Il Risorgimento italiano (III)

di Marco Tangheroni

PREMESSA

Il testo è frutto della trascrizione, rivista dall’autore, degli incontri tenutisi nei primi mesi del 1990, a cura della Croce pisana di Alleanza Cattolica e del Centro Cattolico di documentazione di Marina di Pisa. Gli incontri furono tenuti nella sala parrocchiale della Chiesa di Santa Maria del Carmine in Corso Italia, Pisa (g.c.). Nella trascrizione si è mantenuto lo stile colloquiale. In appendice la trascrizione della conferenza del 29-11-1992 tenutasi in occasione del 5° centenario della scoperta dell’America.

Unità_Italia

INDICE

Considerazioni introduttive

La crisi del Medioevo e la Riforma Protestante

La Rivoluzione Francese

Il Risorgimento Italiano 

APPENDICE  

1492 – 1992 : bilancio di un centenario

Il Risorgimento rappresenta per la storia italiana un momento storico in un certo senso analogo a ciò che la Rivoluzione Francese ha rappresentato per la Francia. D’altra parte esso è stato collegato e si è richiamato alla “grande rivoluzione”.

Il tema è anche di grande interesse politico e culturale. In questo corso non è prevista una lezione sul novecento, ma si può qui accennare, per esempio, agli equivoci e alle ambiguità sul tema da parte del fascismo: questo, infatti, da un lato pretendeva di combattere i principi dell’ottantanove, dall’altro però affermava di essere il compimento del Risorgimento.

Rispetto al mito della Rivoluzione Francese continuamente richiamato e riproposto su scala europea e mondiale, le riproposizioni del mito del Risorgimento appaiono abbastanza fiacche. Trent’anni fa in occasione del centenario della proclamazione del regno d’Italia, in una mescolanza interessante di storia e di educazione civica, il bombardamento su coloro che allora erano studenti fu enorme.

Ciò non toglie che nella scuola e nei mass media si tenda a conservare, sia pure in modo stanco e ripetitiva, un’immagine al tempo stesso oleografica e ideologizzata del Risorgimento (al momento della stesura delle dispense, si può aggiungere che resta comunque vietato “parlare male di Garibaldi”, come dimostrato dalle violente polemiche contro Vittorio Messori e il Card. Giacomo Biffi).

In realtà a livello storiografico la revisione è in atto, ma deve restare, secondo la cultura dominante, circoscritta ad una innocua cerchia di accademici. Prendiamo un esempio a livello di storia militare: l’episodio di Curtatone e Montanara che fa parte della mitologia goliardica pisana. In realtà si trattò di uno scontro militare veramente insignificante, una piccola sparatoria nella quale il comandante del contingente toscano, che aveva ricevuto da Firenze l’ordine di tenere lontani dal fuoco questi giovani appartenenti alle famiglie più in vista della Toscana, decise di lasciarli un poco sfogare.

Ciò finché Radetzky avvisò il comandante toscano – tra l’altro suo amico – di ritirare il battaglione universitario  perché altrimenti lo avrebbe attaccato in modo serio.

Il legame con la vittoria piemontese del giorno dopo a Goito è indimostrabile e probabilmente inesistente. Comunque quel che è certo è che il battaglione subito dopo si sbandò e venne immediatamente sciolto.

Proseguendo il discorso dal punto di vista della storia militare bisogna dire che il Risorgimento non ebbe molti episodi gloriosi ed anzi conobbe molte pagine negative. Se si volesse dire la verità bisognerebbe riconoscere che l’episodio più significativo per valore e inferiorità di mezzi fu l’assedio di Gaeta sostenuto dal giovane re Francesco di Napoli e dalla regina Maria Sofia. Una prova di questo giudizio può essere data dalla voce dell’Enciclopedia Italiana pur scritta negli anni trenta in pieno periodo di mitologia risorgimentale.

Così scriveva il generale Baldini: “le vicende guerresche del Risorgimento provarono che gli italiani in armi erano temprati alla disciplina e al sacrificio e che gli insuccessi che talvolta furono patiti derivarono da alcune deficienze funzionali proprie degli organismi improvvisati e delle situazioni intricate”. Come si vede una maniera un po’ contorta per riconoscere l’esistenza di numerosi fallimenti.

Cosi nel 1848, quando tutta la flotta austriaca, il cui equipaggio era veneziano, si unì alle unità sarde e perciò le due flotte erano padrone dell’Adriatico, fu annunciato che sarebbe stato bloccato il porto di Trieste. Ma questo infastidiva la Confederazione tedesca la quale pose il veto e la cosa non fu fatta. Credo che siano ben pochi i libri di testo che riportano l’episodio.

E’ anche interessante constatare che alla vigilia della cosiddetta terza guerra d’indipendenza, nel 1866, l’esercito italiano aveva una superiorità militare schiacciante, da un punto di vista numerico, su quello austriaco dato che il nuovo regno stava approfittando della guerra tra la Prussia e l’Austria; altrettanto schiacciante era la superiorità della flotta italiana. Eppure Quel 1866 si concluse con le sconfitte di Custoza e di Lissa.

Non si tratta di aprire un discorso fuori luogo e in parte sbagliato sulle virtù belliche degli italiani, ma di capire che anche dal punto di vista militare, come del resto da quello politico, il Risorgimento fu il frutto, nei suoi successi come nei suoi insuccessi, di continue interferenze delle potenze europee nella storia italiana.

Si pensi all’appoggio inglese con i governi liberali guidati da Palmerston, a quello francese con Napoleone III, a quello tedesco con Bismark. Tutti sanno che lo stesso sbarco dei Mille non sarebbe mai avvenuto se non fosse stato protetto da navi inglesi. Ma allora perché non chiedersi quali solidarietà di tipo ideologico, a cominciare da quelle di stampo massonico, erano alla base di questo sostegno?

Bisogna anche segnalare che è ormai liquidata l’interpretazione di tipo economicistico secondo la quale il Risorgimento avrebbe corrisposto alle necessità e alle volontà delle parti più illuminate e avanzate della borghesia commerciale ed industriale alla ricerca di mercati più vasti. In realtà lo studio dei ceti dirigenti – per altro anche numericamente esigui – del processo unitario ci ha fatto sapere che si trattava di ceti a base fondamentalmente agraria e rurale. Questa minoranza va dunque capita in base alle matrici di natura ideologica e culturale. Ed è quindi su questo piano che va soprattutto condotta l’analisi di questo processo e di questo periodo.

Subito dopo l’unità, per dirla con Walter Maturi, venne l’epoca delle morti celebri, dei necrologi, delle commemorazioni, dei discorsi, dei monumenti, dei musei, delle lapidi che, per la verità sempre più sporche e mal tenute, ricordano qualche ‘patriota’ fucilato. Nel 1906 nacque la Società Nazionale del Risorgimento la quale dichiarava esplicitamente di avere due scopi strettamente legati fra loro: uno scientifico, studiare il Risorgimento, e uno patriottico, procedere all’educazione nazionale del popolo attraverso la divulgazione del mito.

Perché questo era necessario? Perché si sapeva bene che le grandi masse popolari erano rimaste estranee al processo unitario, o perché fedeli alla religione cattolica e alla Chiesa o perché legate a forme di radicalismo e socialismo. Tale società si trasformerà nel 1935 in Istituto Storico del Risorgimento Italiano per volontà di un ministro, già quadrunviro della marcia su Roma, il quale si piccava anche di essere storico, De Vecchi di Valcismon.

Anche in questa occasione i due scopi vennero riaffermati. Ci si prometteva, infatti, da un lato, di promuovere riviste e studi, dall’altro di svolgere tutto un programma di conferenze popolari per perseguire un ideale di educazione nazionale.

Queste notizie minori sono certo interessanti, ma è bene ora soffermarci su alcuni temi generali molto importanti. Il prologo della fine del settecento, l’epoca delle grandi reazioni popolari alle riforme illuministiche prima e al giacobinismo poi. La storiografia nazionalistica tentò di accreditare una interpretazione in gran parte falsa.

Cosi Niccolò Rodolico scriveva rivalutando questi movimenti nel suo libro Il popolo all’inizio del Risorgimento nell’Italia meridionale: “Quando  i reggitori  della Repubblica di San Marco, tremanti di paura per le minacce francesi, strappavano le gloriose insegne del leone alato e supplicavano la pace e i contadini del Veronese gridavano ‘viva San Marco’ e morivano per esso in quelle Pasque che rinnovarono i Vespri.

Quando sotto il cumulo di umiliazioni patite da prepotenti francesi e da giacobini paesani Carlo Emanuele avvilito abbandonava Torino, i montanari delle Alpi e i contadini piemontesi e monferrini continuavano disperatamente la resistenza allo straniero. Quando nella Lombardia gli austriaci si ritiravano incalzati dai francesi i contadini lombardi a Como, a Varese, a Vinasco, a Pavia osavano ribellarsi al vittorioso esercito del Bonaparte sfidando la ferocia della sua vendetta.

Quando il mite Ferdinando III di Toscana era licenziato dai nuovi padroni e i nobili fuggivano e i girella democratici improvvisati venivano fuori con la coccarda tricolore i contadini toscani insorgevano al grido di ‘viva Maria’. Quando nelle Marche scappavano generali e soldati pontifici e il vecchio pontefice arrestato era condotto vi a da Roma sua non i principi cattolici osarono protestare, non Roma papale insorse, ma i contadini dai monti della Sabina alle marine marchigiane caddero a migliaia per la loro fede e per il loro paese.

Quando vilmente il re di Napoli con cortigiani mini­stri e generali fuggiva all’avanzarsi dello Championnet soli i contadini di terra del Lavoro, i montanari degli Abruzzi, i lazzaroni di Napoli si opposero all’ invasore in una lotta disperata e sanguinosa”.

Una citazione questa ché pone il problema della natura schiettamente popolare di questi movimenti che non possono essere interpretati nel senso di una reazione nazionale contro gli stranieri, solo casualmente indirizzata in difesa delle religione e contro le idee rivoluzionarie perché queste, per una sorta di capriccio della storia, si erano venute a legare alla presenza degli stranieri. Uno storico dell’epoca, che pure aveva vissuto l’esperienza della repubblica partenopea, ma osservatore intelligente, aveva già analizzato acutamente le ragioni del fallimento di quella esperienza.

Ora questo, come si comprende facilmente, è molto imbarazzante per la storiografia ‘liberale’. Per esempio il Maturi parla di “rivolta delle plebi italiane contro i patrioti”. Si osservi il linguaggio: da una parte i patrioti che sarebbero nel giusto, dall’altra le plebi (in senso spregiativo) che si sollevano e ne provocano il fallimento.

Ma imbarazzante anche per la storiografia marxista perché il popolo si trova contro il progresso e lo sviluppo storico, anzi difende posizioni reazionarie. Certo la reazione al processo unitario fu spesso costituita piuttosto da una resistenza passiva, da una sorta di indifferenza. E’ vero però che sono da studiare ancora tanti piccoli episodi.

Per esempio nelle elezioni piemontesi del 1857-1858 (cioè nello stato ormai chiaramente avviato in una certa direzione e pieno di esuli) prevalsero quelli che sui giornali dell ‘epoca venivano chiamati i reazionari, le destre. Mentre in Francia per un secolo la causa legittimista fu fortemente presente nella storia di quel paese perché attorno ad essa si raccolsero grandissime forze, in Italia la misura di queste di nastie regionali, con l’ eccezione del Regno di Napoli, non permise un legittimismo attivo.

E’ in senso molto generico che si può parlare di una certa alleanza fra il trono e l’altare. La rivista dei gesuiti, La Civiltà Cattolica, condusse una forte polemica antiliberale ma senza dimostrare particolari rimpianti verso questi stati regionali; essi, del resto, erano a distanza di pochi decenni gli eredi diretti di quegli stati che avevano già svolto una politica di riforme ostili alla Chiesa.  Come detto bisogna fare una eccezione per ricordare quella che Carlo Alianello ha definito “la conquista del sud” nonché la successiva violenta e prolungata guerra civile che i manuali continuano a chiamare brigantaggio.

Così facendo essi recepiscono passivamente i termini usati dai manifesti piemontesi; per intendersi sarebbe come se noi oggi sui libri di storia chiamassimo banditi i partigiani perché così definiti sui manifesti nazisti. Le esecuzioni furono nell’ordine di migliaia e migliaia.

Bisogna anche riconoscere che non tutti i personaggi e i momenti del Risorgimento ebbero un orientamento anticattolico. Per esempio se si leggono le lettere dei volontari del già ricordato battaglione universitario pisano, si scopre che molti portavano il giustacuore con i colori del papa. In quel 1848 Pio IX aveva benedetto il programma di una lega o di una confederazione italica.

Risorgimento in origine significava semplicemente rinascita; così il Leopardi, negli anni 20 dell’ottocento, scriveva una poesia con questo titolo per parlare del suo sentirsi rinascere grazie al soggiorno pisano. Nel senso attuale la parola venne utilizzata da uno storico cattolico, il Balbo, il quale affermò che dopo lo sviluppo della cultura del Rinascimento era venuto il momento di uno sviluppo della civiltà italiana.

L’Italia doveva recuperare il suo primato; questo termine fu anche il titolo dell’opera più famosa del principale esponente del neoguelfismo: il Gioberti. Ma ben presto la direzione del processo fu assunta da altre componenti, anche se queste trovarono un certo seguito in alcune fasce cattoliche liberali spesso influenzate dal giansenismo.

Più in generale l’unità d’Italia negli interventi, nelle parole, nelle azioni dei protagonisti del Risorgimento sembra essere molto spesso non un fine ma un mezzo per condurre una battaglia di tipo illuministico-progressista contro la Chiesa. Nel 1855 Cavour, riuscito con un’abile manovra parlamentare a far fuori D’Azeglio e a costituire una sua maggioranza che oggi definiremmo di centro-sinistra, fece votare per il Regno di Sardegna un complesso di leggi che abolivano molte congregazioni religiose e confiscavano buona parte delle proprietà ecclesiastiche.

Il re Vittorio Emanuele, colpito da molti lutti familiari nei quali i reazionari vedevano un segno dell’ira di Dio, si rivolse al vescovo di Casale che era anche senatore. Questi, consultatosi con Roma, propose un progetto che risolveva meglio i problemi finanziari dello stato sabaudo che erano stati addotti come pretesto. Allora Cavour e i suoi dovettero riconoscere che la questione era di principio e non finanziaria. Siamo all’inizio di una politica aggressiva e anticlericale.

L’ultimo discorso parlamentare di Cavour (spesso presentato come un puro sostenitore della separazione tra Chiesa e stato) indicava la conquista di Roma come inizio di una rigenerazione universale. Come per la Rivoluzione Francese, non si voleva limitare le competenze della Chiesa, bensì essere i promotori di un suo rinnovamento in senso liberale e democratico; la reazione della Chiesa si manifesterà col Concilio Vaticano I. Su questo punto erano pienamente d’accordo Mazzini e Garibaldi. La divergenza era sul piano istituzionale.

Ora, soprattutto nell’Italia meridionale, le proprietà della Chiesa svolgevano una insostituibile funzione assistenziale ed educativa. Il programma di diffusione della proprietà privata a danno di questi beni o dei beni comunali di uso collettivo, fu portato avanti da gruppi sociali in ascesa i quali, legatisi così per interesse al processo unitario, divennero puntello locale della conquista. Ciò è ben descritto in romanzi come L’eredità della priora di Alianello o il Gattopardo di Tommasi di Lampedusa.

Nel 1925 uscirono contemporaneamente due libri sulla massoneria e il Risorgimento. Uno opera di uno storico di ottima formazione e di buoni studi negli archivi austriaci, il Luzio; filorisorgimentale ma ferocemente anti massonico, questi negava l’influenza della massoneria sul Risorgimento.

L’altro libro era invece opera del Leti, storico massonico e tendeva anche in maniera eccessiva a dimostrare la tesi contraria. E’ certo che in qualche caso la massoneria può aver tentato di attribuirsi più “meriti” di quelli reali. Ma è anche certo che subito dopo l’unità l’importanza della massoneria è al massimo: non si arriva al governo se non si è massoni e le logge sono una specie di scuola preparatoria del ceto di governo

In precedenza la massoneria, che in Italia aveva avuto un grande impulso da Napoleone (Giuseppe Bonaparte fu gran maestro della massoneria francese), era precedentemente molto diffusa tra i funzionari e tra gli ufficiali dell’esercito. La carboneria era una filiazione diretta della massoneria e fu la protagonista dei primi moti risorgimentali.

Si può cosi comprendere quanto detto prima sull’appoggio internazionale al Risorgimento. In Inghilterra i mass-media dell’epoca riuscirono a creare un’opinione favorevole al processo rivoluzionario italiano visto tanto più favorevolmente quanto più ostile al papato. Sarebbe interessante studiare gli aspetti millenaristici dell’ideologia del Risorgimento, il quale avrebbe dovuto avviare dall’Italia un rinnovamento del mondo.

E’ questo l’aspetto gnostico di gran parte del clima del Risorgimento, cui succederà alla fine del secolo un analogo sogno di un mondo nuovo, questa volta però in chiave marxista.

Un personaggio come Filippo Buonarroti è un buon esempio della continuità delle sette: aveva fatto parte della “congiura degli uguali’. di Gracco Babeuf, si dette un gran daffare nelle prime sette dell ‘età della restaurazione e si legò poi a Mazzini. D’altra parte lo stesso Mazzini non era contrario alle congiure e al terrorismo, ma sosteneva soltanto la necessità di un’azione più pubblica.