Il ’68 e il sogno del male

  sessantottoPepe. Giornale di provocazione e passione umana,

anno II, luglio 2004, p. 1.4.

Molti nostalgici del ’68 giustificano tutto quello che hanno fatto nel loro passato e soprattutto cercano di distinguersi dai terroristi neri e rossi che hanno insanguinato l’Italia negli anni ’70, con una serie di variazioni su un unico tema: “noi eravamo dei sognatori”. Molto spesso aggiungono che le generazioni dopo di loro non sono capaci di sognare. Ma cosa sognavano i nostri padri? Quelli che hanno fatto il ’68? Si può proprio dire che sognassero il Male.

“Definiscimi Male”. Il Male, quello con la M maiuscola, sono 2 milioni di Cambogiani sterminati dai Khmer Rossi (formatisi nel ’68 parigino): un terzo della loro popolazione uccisa a sangue freddo. Il Male sono i 27 milioni di Cinesi morti per la carestia provocata dalle politiche di collettivizzazione, o i due milioni di assassinati a sangue freddo durante la Rivoluzione Culturale.

Il Male è il leader di un Paese che pronuncia frasi come: “Abbiamo fatto seppellire vivi 46.000 intellettuali dissidenti” vantandosene; o un altro leader che proclama: “basta 1 milione di uomini per fare la rivoluzione: gli altri devono morire tutti”.

Il Male, per chi non lo avesse capito, è il totalitarismo. Non è solo il totalitarismo comunista, perché nel ’68 si sognavano e si progettavano regimi per tutti i gusti. Chi non sognava il comunismo cinese, sognava il comunismo sovietico, chi non sognava neanche quello, sognava un regime che tornasse al […] al nazismo, o al fascismo “sociale”, cioè quello più duro e criminale.

Ci furono persino dei nazimaoisti, dei sinceri totalitari a tutto tondo e senza pregiudizi per il totalitarismo solo di destra o solo di sinistra: Mao o Hitler, purché si stermini. Una volta ne avevo incontrato anche uno, ancora convinto: “Il vero Individuo era Mao” mi disse. “E gli altri milioni che sono sottoposti al potere dell’Individuo?” “Esistono come sua funzione”.

Ecco cos’è il male: usare l’uomo come fosse un mattone inanimato, da incastonare nel muro di una società nuova. Se il mattone non ci sta, si elimina; se per fare la nuova società bastano pochi mattoni, tutti gli altri devono essere distrutti. E’ il trionfo dell’annullamento dell’uomo, delle sue idee e delle sue passioni.

Si può obiettare che nel ’68 vi fu un’esplosione di creatività individuale, di progetti, di musica e di arte nuova. Non vuol dire. Anzi: forse quello era un sintomo che il Male stava avanzando. Chi non vede le somiglianze con gli anni ’10 e ’20? Anche in quel decennio, alla vigilia della I Guerra Mondiale e dell’affermarsi dei primi regimi totalitari c’era un gran fermento artistico, anche più esteso rispetto a quello degli anni ’60 e ’70.

Gli artisti, molto spesso, si danno un gran daffare a distruggere tutto ciò che era codificato dall’ordine costituito nella speranza che nasca un uomo nuovo. Essi non sanno, poveri illusi, che invece di “mettersi al servizio del futuro” come credono, si dovranno mettere al servizio di un dittatore. E lo dovranno pure incensare, a costo della loro stessa vita. Così capitò ai futuristi russi e italiani e così, probabilmente, sarebbe capitato ai vari Jimmy Hendricks ed Andy Warhol, se i sogni degli utopisti sessantottini fossero andati a buon fine.

Si dice che il ’68 fu un anno di liberazione sessuale, di libertà dalla famiglia. Anche questo non vuol dir nulla: tutti i regimi totalitari si sono preoccupati di separare l’individuo dalla famiglia, ma non per la sua libertà. Quando non resta più nessuno da amare, all’individuo rimasto solo non resta che amare lo Stato e il Partito.

Resta il fatto che, nel ’68, la gente, molta gente, la gente più sensibile e più impegnata, voleva sottomettersi a un regime totalitario. Se ne rendevano conto? La maggior parte dice di no. Ma dobbiamo proprio crederci? Ci furono intellettuali italiani che andarono in Cina a godere: a godere nel vedere gli “intellettuali” e i “ricchi” scavare fosse e riempirle di nuovo nei campi di “rieducazione” e ce ne furono anche altri che godevano nell’assistere alle esecuzioni di massa negli stadi, per poi tornare in patria per esporre i progressi che la “giustizia proletaria” stava facendo.

Questi uomini e queste donne furono una minoranza. La maggior parte dei sessantottini, forse, non calcolava abbastanza le conseguenze orrende della propria scelta, ma sempre di scelta consapevole si parla.

Tutti i sessantottini volevano, consapevolmente, sfuggire alla società aperta e al capitalismo, per rifugiarsi in una “comoda” identità collettiva, in un gruppo, dove puoi essere accettato, ma puoi anche essere epurato, dove qualsiasi scelta non viene compiuta dall’individuo (come avviene nel capitalismo), non viene pagata dall’individuo, ma è presa dal gruppo o dal suo capo nel nome del gruppo; dove l’avere successo o meno non dipende più dalla propria abilità, né dalla propria fortuna, ma dalla decisione di un capo, presa, nel migliore dei modi, in base alle idee che dominano il gruppo, nel peggiore, in base al suo capriccio.

Venti anni di diseducazione economica, nelle facoltà di economia dove si insegnavano le dottrine di John Maynard Keynes e dei suoi allievi, avevano creato l’illusione di poter fuggire alla logica del libero mercato e di poter aumentare il benessere di un popolo con politiche appropriate.

La sempre presente influenza sovietica e la Rivoluzione Culturale in Cina avevano fatto pensare qualcosa di ancora peggiore: che il benessere potesse crescere dalla bocca di un fucile, che eliminando fisicamente i “cattivi” si potesse creare una società buona. E così via coi sogni: chi sognava di demolire il capitalismo per costruire una società futura dove la lotta di classe si estingueva con l’estinzione dei borghesi; chi sognava di demolire il capitalismo con il ritorno a società più primitive, pre-moderne, castali, senza denaro e senza libertà.

Questo fu il “sogno” chiamato ’68.