Il colonialismo (titolo redazionale)

colonialismoRubrica Vivaio su Avvenire del 2 settembre

Tra i capisaldi della mentalità corrente c’è la credenza in quello che i francesi chiamano Le Grand Pillage, il “Grande Saccheggio” che avrebbe permesso all’Occidente di impossessarsi di mezzi non suoi per costruire su questi le sue fortune.  Come spesso avviene, nessuno si cura di verificare se lo schema in questione abbia una base reale o non sia, per caso, uno dei tanti miti contemporanei.

di Vittorio Messori

Con la fine di agosto, finisce anche la relativa pausa estiva di questa rubrica: dal solo appuntamento domenicale, si torna all’abituale ritmo trisettimanale. Dunque, da dopodomani, 4 settembre, “Vivaio” sarà di nuovo pubblicato anche il martedì e il giovedì.

Si dice che, con la fine dei blocchi contrapposti (capitalismo a Ovest, comunismo a Est) la vera contrapposizione del mondo è, e sarà sempre più, quella tra un Nord “benestante” e un Sud miserabile. E non da oggi si afferma che il benessere di quello è dovuto anche alla rapina delle risorse di questo.

Tra i capisaldi della mentalità corrente c’è la credenza in quello che i francesi chiamano Le Grand Pillage, il “Grande Saccheggio” che avrebbe permesso all’Occidente di impossessarsi di mezzi non suoi per costruire su questi le sue fortune.Tutto il “terzomondismo” prima di scuola marxista (anche se, su questo tema. Marx fu più cauto di Lenin) e poi anche di tanti ambienti cristiani, si basa su questo schema: il Nord del mondo ricco perché rapinatore, il Sud povero perché rapinato. Da qui, anche, il “mea culpa” che a tutti noi, “bianchi”, viene chiesto di recitare.

Come spesso avviene, nessuno si cura di verificare se lo schema in questione abbia una base reale o non sia, per caso, uno dei tanti miti contemporanei.

Qualche tempo fa, per incarico del College d’Europe, il belga Léo Moulin (ben noto anche ai cattolici per i suoi studi fondamentali sul monachesimo) ha provato a confrontarsi con i dati concreti di un problema che diventerà sempre più attuale. Le conclusioni dello studioso confermano quanto sospettavano coloro che rifiutano di accettare acriticamente gli slogan: quello del “Grande Saccheggio” è in gran parte un mito, probabilmente l’Occidente ha dato alle altre zone del mondo più di quanto non ne abbia ricavato.

Dunque, sia la contrizione del Nord sia le recriminazioni quando non certo vittimismo del Sud non hanno precisa giustificazione storica: le cause dello sviluppo e del sottosviluppo vanno ricercate altrove che nel mito del “saccheggio”

Innanzitutto, Moulin fa i conti in tasca all’interscambio, sin dai tempi del medio Evo, tra Europa e Medio oriente, nei cui porti giungevano le merci e i prodotti di Asia e di Africa che non solo il desiderio di lusso ma anche le esigenze vitali (le spezie, per esempio, per conservare i cibi) degli Occidentali reclamavano.

Quell’interscambio fu ampiamente deficitario per l’Europa la quale «sanguina per arricchire l’Asia», come diceva, ancora alla fine del Cinquecento, l’inglese Thomas Roe. Osserva ancora Moulin che «si dimentica che per secoli l’Occidente si è svuotato del suo oro per comprare dall’Oriente, spesso a prezzi da strozzinaggio e pagando dazi, gabelle, taglie. E questo non solo nel Medio Evo: anche quando i Portoghesi e gli Olandesi apparvero nei mari asiatici e rischiando ogni volta la vita, assicurarono il traffico con il Giappone, Sumatra, l’Indocina e l’Arabia, i maggiori vantaggi del commercio restarono  tra le mani dei mercati astuti  e sedentari di quei lontani Paesi.

Prelevando diritti di mediazione sino al 75 per cento del valore delle merci, gli indiani si arricchirono favolosamente, senza però che l’economia del loro Paese  ne approfittasse in qualche modo»

C’è poi il “caso americano” ma, come scrive ancora lo studioso belga, «i tesori delle Indie occidentali furono ben lontani dall’esercitare gli effetti decisivi che si immaginano. Anche perché in tutta la produzione americana d’oro tra il 1520 e il 1660  fu inferiore alla produzione attuale di un solo anno delle sole miniere sudafricane».

C’è poi da notare che quel metallo fu estratto grazie a tecniche che solo gli europei conoscevano o che inventarono sotto la spinta delle necessità. Si sa, infatti, che i nativi non utilizzavano che quelle poche quantità di argento e di oro che affioravano in superficie o che erano altrettanto facilmente estraibili.

Dunque, per parlare con precisione, non si trattò di “rapina”, visto che le genti del posto non avevano né capacita né. spesso, interesse e desiderio di procurarsi quel metallo a prezzo di ricerche, di fatiche, di elaborazioni tecnologiche. In ogni caso, come tutti sanno, quei “tesori” non fecero la fortuna ma il disastro della Spagna e del Portogallo, portando a una gigantesca inflazione. In ogni caso, stando sempre alle cifre di Moulin, ciò che gli iberici portarono oltre Oceano, sotto forma di manufatti, quasi pareggia le entrate ricavate dal Nuovo Mondo.

C’è poi la fase del “colonialismo” vero e proprio, di quel moderno “imperialismo” contro il quale si appuntano gli strali della polemica terzomondista, anche cattolica. Quella nuova fase comincia con il 1830, quando la Francia conquista l’Algeria, strappandola al dominio turco.

A lungo l’esempio francese restò isolato e l’espansione coloniale europea non cominciò che alcuni decenni dopo. Come ricorda Moulin, spesso siamo vittime di una sorta di illusione ottica che ci impedisce di ricordare che l’era del colonialismo europeo in Africa e in Asia fu assai breve: il suo apogeo, con la spartizione di quei due Continenti in “zone di influenza” tra le potenze europee è al Congresso di Berlino, nel 1884.

Ma già trent’anni dopo, nel 1914, comincia la fine e la conquista italiana dell’Etiopia, nel 1936, è già terribilmente anacronistica. Ma fu, almeno, quella brevissima stagione del “colonialismo”, tanto proficua per l’Europa da far pensare a una rapina dei cui frutti ancora vivremmo? Moulin non solo ne dubita ma, cifre alla mano, sembra escluderlo.

Ancor più di quanto non fosse avvenuto in America, anche in Africa e in Asia gli Europei diedero una violenta accelerazione a economie stagnanti, portando nuove  tecniche, introducendo coltivazioni sconosciute, creando una infrastruttura  di strade, ferrovie, porti. Se dura fu la sorte dei colonizzati, duro – e spesso mortale – fu il destino dei colonizzatori, costretti a vivere in climi e tra malattie e pericoli sconosciuti.

Casi come quello  del tardivo colonialismo  italiano non solo non furono di vantaggio economico ma si rivelarono in vero salasso per la Madrepatria. E’ certo che Libia, Eritrea, Somalia e poi Etiopia costarono infinitamente di più di quanto non abbiano reso. E il belga Moulin cita il caso del Congo: perderlo significò per il Belgio un aumento del reddito nazionale. Lo stesso per l’Olanda, padrona delle opulente isole asiatiche, e che proprio con la decolonizzazione vide uno sviluppo impetuoso. Per non parlare del fatto che i più alti redditi si registrarono in due Paesi europei che mai ebbero colonie: Svizzera e Svezia.

Se va dunque rivisto lo slogan del “Grande Saccheggio”, va valutata con l’attenzione e la serietà che merita l’osservazione spesso ripetuta da quel conoscitore vero, sul campo ben prima che sui libri, e da quel nemico degli schemi ideologici alla moda che è padre Piero Gheddo. Il quale costata che i Paesi del terzo Mondo che se la passano meglio sono quelli che più a lungo hanno avuto il dominio coloniale europeo e che, dopo l’indipendenza, non hanno rotto i contatti con l’Occidente.

Il che, ovviamente, non significa ignorare o dimenticare il lato oscuro della espansione europea del passato e i guasti (forse ancora peggiori, perché più occulti) di certo brutale neo-colonialismo di oggi. Ma se solo la verità fa liberi, solo il superamento di slogan propagandistici o demagogici può «liberare» il mondo dal sottosviluppo, ricercandone le cause vere. Che non stanno nell’avidità o nel cinismo di noi, “uomini bianchi” dell’Occidente.