Felice e compagni

“cercate ogni giorno il volto dei santi e traete conforto dai loro discorsi”

[Didaché IV, 2; CN ed., Roma 1978, pag. 32].

Felice

di Rino Cammilleri

Una delle più tremende persecuzioni che i cattolici abbiano sofferto non fu quella di Diocleziano, ma la vandalica. Se ci affidiamo alle crude statistiche e paragoniamo le vittime alla popolazione complessiva di allora, emergono percentuali da genocidio (ma non c’è da sperare in film e premi Oscar che ne mantengano viva la memoria).

Nel 482 il re vandalo Unnerico fece arrestare 4.975 persone: preti, monaci e laici. Tra essi, molti erano vecchi ormai ciechi e malati, altri erano ancora lattanti. A marce forzate furono deportati a Mustis, tra Cartagine e la Numidia. Qui furono divisi in due gruppi e convogliati a Sicca Veneria e a Larium Colonia.

Il capo morale dello straziante corteo era il vecchio Felice, vescovo di Abbir Maior. Completamente paralizzato, veniva portato a braccia dai compagni di sventura. La marcia era compiuta di notte, per evitare il sole africano (ma il riguardo era per i soli soldati di scorta). Arrivati a destinazione, le autorità cercarono di fare aderire i deportati all’arianesimo. Ma tutti, indistintamente, rifiutarono.

Furono allora condannati a essere condotti nel deserto per esservi venduti come schiavi ai Mauri. Nel frattempo, li ammassarono come bestie in celle strettissime, rese più crudeli dall’estate africana. Alcuni cristiani locali, corrompendo le guardie, riuscirono a portare loro un po’ d’acqua e cibo. Avviati verso sud, furono presi in consegna dai Mauri che li fecero camminare a frustate. Quelli non in grado di proseguire venivano legati per i piedi e trascinati sulle, rocce. Dei pochi che riuscirono a giungere a destinazione non si ebbe più notizia.

 il Giornale12 ottobre 1999