Metz Yeghern, il Grande Male (seconda parte)

Pubblicato su Nuova Umanità n.159-160 maggio-agosto 2005
metz yeghern

 di Giovanni Guaita

LA TRAGEDIA DEL 1915

È dunque tra il dicembre 1914 e i primi due mesi dell’anno successivo che i responsabili del partito dei «Giovani Turchi», considerato l’andamento della guerra e le sconfitte riportate sul fronte russo, decidono di dare una svolta molto più decisiva al genocidio degli armeni in corso, e farla finita una volta per tutte con il “nemico interno”. Nel gennaio 1915 in una riunione segreta si discutono i piani concreti di sterminio: i dirigenti del partito e dello Stato, presenti al completo, votano all’unanimità per il «pieno annientamento di tutti gli armeni, senza esclusione di alcuno».

Tutte le organizzazioni e i giornali armeni sono immediatamente vietati, scuole, ditte e negozi armeni vengono chiusi. Con la scusa di una nuova mobilitazione, gli uomini armeni precedentemente dichiarati inabili al servizio militare sono chiamati alle armi e subito eliminati. In tutte le province i soldati perquisiscono i quartieri armeni alla ricerca di armi; le perquisizioni generano ruberie, torture e violenze di ogni genere. In diversi luoghi le autorità arrestano l’intellighenzia armena, clero, notabili, scrittori, medici, leader politici.

armenian genocide 5Per aver le mani libere, il 13 marzo il Parlamento è liquidato, sotto il pretesto che alcuni deputati e senatori avrebbero diffuso notizie segrete concernenti l’Organizzazione Speciale. Secondo la Costituzione in vigore, in assenza del Parlamento, le leggi possono essere promulgate dal governo. Nello stesso mese il partito da corso alle deportazioni: per primi sono evacuati gli armeni della città di Zeytun. In tal modo, la deportazione inizia in una zona lontanissima dal fronte e dalla Russia, il che prova la falsità delle giustificazioni delle stragi, più tardi date dall’Ittihad.

Ai primi di aprile nella città di Van arriva un nuovo governatore turco, resosi tristemente celebre per la crudeltà con cui ha perseguitato i cristiani in Persia: Djevdet Bey, cognato di Enver pasha, soprannominato «il maniscalco di Bashkalè» per aver escogitato un nuovo metodo di tortura, quello di inchiodare ai piedi delle vittime armene ferri di cavallo… In brevissimo tempo, egli compie atrocità inaudite in tutta la regione.

La popolazione insorge sotto la guida di Aram Manukian e il 7 aprile scaccia amministratori e soldati turchi. Subito la città è assediata da truppe di curdi e bombardata dall’artiglieria turca. Quando la situazione sta diventando critica per gli insorti a causa della mancanza di viveri e munizioni, il 16 maggio l’esercito russo, con un gran numero di volontari armeni di Russia, libera Van.

I russi nominano Aram Manukian governatore della regione. L’autonomia di Van dura però solo fino all’estate: a fine luglio 1915, infatti, i russi si ritirano da Van, portando con sé da 200.000 a 300.000 profughi armeni. Intanto, la ribellione di Van è subito utilizzata dai turchi per giustificare le deportazioni e le altre misure del governo contro gli armeni.

Già nell’aprile 1915 il ministro degli Interni Talaat emana una risoluzione in cui gli armeni sono decretati «agenti russi e nemici dell’impero ottomano», che ottiene l’avallo del ministro della guerra Enver e della marina Djemal. Così, con la primavera si estendono le esecuzioni di massa e le deportazioni. All’inizio, molti armeni di varie province dell’Anatolia sono arrestati e impiccati nelle piazze pubbliche per terrorizzare la popolazione.

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bambini armeni stremati durante la deportazione

Nella notte tra il venerdì 23 e il sabato 24 aprile (e poi dal 24 al 28) è arrestata l’intellighenzia armena di Istanbul: più di 600 tra scrittori, artisti, avvocati, ecclesiastici, accusati di essere all’origine della ribellione di Van. L’operazione prosegue nei giorni seguenti, e in un mese il numero degli armeni imprigionati arriva, secondo l’opinione di alcuni storici, a 2.345; tra di essi il poeta Daniel Varuzhan (30) e il deputato al Parlamento e scrittore Krikor Zohrab, che era sempre stato in buoni rapporti con lo stesso Talaat.

Essi sono portati lontano dalla capitale, verso l’interno dell’Anatolia, e uccisi. Privata dell’intellighenzia, del clero e della classe politica, la nazione armena di Turchia si ritrova così come decapitata.

La data del 24 aprile resterà come un giorno nero nella storia nazionale: gli armeni di tutto il mondo ogni anno in questa data ricordano il Metz Yeghern, cioè il «Grande Male» della nazione, con una giornata di riflessione e manifestazioni per denunciare all’opinione pubblica mondiale questa tragedia passata sotto silenzio. La Chiesa armena ne ha fatto una giornata di preghiera e di memoria delle vittime del genocidio.

Il genocidio della popolazione armena, già in corso dai tempi di Abdul-Hamid II, prende ora proporzioni e ritmo senza precedenti. Le deportazioni che, a partire dalle province orientali, seguono immediatamente questi fatti della capitale, ripeteranno tutte lo stesso copione: da principio sono arrestati i notabili; a questi sono estorte sotto tortura confessioni di colpe non commesse e di complotti a danno dello Stato. Fa seguito l’ordine di deportazione per la popolazione; a volte si da agli sventurati qualche giorno o qualche ora per raccogliere le proprie cose; gli uomini adulti sono subito fucilati fuori città, mentre donne, anziani e bambini sono deportati.

Benché il corpo diplomatico in Turchia risiedesse quasi soltanto a Istanbul e Smirne, dove le violenze contro gli armeni furono ben celate, i commercianti e soprattutto i missionari stranieri erano presenti un po’ dappertutto. In tal modo in Europa e negli Stati Uniti giunge subito eco di quanto sta succedendo. Anche in Germania, nonostante lo Stato, alleato ai turchi, faccia di tutto per fingere di ignorare e nascondere i crimini dell’Ittihad, soldati e missionari cominciano a diffondere voci sugli avvenimenti.

Così il 24 maggio, su iniziativa della Russia, le potenze dell’Intesa ingiungono alla Turchia di porre fine ai massacri, pubblicando contemporaneamente (a Pietroburgo, Parigi e Londra) una Dichiarazione in cui gli avvenimenti in corso sono definiti «crimini contro l’umanità e la civiltà», e in cui i tre Stati firmatari minacciano di ritenere personalmente responsabili di tali crimini i membri del governo turco e gli amministratori locali implicati (31).

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donne armene crocifisse

Per tutta risposta, il 27 maggio i capi dell’Ittihad decidono semplicemente di legalizzare lo sterminio in corso. Approfittando dell’assenza del Parlamento (precedentemente liquidato dal partito), il governo stesso adotta una legge, resa nota il primo giugno successivo, che autorizza le atrocità (32): sotto il pretesto che gli armeni stanno per ribellarsi, la legge ne ordina il «trasferimento provvisorio» in massa ad altri luoghi, non precisati. In realtà, la meta delle deportazioni era «il nulla», come lo stesso Talaat precisava ai governanti delle regioni, suoi sottomessi, in telegrammi di servizio.

Centinaia di migliaia di armeni sono spinti verso i deserti della Siria e della Mesopotamia. Molti sono soppressi all’inizio del lungo cammino, moltissimi sono ammazzati o muoiono di fatiche e stenti prima di giungere al deserto: gli uomini sono impiccati, decapitati, arsi vivi, barbaramente torturati, mutilati, squartati, fucilati, le donne sono violentate e vendute, i bambini rapiti, spesso seviziati e anch’essi venduti come schiavi. Intanto, case e proprietà dei deportati sono rapinate e devastate impunemente dalla popolazione turca, sotto gli occhi delle autorità; lo Stato poi finisce per confiscare semplicemente tutti i beni degli armeni che pure aveva solo «provvisoriamente trasferito».

Lungo la strada, i deportati devono subire ogni sorta di abusi e brutalità da parte dei soldati turchi che li scortano. Spesso gli stessi gendarmi della scorta precedono la carovana, formata soprattutto di donne, vecchi e bambini, per annunciarne l’arrivo alle tribù curde; poco dopo i predoni piombano sui poveri indifesi. Diverse madri armene, terrorizzate dalle violenze subite o viste, si suicidano assieme ai figli.

armenian genocide 8Il cammino seguito dalle carovane resta disseminato di cadaveri ammucchiati, impiccati agli alberi o ai pali della luce e del telegrafo. L’attraversamento dei fiumi è un’occasione per i gendarmi per buttare in acqua bambini e adolescenti: quanti di questi riescono a nuotare sono abbattuti a fucilate.

Una percentuale minima di quanti sono stati deportati giunge al centro di smistamento di Aleppo, ultima tappa prima del deserto. Infine, molti di quelli che si addentrano nel deserto, muoiono di stenti, fame, sete, epidemie, sono vittime di incursioni di predoni e di bande di nomadi assoldate dal governo. Pochissimi si salvano, grazie all’aiuto dei siriani ed anche dei beduini, che soccorrono vecchi e donne, adottano i bambini.

Gli abiti logori di alcuni di questi superstiti armeni testimoniano della ricchezza conosciuta prima della deportazione: diversi di questi forzati abitanti del deserto hanno fatto i loro studi nelle migliori Università europee, hanno vissuto a Londra e Parigi, conoscono più lingue e hanno frequentato l’alta società di diversi Stati…

Subito dopo la tragica data del 24 aprile, già nel maggio 1915, oggetto di deportazione sono gli armeni della parte orientale dell’Anatolia, eccetto Van, occupata dai russi: Trebisonda, Erzurum, Bidis, Diarbekir. Ufficialmente, infatti, il trasferimento era motivato dalla prossimità del fronte russo. In tre mesi l’Anatolia orientale è ripulita dagli armeni: già nel mese di agosto, la regione è definita “liberata” dalla scomoda presenza… dei suoi abitanti originari.

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donne e bambini muoiono a migliaia di fame e fatica nel deserto

In un secondo momento le deportazioni sono estese all’Anatolia occidentale, alla Cilicia e alla Tracia turca. Per gli armeni abitanti in queste zone, il pretesto della vicinanza del fronte russo, naturalmente, non può essere invocato. Ma ormai il genocidio in atto non ha più bisogno di coperture; le autorità turche sono preoccupate unicamente di raggiungere il proprio scopo al più presto. Così, infine, la deportazione riguarda indistintamente tutti gli armeni residenti in Turchia, eccetto quelli di Smirne e Costantinopoli.

Anche i deportati di questa seconda ondata transitano attraverso Aleppo, da dove sono poi inviati a est verso la regione desertica lungo le rive dell’Eufrate, o a sud verso il deserto siriano. I 200.000 giunti al campo di Deir-es-Zor in Mesopotamia moriranno per la maggioranza di sete e stenti. Ai campi siriani di Hama, Homs e dei pressi di Damasco giungono circa 120.000 persone. Quanti di questi saranno ancora vivi alla fine della guerra, faranno rientro in Cilicia. Ma qui nel 1920, come si vedrà, troveranno la morte ad opera dei nuovi carnefici, i kemalisti.

La deportazione si conclude così alla fine dell’anno. Nella prima metà del 1916 su ordine espresso del governo vengono eliminati quanti si trovano nei campi di sosta e di smistamento. In alcuni posti, alla deportazione si sostituiscono barbarie di altro genere. A Trebisonda donne e bambini armeni sono affogati nel Mar Nero.

cavalleria curda

cavalieri curdi

A Mush i soldati regolari turchi guidano un’orda di curdi che, passando di casa in casa, fanno un carnaio della popolazione armena, massacrandola a colpi di ascia. Nell’ospedale della città di Erzindjan (180 km circa a sud di Trebisonda) gli armeni di un battaglione di soldati-lavoratori e i cadetti armeni di un’accademia militare sono utilizzati come cavie umane per esperimenti medici: nel quadro di una ricerca di batteriologia si inocula loro sangue infetto di malati di tifo.

Conduce gli esperimenti, su incarico del governo, il prof. Hamid Suat, oggi considerato il padre della batteriologia turca (33). Alcune città e paesi armeni oppongono una fiera resistenza: Van, Chatakh, Chabine-Karahissar, Mussa Dagh, Karahussar (Djebel Mussa), Urfa.

Il caso certamente più celebre di resistenza armena è quello descritto dallo scrittore austriaco Franz Werfel nel romanzo I quaranta giorni di Mussa Dagh (1933) (34). Il 30 luglio 1915 circa 5.000 armeni residenti sulla costa settentrionale della Siria decidono di opporsi alla deportazione e si stabiliscono sulla montagna Mussa, dove costruiscono delle fortificazioni. Qui resistono per un mese e mezzo all’assedio da parte delle truppe turche, nonostante l’enorme disparità di forze.

Le poche centinaia di combattenti validi tra gli assediati tengono testa a reparti sempre più numerosi dell’esercito regolare (l’ultimo constava di 15.000 soldati), dotati di artiglieria. Infine, quando i turchi, tagliata ogni via di comunicazione e isolati gli insorti, pensano di prenderli per fame, questi sono salvati da due navi militari francesi in transito che vedono la bandiera: «Christians in distress: rescue» (Cristiani in pericolo: soccorreteci!). Bombardate le posizioni turche, i francesi imbarcano i 4.000 armeni sopravvissuti e li portano in salvo a Port-Said (35).

TESTIMONI DEL GENOCIDIO E DIFENSORI DEGLI ARMENI

Numerose e sconvolgenti sono le testimonianze sul genocidio dovute a stranieri (diplomatici e altro) residenti in Turchia all’epoca (36). In particolare, raccapriccianti i documenti segreti dei diplomatici austriaci e tedeschi (37), alleati dei turchi, che erano perfettamente al corrente di ciò che stava avvenendo.

armenian genocide 10Diversi testimoni tedeschi degli eccidi per obbligo professionale tacquero, altri invece criticarono apertamente la politica di non-intervento del loro governo davanti alle stragi (38).Agghiaccianti le notizie contenute nei rapporti al proprio governo di Henry Morgenthau, ambasciatore americano a Costantinopoli dal 1913 al 1916, e dei suoi consoli americani in varie città turche: Oscar Heizer a Trebisonda, Jesse Jackson ad Aleppo e soprattutto Leslie Davis a Harput, città al centro dell’Anatolia che fu un importante nodo della deportazione.

Oltre a informare regolarmente e minuziosamente Washington circa le deportazioni e lo sterminio degli armeni, l’ambasciatore Morgenthau cercò più volte di intercedere per i perseguitati presso il governo turco, anche in colloqui personali con Enver e Talaat.

Nelle sue memorie, pubblicate nel 1918 (39), racconta di un suo colloquio con Talaat in cui l’artefice delle deportazioni improvvisamente gli chiede: «Perché vi interessate tanto agli armeni? Voi siete ebreo e questa gente è cristiana. I musulmani e gli ebrei si capiscono meglio. Voi siete ben accetto qui. Di cosa vi lamentate? Perché non ci lasciate fare quello che vogliamo dei cristiani?».

Morgenthau risponde: «Voi sembrate non capire, io non sono qui in qualità di ebreo, ma come ambasciatore americano. Non mi rivolgo a voi in nome di una razza o di una religione, ma semplicemente a nome dell’umanità. Supponiamo che qualche armeno vi abbia traditi, ciò non è un motivo sufficiente per annientare una etnia intera e far soffrire donne e bambini». «È inevitabile – risponde Talaat – ci hanno rimproverato di non avere fatto differenza fra gli armeni colpevoli e gli armeni innocenti; ciò è impossibile, poiché gli innocenti di oggi saranno i colpevoli di domani» (40).

Già il 16 luglio 1915, nel suo rapporto al segretario di Stato a Washington, Morgenthau parla con determinatezza di «campagna di sterminio razziale» contro gli armeni, e nelle sue Memorie mostra chiaramente che la giustificazione di «trasferimento provvisorio della popolazione armena a causa della guerra», addotta dal governo, era inconsistente: «È assurda l’affermazione del governo che i turchi fossero sorretti dall’intenzione sincera di trasportare gli armeni in nuovi insediamenti e questi dettagli strazianti provano molto bene il vero scopo di Enver e Talaat: lo sterminio puro e semplice»; e: «Quando le autorità ottomane diedero l’ordine di deportazione, esse si garantirono la morte di tutta una razza; lo sapevano bene e durante i nostri incontri non cercavano nemmeno di dissimularlo».

armenian genocide 11Dopo aver descritto nelle sue Memorie le crudeltà inenarrabili che avevano luogo durante la deportazione degli armeni nel 1915, Henry Morgenthau afferma: «Sono convinto che la storia universale non contenga episodi così spaventosi»; e, evocata la crociata contro gli albigesi del XIII secolo, i Vespri Siciliani, le vittime dell’Inquisizione spagnola dei tempi di Torquemada e l’espulsione degli ebrei di Spagna da parte di Ferdinando e Isabella, conclude che «tutte queste persecuzioni non sono nulla se paragonate a quella degli armeni» (41).

Sempre nell’ambiente diplomatico dell’epoca, di grande importanza fu la testimonianza delle stragi fornita da Giacomo Gorrini, console d’Italia a Trebisonda dal 1911 al 1915. Gorrini, nella cui giurisdizione consolare rientravano la maggior parte dei vilayet armeni dell’impero ottomano, assistette di persona, impotente, alle deportazioni, nell’ultimo mese della sua permanenza a Trebisonda.

Nel luglio 1915, in seguito all’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria-Ungheria, alleata dei turchi, dovette precipitosamente abbandonare il Paese e, dopo un viaggio rocambolesco, durato quasi un mese, giunse a Roma. Qui, pochi giorni dopo, concedette un’intervista al Messaggero nella quale denunciò apertamente, senza mezzi termini, «la violazione flagrante dei più sacrosanti diritti di umanità» compiuta dal governo dei «Giovani Turchi» nei confronti della popolazione armena: le deportazioni, carneficine, abusi di vario genere.

L’intervista ha grande importanza in quanto prima denuncia pubblica dei fatti del 1915 da parte di un’autorità diplomatica. Dal testo apprendiamo che in un solo mese – dalla pubblicazione del decreto di internamento degli armeni di Trebisonda, il 24 giugno, alla partenza dello stesso Gorrini il 23 luglio – la popolazione armena della città scese da 14.000 a meno di un centinaio.

Alla fine della guerra, il 14 novembre 1918 Giacomo Gorrini preparò un Memoriale sulla questione armena per la Delegazione italiana al Congresso della pace, che proponeva la creazione di uno Stato armeno indipendente riunendo i territori armeni dell’ex-impero ottomano e l’Armenia ex-russa. Nel 1918 fu nominato Ambasciatore d’Italia presso la prima Repubblica Armena (1918-1920). Dopo la misera fine di questa e la sovietizzazione dell’Armenia, Gorrini rientrò a Roma nel 1922, fu messo in pensione, e per lungo tempo non si occupò più pubblicamente di diplomazia e politica internazionale. Nel 1940 con un nuovo scritto cercò per l’ultima volta di risollevare la questione armena.

armenian genocide 12Della causa armena si occupò il grande statista inglese James Bryce. Egli denunciò dapprima le stragi del 1894-1896, riconoscendo le responsabilità britanniche; poi, in qualità di specialista della questione armena, fu incaricato dal governo di Sua Maestà di raccogliere i documenti concernenti gli abusi nei confronti degli armeni. Per questo lavoro si avvalse dell’aiuto del giovane storico Arnold Toynbee junior, divenuto in seguito celebre per il suo studio comparativo delle civiltà.

Nell’ottobre 1915, parlando alla Camera dei Lord, Bryce affermò che «quasi tutta» la nazione armena residente in Turchia era stata annientata, e commentò che «la storia non conosce casi simili dai tempi di Tamerlano» (42). Nello stesso tempo il Toynbee dava alle stampe a New York un libro che denunciava gli avvenimenti in corso in Turchia (43).

Nel 1916 Bryce presentò al governo il suo rapporto: una raccolta di circa 150 testimonianze sulle stragi, ancora in corso, di testimoni oculari degni di fede. I documenti del rapporto, provanti il massacro «di circa 800.000 armeni», furono subito resi pubblici, riuniti in un Libro blu (sottotitolato Il trattamento degli armeni nell’impero ottomano) (44). Esso consta di 550 pagine, comprende alcuni testi introduttivi, un riepilogo della storia armena e i documenti, divisi per vilayet e città di provenienza.

Come Morgenthau, Gorrini, Bryce, Toynbee e altri, in concomitanza con le stragi, o subito dopo, alcuni intellettuali e personalità note a livello internazionale presero posizione in difesa degli armeni e si impegnarono fattivamente a far conoscere gli avvenimenti, far pressione sulle istituzioni internazionali e cercare soluzioni concrete per i profughi.

Tra i più attivi, oltre al già menzionato Franz Werfel, citiamo: in Francia lo scrittore Anatole France, l’armenista Frédéric Macler e il filosofo socialista Jean Jaurès; in Russia il politico Petr Miljukov, lo scrittore Maksim Gorkij, il diplomatico e giurista internazionale Andre] Mandel’stam e i poeti Jurij Ve-selovskij, Valeri] Brjusov, Sergej Gorodetskij; in Germania il pastore protestante Johannes Lepsius, l’attivista comunista Rosa Luxem-burg e lo scrittore Armin Wegner; in Gran Bretagna lo statista William Gladstone; in Polonia lo scrittore Bogdan Gembarsky; in Svizzera il teologo e armenista Max von Sachsen; in Norvegia il grande filantropo (oltre che esploratore e diplomatico) Fridtjof Nansen.

Tra le più importanti testimonianze dirette del genocidio dovute a non diplomatici, vi sono quelle di due tedeschi: il pastore Johannes Lepsius e il giovane ufficiale Armin Wegner.

Johannes Lepsius, figlio del celebre egittologo Karl Richard Lepsius, era pastore e missionario evangelico; nel 1895 fonda la società missionaria Deutsche Orient Mission e nella primavera dell’anno successivo visita i luoghi dove si sono appena svolti i terribili massacri organizzati da Abdul-Hamid II (1894-1896).

Con il sostegno di benefattori americani, svizzeri e tedeschi apre in Turchia, Bulgaria e Persia diversi orfanotrofi. Poi riorganizza la sua società missionaria in fondazione filantropica che chiama Armenisches Hilfswerk. Parallelamente all’impegno umanitario a favore degli armeni (ma anche dei siriaci e di tutti i perseguitati nell’impero ottomano, compresi curdi e turchi), fin dall’agosto 1896 si dedica attivamente a raccogliere, pubblicare e diffondere in Germania e in Occidente documenti riguardanti gli abusi contro gli armeni nell’impero ottomano.

Diciotto suoi articoli scritti in quello stesso anno col titolo comune: La verità sull’Armenia costituiranno la base del suo libro: L’Armenia e l’Europa. Accusa contro le poterne cristiane e esortazione alla Germania cristiana, che in soli due anni (1896-1897) ebbe sette edizioni.

pastore Lepsius

il pastore Lepsius

Il pastore Lepsius era in relazioni continue con gli armeni di Costantinopoli e col leader della delegazione nazionale della diaspora armena Boghos Nubar. Divenuto uno dei maggiori esperti occidentali della questione armena, dal 1912 al 1914 era spesso consultato da politici e diplomatici e invitato a varie conferenze e incontri internazionali sull’argomento. Nello stesso tempo in Germania la sua attività riscuoteva la sempre più decisa opposizione da parte degli ambienti politici ufficiali.

Nell’estate del 1915, mentre è in corso la deportazione ad opera dei «Giovani Turchi», Lepsius compie un viaggio a Istanbul durante il quale cerca disperatamente, purtroppo invano, di intervenire direttamente presso le massime autorità dello Stato, per fermare lo sterminio. Il suo celebre colloquio con Enver del 10 agosto 1915 è stato raccontato, sulla base delle indicazioni date dallo stesso Lepsius, da Franz Werfel nel romanzo I quaranta giorni di Mussa Dagh.

Nel settembre 1915 Lepsius pubblica in Svizzera l’articolo La strage di un intero popolo e nel 1916 in Germania da alle stampe a sue spese, sfuggendo alla censura, un Rapporto sulla condizione del popolo armeno in Turchia. Quando la polizia interviene per sequestrare il libro, Lepsius ne ha già diffuse personalmente 20.000 copie. Per poter continuare a lavorare in difesa degli armeni, per due anni si rifugia in Olanda, allora Paese neutrale.

Rientrato in Germania alla fine della guerra, nel 1919 ripubblica il suo Rapporto con aggiunte di nuovi materiali e il nuovo titolo II cammino della morte del popolo armeno (46); contemporaneamente pubblica un’importantissima raccolta di 444 documenti diplomatici tedeschi degli anni 1914-1918 sulla situazione armena in Turchia (47).

Nel 1921 è citato come testimone ed esperto della questione armena al processo di Berlino contro Solomon Teylirian, l’assassino di Talaat. Grazie proprio alla sua testimonianza il processo, come vedremo, significherà per molti tedeschi la prima condanna pubblica del genocidio, a parte il rito religioso di memoria delle vittime armene indetto a Berlino, nel maggio 1919, dalla Società di Lepsius e dai padri mechitaristi del monastero di Vienna (48).

Armin Wegner, prussiano, era un giovane ufficiale della Croce Rossa tedesca, cui si devono le testimonianze dirette e molte delle prove fotografiche delle stragi del 1915. Arruolatesi nell’esercito tedesco come infermiere volontario, nell’aprile 1915 A. Wegner è inviato in Medio Oriente, a seguito delle truppe di stanza in Turchia per via dell’alleanza. Qui, nei mesi di luglio e agosto, approfitta di tutti i momenti di permesso per indagare attorno ai massacri degli armeni, di cui sente parlare. Nell’autunno successivo, attraversa l’Asia Minore a seguito del feldmaresciallo Colmar von der Goltz, che fin dal 1883 si trovava nell’impero ottomano come consigliere militare, incaricato della modernizzazione dell’esercito turco.

armenian genocide 13Armin Wegner vede le colonne dei deportati, visita i campi dei profughi, raccoglie testimonianze, scatta fotografie, nonostante i divieti turchi. Tra il 1915 e il 1916 tiene un diario e manda varie lettere a parenti e conoscenti che descrivono gli orrori di cui è testimone. Nel maggio 1916, su richiesta dei turchi che intercettano qualche lettera, è arrestato dai tedeschi a Baghdad. È destinato a prestare servizio nelle baracche degli ammalati di colera; poco dopo, gravemente ammalato, è trasferito a Costantinopoli. Qui riesce a consegnare diversi materiali sulle stragi degli armeni all’Ambasciata americana. Infine è rimpatriato nel dicembre 1916.

Da allora, in contatto con J. Lepsius e altri testimoni del genocidio, Armin Wegner sarà uno dei principali sostenitori della causa armena. Nel febbraio del 1919 scrive una lunga lettera al presidente americano Thomas Woodrow Wilson, che in seguito sarà il più alto difensore degli armeni (purtroppo non ascoltato) nell’arena politica internazionale. In essa egli descrive le bestialità di cui era stato testimone in Mesopotamia e di cui riteneva di avere non solo il diritto, ma piuttosto il dovere morale di parlare apertamente. Nello stesso anno Wegner raccoglie le sue lettere e il suo diario della Mesopotamia in un libro che intitola Via senza ritorno (49).

Al processo di Berlino contro Solomon Teylirian, Wegner non viene ascoltato come testimone a causa dei suoi legami con organizzazioni comuniste; egli in compenso scrive un’importante prefazione al volume che raccoglie i documenti del processo, pubblicato nello stesso 1921. Alla fine dell’anno successivo, dopo i gravi avvenimenti di Smirne, Wegner scrive un appello per i diritti degli armeni intitolato II grido dall’Ararat (50).

Durante il nazismo, Armin Wegner perorerà con gran coraggio la causa degli ebrei, scrivendo personalmente al Führer nell’aprile 1933; ciò gli varrà, oltre all’arresto e alle bastonate della Gestapo, e a cinque mesi di detenzione in vari campi di concentramento, anche la stroncatura della sua carriera di scrittore e infine l’esilio volontario in Italia fino alla morte (51).

I KEMALISTI E IL COMPLETAMENTO DEL GENOCIDIO

II genocidio è completato dai turchi dopo il 1915 e anche dopo la fine della guerra. Non soddisfatti di aver scacciato la quasi totalità della popolazione armena dall’Armenia Occidentale, dalla Cilicia e dal resto dell’impero ottomano, i «Giovani Turchi» prima e i kemalisti poi attaccheranno diverse volte anche l’Armenia Orientale, motivati sempre dal sogno panturaniano di ricongiungersi con gli altri popoli di origini turco-tartare. Accenneremo soltanto qui, dal punto di vista dell’intento genocidiario, a questi avvenimenti, rimandando per un approfondimento dei fatti propriamente bellici a quanto abbiamo già scritto altrove (52).

Kemal Ataturk

Kemal Ataturk si assumerà il compito di completare il genocidio armeno

L’ambasciatore americano Morgenthau scrive nelle sue Memorie che dopo le deportazioni del 1915 Talaat gli avrebbe detto: «Noi abbiamo già liquidato la posizione di tre quarti degli armeni. Bisogna che la finiamo con loro, altrimenti dovremo temere la loro vendetta. Noi non vogliamo più vedere armeni in Anatolia; possono vivere nel deserto, ma in nessun altro luogo». «La question arménienne n’existe plus», disse lo stesso Talaat, secondo la testimonianza del Lepsius, già il 31 agosto 1915 all’ambasciatore tedesco barone Ernst Hohenlohe-Langenburg.

Tuttavia, dopo circa un anno, nel giugno-luglio 1916, il governo ordina ancora agli amministratori locali di farla finita definitivamente con i pochi armeni rimasti in Turchia. Ed effettivamente, all’inizio del 1917 il problema degli armeni di Anatolia è ritenuto dallo stesso governo ufficialmente “liquidato”. Il numero delle vittime del genocidio nei soli due anni 1915-1916 si aggira sui 1.500.000. L’Armenia Occidentale perde così la maggior parte della sua popolazione originaria.

Ma i grandi sconvolgimenti politici della scena internazionale vengono a rendere ancora più tragica la situazione degli armeni di Turchia e di Russia. Le rivoluzioni del febbraio e dell’ottobre 1917 creano il caos nelle truppe russe, che in gran parte si ritirano dai territori occupati durante la guerra. Alla fine del 1917 i governi sovietico e dei «Gióvani Turchi» concludono un armistizio; pochi mesi dopo, però, le ostilità riprendono. Infine, dopo vari accordi raggiunti e infranti, il 3 marzo 1918 le potenze dell’Europa Centrale (Germania e Austria-Ungheria) e i loro alleati turchi firmano la pace con i bolscevichi a Brest-Litovsk.

Secondo il trattato, la Russia restituisce alla Turchia le conquiste fatte durante la guerra e anche i territori di Ardahan, Kars e Batum, entrati a far parte dell’impero degli zar già negli anni 1877-1878. Il trattato stabilisce che la Russia Sovietica «non si immischierà nel processo di organizzazione delle strutture statali e giuridiche e nello stabilimento delle relazioni giuridiche internazionali» dei territori di Ardahan, Kars e Batum, ma «lascerà alla popolazione di detti territori di stabilire nuove strutture in accordo con gli stati vicini, in particolare con la Turchia». Per parte loro, la Germania, l’Austria-Ungheria e i loro alleati «intendono definire la sorte futura» di tutti i territori ceduti dalla Russia «in accordo con la volontà della popolazione locale».

In realtà, senza alcuna considerazione della volontà della popolazione, la Turchia semplicemente si impossessa di tutte le terre dalle quali escono i russi. La situazione diventa critica per questi armeni scampati alle deportazioni grazie alla presenza russa, molti dei quali saranno infatti massacrati dai «Giovani Turchi» e in seguito dai kemalisti. Ad Ardahan, tra marzo e maggio 1918, i «Giovani Turchi» fanno più di 9.000 vittime; a Karaklis nel maggio altre 4.000; nella provincia di Akhalkalak prima della fine dell’anno i morti a causa della violenza turca, delle distruzioni e conseguenti fame e epidemie sono 40.000.

La Prima Guerra mondiale, intanto, sta volgendo al termine. Dopo il trattato di pace di Brest-Litovsk, la Turchia non combatte più sul fronte caucasico; in tal modo sembrano dover aver fine almeno le sofferenze causate dai turchi agli armeni di Russia. A seguito proprio di forti pressioni da parte della Turchia, il 9/22 aprile 1918 si autoproclama la Repubblica di Transcaucasia, indipendente dalla Russia.

A questo punto, approfittando del fatto che l’Armenia Orientale si è appena staccata dall’Unione Sovietica e non può quindi contare sul sostegno dei russi, nel maggio del 1918 la Turchia attacca il nuovo Stato. In una settimana di battaglie (dal 21 al 28 maggio), la popolazione civile armena e i soldati riescono a respingere l’invasione turca a Sardarapat, scrivendo una delle pagine più eroiche della storia nazionale (53).

armenian genocide 14A metà settembre le truppe dei «Giovani Turchi», ma soprattutto la popolazione locale azera, massacrano la comunità armena di Baku, facendo da 20.000 a 25.000 vittime: la bestialità dei supplizi è inaudita. Secondo quanto scrive una fonte georgiana a fine settembre 1918: «Gli orrori compiuti durante la presa della città sono indescrivibili.

Interi squadroni di soldati scatenati e bande inferocite irrompevano nelle case degli armeni, uccidendo, violentando, rapinando e distruggendo. I testimoni descrivono orrori che fanno gelare il sangue, raccontano di un bambino che per tre giorni ha succhiato il seno della madre uccisa, di un camion che portava fuori dall’orfanotrofio dei profughi i cadaveri di bambini, di ragazze violentate sotto gli occhi dei genitori, e mogli violentate sotto quelli dei mariti, che poi venivano uccisi…» (54).

Avendo mandato ingenti forze in Caucaso per prendere Baku, la Turchia subisce una pesante sconfitta dagli inglesi in Palestina e un’altra dai francesi in Macedonia. In ottobre i «Giovani Turchi» dimissionano e fuggono da Istanbul; così la Turchia capitola il 30 ottobre 1918, firmando a Mudros un armistizio con i paesi dell’Intesa.

Secondo le condizioni della resa, la Turchia evacua la Transcaucasia e la Cilicia, dove sotto il protettorato francese fanno ritorno circa 150.000 rifugiati armeni sopravvissuti al deserto della Siria o che si trovavano ancora in qualche campo, come quello di Aleppo. Accanto alle truppe francesi, presidia la regione la Legione d’Oriente, corpo speciale di volontari armeni provenienti dal mondo intero, costituito nel 1916 dal diplomatico armeno di Egitto Boghos Nubar. Così in Cilicia si riaprono le scuole e le chiese abbandonate al momento dell’esodo.

Ma la fine dell’impero ottomano e la nascita della Turchia moderna, con la presa del potere da parte del movimento capeggiato da Mustafà Kemal (che in seguito diventerà Atatùrk, «padre dei turchi»), non migliorano affatto le condizioni della popolazione armena.

Nei primi tempi della sua ascesa politica, nel gennaio 1919, Kemal condanna duramente, a parole, le atrocità compiute dall’amministrazione precedente dei «Giovani Turchi», pur senza mai riferirsi in particolare a quelle subite dalla popolazione armena. Sempre a parole, egli garantisce la sicurezza agli armeni di Anatolia.

Tuttavia, egli forma il suo primo gabinetto con ministri dell’Ittihad e ben presto sia le sue parole che il suo operato mostreranno chiaramente le sue vere intenzioni. Il 23 luglio dello stesso 1919 dichiara pubblicamente che la Turchia appartiene solo ai turchi e che armeni e greci non avranno neanche un centimetro del territorio nazionale; dalla fine dell’anno, si stabilisce ad Ankara da dove riesce ad imporre all’ormai debole governo centrale di Costantinopoli, e al sultano, le proprie decisioni.

Gli eccidi degli armeni continuano per tutta la Turchia. Nel 1919 e 1920 varie insurrezioni dei turchi riescono a indebolire la presenza dei francesi che occupano la Cilicia. Così nel 1920 la Francia rinuncia al protettorato e comincia a evacuare la zona in gran fretta. Infine, nel 1921, in seguito alla conferenza di Londra che rivede gli accordi di Sèvres, la Francia restituisce ufficialmente la Cilicia alle nuove autorità kemaliste turche (55).

La partenza dei francesi crea il panico tra la popolazione armena che abbandona in massa la regione. Prima ancora, però, molti armeni vengono uccisi dalla violenza turca (alcuni storici parlano di 50.000 vittime tra il 1919 e il 1922, altri si limitano a 20.000-22.000). Nella città di Marash, nei primi due mesi del 1920 i turchi compiono varie incursioni, uccidendo i soldati francesi e facendo strage di molti armeni.

La notte del 12 febbraio la guarnigione francese, con il favore delle tenebre, evacua la città, seguita da alcune migliaia di armeni, senza dir niente al resto della popolazione armena che l’indomani è massacrata dai turchi. Vengono uccise 9.000 persone, molte delle quali muoiono arse vive nella chiesa della città; altre 2.000 sono uccise mentre cercano di raggiungere le truppe francesi; altre ancora, sfuggite alla violenza turca, muoiono assiderate e di stenti durante il tentativo di fuga attraverso le montagne, dove la temperatura è di -20° C. Nella città ciliciana di Adjin, in un solo giorno (15 ottobre), sono uccise 6.000 persone.

Per i sopravvissuti di Cilicia l’esodo si completa nel 1921: negli ultimi due mesi dell’anno, quando (dopo l’accordo del 20 ottobre 1921) diventa chiaro che la Francia ritirerà completamente le truppe, quasi 60.000 armeni abbandonano case e beni ai turchi e partono in massa (56). Quando nel gennaio 1922 gli ultimi soldati francesi lasciano il paese, quasi nessuno è rimasto.

I turchi profanano i cimiteri armeni, lapidano gli ex-allievi delle scuole francesi. Alcuni dei nuovi profughi ciliciani si rifugiano in Siria, altri scappano più lontano dall’odio turco, in Stati Uniti, Francia, o altrove.

Nel marzo 1920 un nuovo orribile pogrom è compiuto dai turchi e dagli azeri nella città di Shushi in Karabagh. Shushi era un centro molto importante per la vita e la cultura armene del Karabagh: fin dal secolo XIX aveva un proprio monastero, un teatro, un ospedale, una scuola diocesana, vi si pubblicavano libri e giornali in armeno. Alla fine del XIX secolo gli abitanti, per più del 60%, erano armeni.

Nella sola giornata del 22 marzo, il furore turaniano distrugge migliaia di abitazioni armene, chiese, biblioteche, tipografìe e fa più di 30.000 vittime. I kemalisti, così, ripetono a Shushi ciò che i «Giovani Turchi» avevano fatto a Baku: in entrambi i casi, con l’aiuto della popolazione civile azera.

Smirne, l’antica città greca risalente all’XI secolo a.C. che secondo la tradizione avrebbe dato i natali a Omero, benché incorporata nell’impero ottomano dal 1424 (e ribattezzata dai turchi Izmir), ancora all’inizio del XX secolo era popolata per più della metà da greci. Nel maggio 1919 le truppe greche occupano la città e l’anno successivo il Trattato di Sèvres affida alla Grecia l’amministrazione di tutta la regione.

Ma l’occupazione fomenta ancora di più il nazionalismo estremo dei kemalisti. In un anno, dalla primavera del 1921 a quella successiva, essi deportano la popolazione greca dell’Anatolia, ripetendo fedelmente lo schema del genocidio armeno. Poi, nei mesi di settembre e ottobre 1922 organizzano a Smirne un eccidio senza precedenti dei greci e degli armeni rimasti. Gli armeni sono dapprima arrestati o rapinati, poi i kemalisti appiccano il fuoco al quartiere armeno, bruciando chiese e scuole e facendo numerosissime vittime.

Migliaia di persone terrorizzate si riversano allora sui moli del porto. Alcune navi degli Alleati vedono quanto sta accadendo, ma non osano intervenire. Quanti riescono a prendere il largo con imbarcazioni di fortuna, soprattutto donne, bambini e anziani, sono affondati dalla marina turca.

Ma gli orrori non finiscono qui e ancora molto più tardi il console americano a Smirne George Horton scriverà: «Atatùrk ha aperto una nuova caccia agli armeni: ha riempito interi vagoni ferroviari di donne e bambini e ha dato l’ordine di ricoprirli di carbone e di dar fuoco…».

Difficile dire con precisione quanti armeni abbiano subito le atrocità dei kemalisti nel pogrom di Smirne; i morti sono probabilmente attorno ai 10.000.

Il rogo del quartiere armeno di Smirne dell’ottobre 1922 e il massacro della sua popolazione pone fine al genocidio che ormai è compiuto. I kemalisti hanno messo un punto finale alla questione armena, liberandosi quasi del tutto della presenza del popolo dell’Ararat. Il numero delle vittime del terrore degli ultimi anni dei «Giovani Turchi» e dei primi del potere kemalista non è certo. Se si sommano i dati sicuri di cui si dispone, si vede che, dopo il genocidio e la guerra, tra il 1918 e il 1922, in Cilicia, in tutta la Turchia e in Armenia, gli armeni assassinati o morti in conseguenza di violenze subite dai turchi sono più di 400.000.

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