I 15 anni del Comitato Nazionale di Bioetica e la questione della dignità

comitato_naz_bioeticaZENIT (ZENIT.org) Il mondo visto da Roma  Servizio quotidiano  – 12 dicembre 2005

ROMA _ Di seguito pubblichiamo per la rubrica di Bioetica l’intervento della dottoressa Claudia Navarini, docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.

Dal 30 novembre al 3 dicembre 2005 si è svolto a Roma il Convegno di Studio su “Il Comitato Nazionale per la Bioetica: 1990-2005. Quindici anni di impegno”. I relatori, tutti membri attuali o passati del CNB, hanno delineato – secondo le loro specifiche competenze e il loro ruolo – le problematiche etiche su cui il Comitato è stato chiamato in questi anni a riflettere, supportando le procedure legislative, enucleando le basi scientifiche, giuridiche, filosofiche e sociali delle questioni bioetiche, accompagnando e orientando, talora anticipando, il dibattito pubblico

Fra i numerosi temi affrontati assume particolare rilievo la questione della dignità – o del valore – della vita umana, di straordinaria urgenza quando si è chiamati a pronunciarsi sulla vita umana negli “estremi” del nascere e del morire. E in questi ultimi anni i confini della vita dell’uomo sono divenuti un argomento di cui non si può tacere, per le pesanti minacce che gravano proprio sul riconoscimento della dignità dei più deboli fra noi, ovvero quelli che non hanno ancora visto la luce e quelli che stanno per spegnersi.

Il CNB, come è noto, è un organo consultivo di composizione pluralista, nominato per la prima volta il 28 marzo 1990 con Decreto del Presidente del Consiglio (On. G. Andreotti) allo scopo di “elaborare […] un quadro riassuntivo dei programmi, degli obiettivi e dei risultati della ricerca e della sperimentazione nel campo delle scienze della vita e della salute dell’uomo; formulare pareri ed indicare soluzioni” sia di tipo legislativo che socio-ambientale (A. Bompiani, Come è nato il Comitato Nazionale per la Bioetica, in Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Comitato Nazionale per la Bioetica: 1990-2005. Quindici anni di impegno. Materiali Congressuali, Roma, 30 novembre – 3 dicembre 2005, pp. 96-97).

Va da sé, quindi, che rispetto al problema del valore della vita umana le posizioni all’interno del CNB rispecchiano le prospettive etiche e antropologiche dei suoi membri. Le principali sono indicate chiaramente da Mons. Elio Sgreccia nel suo contributo sulla bioetica personalista, che individua tre significati di persona:

a) “il significato soggettivista della persona: per persona si intende il soggetto umano, inteso come entità autonoma, capacità di autodeterminazione e di esercizio intellettuale. […] Secondo questa corrente di pensiero all’individuo si riconosce la qualità di persona quando è ‘agente morale’, dunque quando ha la capacità di porsi eticamente nella comunità contraente” (E. Sgreccia, Bioetica personalista, op. cit., p. 489);

b) “Una seconda posizione valutativa […] è la posizione sensista-funzionalista. […] Il riconoscimento della persona umana si identifica con il momento dell’inizio dell’attività percettiva: persona è il soggetto percipiente che, quantomeno, percepisce il piacere e il dolore, le preferenze e le sofferenze” (ibidem);

c) “Esiste poi una concezione forte di persona, […] quella del personalismo che riconosce nel soggetto umano un fondamento ontologico e metafisico” (ibid. , p. 490). La dimensione personale, e dunque la dignità personale, sono implicate dalla presenza di una natura umana, che è una natura di tipo razionale, indipendentemente dalle singole manifestazioni di razionalità.

Esaminando i documenti nei quali viene a tema la questione, Sgreccia non può fare a meno di osservare che “il significato forte, quello del personalismo ontologico, riceve in tutti i documenti i consensi più numerosi e più influenti nelle conclusioni finali; […] nei documenti riferiti al morente e ai temi dell’eutanasia, questo significato forte è pressoché l’unico a fare da riferimento, anche laddove il termine non è collegato a richiami di fede religiosa” (ibid. , p. 500).

Questa conclusione può sorprendere, in un tempo in cui la gran parte dei mezzi di informazione giudica integralista chiunque difenda l’idea dell’esistenza della dimensione personale dal concepimento alla morte. Eppure, in nessun documento, a seguito di lunghe e serrate discussioni, il CNB è riuscito a discostarsi molto da tale visione. E non certo per “sudditanza” nei confronti della Chiesa Cattolica, o per dipendenza psicologica da una visione tradizionale del mondo che ancora incatenerebbe la cultura italiana, ma per onestà intellettuale di fronte a dati di ragione a tutti accessibili.

Ne è una prova eloquente il documento pubblicato dal CNB nel 1996 (Identità e statuto dell’embrione umano), su cui si sofferma la relazione di Evandro Agazzi. Il Comitato, dopo avere distinto una visione funzionalista ed una sostanzialista della persona (corrispondente a quella ontologica di cui parla Sgreccia), ammetteva che quella funzionalista “introduce di fatto una discriminazione fra gli esseri umani in base a ciò che essi hanno o sono capaci di fare, anzi che tener conto di ciò che essi sono” (E. Agazzi, Lo statuto dell’embrione umano, op. cit., p. 10), optando quindi unanimemente per la seconda via.

E continuava: “È apparso quindi del tutto sufficiente far riferimento alla natura umana per affermare il dovere morale di rispettare la dignità della persona, in quanto ogni individuo di natura umana è persona” (ibidem). La conclusione unanime del CNB è stata che l’embrione appartiene alla specie umana, e non è una semplice “cosa”. Inoltre, fatti salvi alcuni orientamenti differenti esplicitati nelle note finali, è stata affermata la convinzione che “l’identità personale dell’embrione esista sin dalla fecondazione (o con certezza o con elevato grado di plausibilità), […] altri hanno considerato tale questione in decidibile, ma comunque tale da indurre a trattare l’embrione come persona” (ibid. , p. 12).

Ciò che secondo Agazzi continua a costituire un problema, tuttavia, è “la transizione dal piano ontologico al piano morale” (ibidem). Se a tutti è parso chiaro che la vita umana, anche quella dell’embrione, ha valore, non tutti concordano sul fatto che tale valore – a dire il vero qualunque valore – comporti doveri assoluti. Per alcuni membri del Comitato, cioè, il dovere di rispettare la vita e l’integrità dell’embrione deve essere bilanciato con gli altri valori eventualmente in gioco, anzi in conflitto. In tale contesto, anche la soppressione di embrioni potrebbe essere ammissibile.

Viene da chiedersi – ma ciò non è oggetto delle riflessioni di Agazzi – quale valore possa non essere soggetto a tale logica mercantile. Evidentemente nessuno, se tale prospettiva è portata avanti con coerenza fino in fondo. Ma allora, viene anche da chiedersi chi di noi possa mai sentirsi al sicuro in questo bizzarro mondo di uomini che agiscono “moralmente” solo per un calcolo favorevole, e non per l’adesione ad una legge più profonda dei contratti umani, che è la legge morale naturale, quella che ci fa indignare comunque di fronte a mali come l’omicidio, il furto, la violenza e la menzogna.

Il punto è, come nota Paola Binetti nel suo contributo sul suicidio, che “la vita ha un valore fondativo ed è un valore in sé, che merita rispetto ed esige tutela. Non a caso la collocazione specifica della bioetica sta tra il sapere delle scienze biologiche e il sapere etico, perché è suo compito mantenere viva la consapevolezza che la vita – bios – è punto di partenza di ogni riflessione sull’uomo e impronta la valutazione etica di tutti i comportamenti che a lei si riferiscono. Ciò che rende uomo l’uomo è il fatto che sia vivo, che abbia una precisa dimensione biologica” (P. Binetti, Il suicidio, op. cit., pp. 82-83).

È in virtù di tale identità biologica, cui corrisponde puntualmente l’identità ontologica, che si può correttamente parlare del principio di “uguaglianza” – appunto biologica e ontologica – fra tutti gli esseri umani. Osserva Carlo Casini: “l’eguaglianza rivela il contenuto misterioso della dignità. Perché se il valore (la ‘dignità’) è uguale per qualsiasi membro della famiglia umana, allora vuol dire che le qualità (salute, intelligenza, attitudini, bellezza, etc.) non pesano niente in rapporto al semplice fatto di esistere come individuo della specie umana. È l’appartenenza alla specie umana che costituisce il valore sommo e tale da non essere graduabile in termini di quantità, né commensurabile in rapporto alle varie qualità dell’esistere” (C. Casini, La clonazione, op. cit., p. 139).

La stessa teoria dei diritti umani, correttamente intesa, scaturisce da questi presupposti, come pure l’idea di giustizia e la stessa libertà. Come si può vedere, la riflessione del Comitato Nazionale per la Bioetica, in quindici anni di lavoro scientifico serio, “laico” e “pluralista”, non ha potuto né voluto, tranne poche eccezioni, negare il valore intrinseco di ogni vita umana dal concepimento alla morte. E ciò per la ragion d’essere del Comitato stesso, che è quella di auctoritas.

Lo spiega bene il Presidente del CNB, Francesco D’Agostino: “I Comitati […] non hanno – e non devono avere – un imperium: ciò che loro spetta e a cui non potrebbero rinunciare, se non al prezzo di tradire la loro stessa ragion d’essere, è un’auctoritas. […] Se sul piano meramente fattuale è l’imperium ad avere un primato, sul piano assiologico tale primato appartiene all’auctoritas” (F. D’Agostino, Elogio del Comitato Nazionale per la Bioetica, op. cit., pp. 166-167).

Allora, se la visione personalista dell’embrione e del feto, o comunque quella che riconosce loro una dignità e un dovere pubblico di protezione, è autorevole, non stupirà più tanto, e forse scandalizzerà di meno, il modo in cui il quotidiano romano “Il Tempo” ha tentato di spiegare efficacemente il valore della vita umana nascente, e cioè la pubblicazione dell’immagine di un feto abortito a dieci settimane.

Si tratta, come spiega a più riprese il direttore Franco Bechis – sollecitato dagli interventi critici di Marco Taradash e Silvio Viale – di tenere in conto un fatto fondamentale e ineliminabile, presente sullo sfondo di tutti i tortuosi discorsi sull’aborto che infiammano da settimane l’opinione pubblica: c’è un soggetto umano, cioè l’abortito, il bambino, che viene troppo spesso rimosso dalle valutazioni in gioco, e la cui vista aiuta invece a rimettere ordine, a capire meglio che cosa significhi veramente “interrompere la gravidanza”.

Non è “una procedura” da sbrigare in fretta perché “il tempo stringe” – e se stringe con l’aborto classico figuriamoci con quello farmacologico, in barba a tutte le promesse di rispettare le “precauzioni” previste dalla legge 194 – ; non è un problema di cui sbarazzarsi per tornare “liberi” (cfr. G. Grifeo e A. Pietromarchi, I soldi non bastano, Alessandra è incinta, “Il Tempo”, 9 dicembre 2005); non è nemmeno primariamente un dramma femminile.

È invece una tragedia infantile, o meglio embrio-fetale. Perché il problema, quello vero, resta la semplice verità per cui un essere umano nel ventre materno, che – lo dice autorevolmente il CNB – “è un nostro simile”, può essere facilmente ucciso proprio da chi lo porta in grembo con l’ausilio dei medici (i “curanti”!) e con il beneplacito dello Stato.

[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: bioetica@zenit.org. La dottoressa Navarini risponderà personalmente in forma pubblica e privata ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]  ZI05121201