore per potere reagire con la massima efficacia.

Ora, proprio la rottura dell’unità cristiana segna il passaggio da un’epoca all’altra. Una rottura di portata deci­siva di cui è bene qui dire qualcosa che non viene generalmente detto. Lutero fu un “enfant prodige” della Chiesa; molto valorizzato, si trovò ad avere moltissimi compiti. Poi, colto dal terrore della dannazione e da una crisi di aridità inte­riore, ricevette dal direttore spirituale l’incauto consiglio di gettarsi nell’azione: ho presente una sua lettera in cui scrive che le sue attività gli impediscono di pregare.

Si dice normalmente che Lutero si scandalizzò per i modi disinvolti di predicazione delle indulgenze. In realtà egli era scandalizzato non dagli eccessi di un qualche predicatore domenicano ma dalla dottrina stessa delle indulgenze la quale presuppone che la Chiesa possa disporre dei meriti accumulati dai santi. Ora, per Lutero e per la sua concezione radicalmente pessimista della natura umana dopo il peccato originale è im­possibile all’uomo procurarsi qualsiasi merito di fronte a un Dio che salva o condanna del tutto arbitrariamente.

Su questo terreno gli umanisti come Erasmo non poterono evidentemente seguirlo: al De servo arbitrio di Lutero Erasmo pone il suo De libero arbitrio. Pur nella sua unilateralità bisogna riconoscere un certo fondamento alla tesi di Max Weber sullo stretto legame tra lo spirito del capitalismo e l’etica calvinista attenta a ricer­care nel successo negli affari un segno di predestinazione. Lutero rifiuta le intermediazioni tra l’uomo e Dio, da quella sacramentale della Chiesa a quella di Maria e dei santi.

Come ogni rivoluzione anche la Riforma Protestante sci­volò verso forme sempre più estremistiche. Lutero aveva tentato di salvare i vescovi, i presbiteriani pretenderanno di fondare la Chiesa solo sui pastori, ma ben presto si svilupperanno delle sette che sosterranno l’assoluta uguaglianza dei fedeli.  Quanto alla Sacra Scrittura il principio della libera e personale interpretazione si afferma suscitando le ire dello stesso Lutero il quale, pur proclamando questo principio, voleva imporre le proprie interpretazioni.

L’episodio più sanguinoso è rappresentato dall’ Anabatti­smo e dal suo tentativo di instaurare una società comunistica nella città di Munster sulla base di una mescolanza di profeti­smo e di interpretazione arbitraria della Bibbia. Un’ altra riflessione mi pare che possa essere fatta: prendiamo la carta geografica dell’Europa a metà del Cinquecento e sovrapponiamola alla carta dell’Impero Romano ai tempi della sua massima espansione. Si vedrà che, con l’eccezione della Britannia poco romanizzata, i confini dell’ Europa rimasta cattolica tendono a coincidere con quelli dell’ Impero. Mi pare che sia una.

Verifica dell’ importanza dell’eredità romana come componente della civiltà cristiana. In campo politico sembrerebbe a prima vista che il protestantesimo si muovesse nella direzione di una maggiore cristianizzazione della società. A Ginevra Calvino fonda una repubblica basata sulla Bibbia e non priva di aspetti inquie­tanti quanto a controllo totalitario della vita privata. Non c’è più nessun riferimento alla naturale socialità dell’uomo, al diritto naturale, alla continuità tra natura e grazia, alla possibilità di una fondazione razionale della politica. Per il protestantesimo tra natura e grazia c’è solo piena contraddi­zione.

Pertanto, poiché la natura umana non può agire bene, deve essere violentemente corretta alla luce della rivelazione. Que­sto modello è lontano dalla concezione medioevale dello stato cristiano e si dimostrò logicamente fragile perché la sua base biblica non era sostenuta da nessuna riflessione di tipo poli­tico sociale. Di fatto già Lutero fu costretto ad appoggiarsi passivamente dall’autorità ai principi tedeschi desiderosi di liberarsi dell’autorità imperiale e di impadronirsi dei beni della Chiesa.

Non diverse le motivazioni di Enrico VIII in Inghilterra. Dunque, paradossalmente, ma non illogicamente, la ri­forma luterana finì per porre la religione sotto il controllo dello stato. Alla fine anche Carlo V fu costretto a riconoscere il principio che i sudditi dovevano avere la stessa religione dei principi. Anche per questa via verifichiamo che la Riforma Prote­stante rappresentò una tappa importante nel processo di allon­tanamento dalla civiltà cristiana la quale si era fondata sulla ferma convinzione che, per dirla con San Tommaso, l’uomo non appartiene alla comunità con tutta la sua persona perché questa appartiene soltanto a Dio.