Antigiudaismo, antisemitismo e Chiesa cattolica

don Pietro Cantoni

Studio Teologico Interdiocesano “Mons. Enrico Bartoletti”, Camaiore

Antigiudaismo, antisemitismo e  Chiesa cattolica

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intervento al convegno

Ebraismo moderno, antisemitismo e Chiesa cattolica

organizzato dal CESNUR e dall’Arcidiocesi di Monreale,

24 febbraio 2005

INDICE

Capitolo 1.

Pentimento, maturazione e sviluppo

Capitolo 2.
Il concilio Vaticano II

Capitolo 3.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica e l’accusa di “deicidio”

Capitolo 4.
La “teologia della sostituzione”

Capitolo 5.
La teologia di Israele in Rm 9-11

Capitolo 6.
L’ebraicità di Gesù

1. Pentimento, maturazione e sviluppo

Lo scopo di questo mio intervento è quello di inserire il tema dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo nel quadro dello sviluppo che la dottrina della Chiesa cattolica ha conosciuto su questo tema soprattutto a partire dal concilio ecumenico Vaticano II.

Tre osservazioni si impongono in partenza:

a) Ci troviamo davanti ad uno sviluppo, ad una maturazione. Il fattore cambiamento è consistente tra molte espressioni del concilio Vaticano II e del magistero successivo, e quelle di molti padri della Chiesa, per non parlare di teologi o predicatori del passato, anche recente: le differenze, i contrasti, balzano agli occhi. Ma, ad uno sguardo non superficiale si prospettano anche gli elementi di continuità, che se andiamo in profondità, sono i più importanti e decisivi.

b) Proprio perché abbiamo a che fare con uno sviluppo dottrinale, in materia molto delicata, ci appoggeremo soprattutto su quanto ha detto il Magistero.

c) Il cuore del problema è teologico. Nella sua famosa visita alla Sinagoga di Roma del 1986 Giovani Paolo II ha sintetizzato in tre punti il contenuto del paragrafo 4 della dichiarazione Nostra Ætate riservata al popolo ebraico:

1. « la Chiesa di Cristo scopre il suo “legame” con l’Ebraismo “scrutando il suo proprio mistero”. La religione ebraica non ci è “estrinseca”, ma in un certo qual modo, è “intrinseca” alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori »

2. « agli ebrei, come popolo, non può essere imputata alcuna colpa atavica o collettiva, per ciò “che è stato fatto nella passione di Gesù”. Non indistintamente agli ebrei di quel tempo, non a quelli venuti dopo, non a quelli di adesso. È quindi inconsistente ogni pretesa giustificazione teologica di misure discriminatorie o, peggio ancora, persecutorie. Il Signore giudicherà ciascuno “secondo le proprie opere”, gli ebrei come i cristiani (cf. Rm 2,6) »

3. « non è lecito dire, nonostante la coscienza che la Chiesa ha della propria identità, che gli ebrei sono “reprobi o maledetti”, come se ciò fosse insegnato, o potesse venire dedotto dalle Sacre Scritture, dell’Antico come del Nuovo Testamento. Anzi, aveva detto prima il Concilio, in questo stesso brano della Nostra Aetate, ma anche nella costituzione dogmatica Lumen gentium (Lumen gentium, 16), citando san Paolo nella lettera ai Romani (Rm 11,28-29), che gli ebrei “rimangono carissimi a Dio”, che li ha chiamati con una “vocazione irrevocabile” »

È evidente che il primo punto è quello fondamentale: la Chiesa riconosce di avere con Israele un legame speciale e questo significa che Israele sussiste ancora. Ora Israele non è riconducibile solo ad un evento etnico o culturale, perché si tratta di un fatto religioso, fondato su una elezione divina, cioè su un fattore soprannaturale. Questo sviluppo dogmatico consiste quindi nel superamento della “teologia della sostituzione”, cioè di quella concezione per cui con la venuta del Messia e il suo rifiuto da parte del popolo ebraico l’Antica Alleanza di Dio con un popolo determinato avrebbe puramente e semplicemente cessato di esistere e la Chiesa – in quanto “vero Israele” si sarebbe sostituita all’antico Israele.

Quando si parla di dialogo – e in specie di dialogo interreligioso – si sente a volte avanzare l’opinione che il suo presupposto sia una presa di distanza dai fondamenti normativi della propria religione. Solo se si è “liberali” si può dialogare, perché l’essere “ortodossi” costituisce quella pregiudiziale chiusura che impedisce il dispiegarsi della relazione dialogica verso l’altro in tutta la sua necessaria libertà e disponibilità.

Credo che sia vero il contrario: solo uomini sinceramente religiosi e quindi sinceramente “affezionati” ai fondamenti della loro fede hanno la chance di “capirsi” più in profondità, proprio in virtù di quell’empatia su cui la fenomenologia di Edith Stein ha concentrato la sua preziosa attenzione. Il dialogo presuppone identità definite per essere vero e sincero e non risolversi in vuota chiacchiera o superficiale convivialità.

Solo chi è saldamente legato a qualcosa può entrare in un rapporto di reciproco arricchimento con “l’altro”, perché «a chi ha sarà dato e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha». Così per un teologo cattolico il riferimento al Magistero è una componente irrinunciabile, soprattutto quando la materia è complessa e delicata e il terreno della storia della tradizione è disseminato di dottrine che si possono al massimo qualificare come “comuni”, ma che non possono pretendere di essere ultimamente normative [1].

Con la dichiarazione conciliare Nostra Ætate per la prima volta la Chiesa Cattolica svolge una riflessione esplicita, dottrinale e autorevole (dell’autorevolezza di un Concilio) sul mistero di Israele. È alla luce poi di questo mistero che si può valutare adeguatamente antigiudaismo e antisemitismo. Non è sufficiente infatti rilevare il fatto: nella storia della Chiesa c’è stato l’antigiudaismo.

Di esso troviamo addirittura traccia negli scritti canonici del Nuovo Testamento, anche se – ovviamente – dobbiamo distinguere il significato oggettivo che queste espressioni hanno nel testo biblico da quello di cui si sono andati via via caricando nel corso della storia per tante ragioni che non sono per lo più di natura teologica. Neppure è sufficiente distinguere – anche se ciò è certamente doveroso – l’antigiudaismo dall’antisemitismo.

Occorre chiedersi “perché”. Posta la natura poi della materia in oggetto, questo perché non può ultimamente che essere teologico. Il contesto immediato di questa riflessione è quello di un grande esame di coscienza della Chiesa. A quarant’anni dal Vaticano II credo si possa incominciare a sentirsi autorizzati a cercare quale possa essere stato il motivo di fondo, il principio ispiratore di un evento di tale portata.

Ora disponiamo forse di un sufficiente récul historique. Proprio alla luce del recente e ancora attuale magistero di Giovanni Paolo II, che al concilio partecipò e non in modo del tutto secondario, possiamo vedere nella Nuova Evangelizzazione una riposta non superficiale. La Chiesa aveva vissuto il tempo della Modernità che ormai andava concludendosi come una cittadella assediata. Si percepiva ormai da più parti la necessità che la strategia mutasse.

Tutte quelle difese che erano prima apparse come indispensabili per fronteggiare un mondo ostile, apparivano sempre più come ostacoli, qualora si mutasse la prospettiva, quella cioè non tanto e non soprattutto di difendere una Cristianità che andava sfaldandosi, quanto quella di riannunciare con decisione e entusiasmo il Vangelo ad un mondo che si era allontanato dalla Chiesa continuando nello stesso tempo lo sforzo, mai veramente venuto meno, di portare lo stesso Vangelo «fino agli ultimi confini della terra».

Questo comportava anche un ripensamento di tutto quanto il deposito della fede, non per dire cose nuove, ma per rinnovare il modo di capirle e proporle. L’esperienza della storia trascorsa e presente doveva essere messa a frutto e certamente l’evento della Shoah non poteva essere lasciato senza una adeguata riflessione.

L’uomo molto spesso capisce fino in fondo il significato del proprio agire quando ne vede le conseguenze. Anche quelle non direttamente volute, ma certamente in qualche modo con-causate. La Shoah “il disastro”, lasciò e lascia esterrefatti i cristiani. La Chiesa cattolica non poteva non rivolgersi all’evento per chiedersi in che misura l’atteggiamento dei suoi figli nella storia non poteva essere chiamato in causa e concorrere a spiegare sia il sorgere del fenomeno stesso che anche i ritardi e l’indifferenza con cui fu osteggiato da troppi cristiani. Qui non è mio compito entrare direttamente nella questione storica, voglio mantenermi al livello della riflessione teologica.

2. Il concilio Vaticano II

«Scrutando il mistero della chiesa, questo sacro concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del nuovo testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo ». Sono le parole solenni che aprono il n. 4 della dichiarazione Nostra Ætate, la sezione che è dedicata al popolo di Israele. L’ouverture riecheggia le parole di un famoso discorso di Pio XI: « L’antisemitismo è inaccettabile. Spiritualmente siamo tutti semiti » [2].

Il Discorso è del 6 settembre 1938 e non si può dire che in fondo non esprimesse una cosa ovvia, ma quanto poi è successo costringere a pensare e a riflettere su come spesso l’ovvio, l’ovvio più ovvio, sia proprio ciò che è più a rischio. Lasciato sempre sullo sfondo, “dato per scontato”, rischia di divenire inoperante. Allora la Chiesa “scruta”. Che cosa? Il suo stesso mistero.

Siamo sempre nell’ottica della risposta a quella che è la domanda fondamentale del concilio: Ecclesia quid dicis de te ipsa? Fin da subito emerge quella che è la chiave di volta del problema teologico: qual’è la relazione che lega la Chiesa con il popolo dell’Antica Alleanza? In Nostra Ætate non viene svolto il tema della «teologia della sostituzione», ma già fin d’ora esso viene prospettato e in sostanza anche autorevolmente risolto.

Dobbiamo pensare che la Nuova Alleanza ha “sostituito” l’Antica? Che – se la Chiesa è il “nuovo Israele”, l’antico Israele sia solo una realtà che sopravvive a sé stessa? Una pura superstitio? Da lì al dis-prezzo, cioè – letteralmente – sottovalutazione, dal disprezzo al fastidio, dal fastidio all’odio, dall’odio irrazionale ad un odio “lucido” che cerca motivazioni “scientifiche” o pseudo-tali, l’itinerario è plausibile e descrive il passaggio dall’antigiudaismo all’antisemitismo.

Un passaggio che comporta una metábasis eis allo genos, cioè un salto logico e dottrinale assolutamente radicale, perché l’antigiudaismo ha radici religiose, mentre i presupposti dell’antisemitismo sono materialistici e ultimamente antireligiosi, tuttavia un passaggio che presenta comunque delle analogie che nella concretezza della vita e della storia non sono affatto senza significato ed efficacia. Giovanni Paolo II, prendendo spunto dall’evento del giubileo straordinario dell’anno 2000, ha ripreso con vigore il tema della Nuova Evangelizzazione, accompagnandolo con quello della memoria e del perdono.

Molti hanno avuto l’impressione che la richiesta di perdono del Papa costituisca un’assoluta novità nella storia della Chiesa. È vero e non è vero. Sappiamo che la Scrittura è l’anima della teologia. Ciò non significa che la Bibbia sia una specie di contenitore di proposizioni vere, di dogmi infallibili da cui pescare quello che serve per costruire argomenti teologici. “Anima” dice qualcosa di più. Si tratta soprattutto di imparare a pensare come pensa la Bibbia, perché questo significa pensare come pensa Dio.

Nell’Antico Testamento vediamo che gli agiografi non tacciono le colpe del popolo eletto. La Bibbia da questo punto di vista non è un libro edificante. Il popolo di Israele appare come un popolo di dura cervice, tale da mettere a dura prova la pazienza di Dio… Molti dei peccati di Israele hanno addirittura fornito lungo i secoli argomenti all’antisemitismo. Ma con il Nuovo Testamento lo stile non è cambiato.

Gli apostoli – che pure sono stati scelti da Gesù – appaiono a più riprese come duri di comprendonio, meschini, orgogliosi, interessati… Si dirà: doveva venire ancora lo Spirito Santo. Eppure anche dopo la Pentecoste incontriamo tante debolezze nella Chiesa. Litigi tra apostoli, divisioni nelle chiese, ecc. E tutto questo non viene taciuto.

Se leggiamo attentamente questi eventi nel loro contesto, se li “scrutiamo” nell’intreccio della storia biblica, vediamo che il prenderne atto non diminuisce l’amore per Israele, per la Chiesa e per gli Apostoli, anzi. Così oggi. Il saper vedere  i difetti nel cammino della Chiesa non deve togliere rispetto e amore per essa, deve solo spronarci a camminare di buona lena sul cammino che conduce alla Chiesa senza macchia né ruga.

Come coniugare l’affermazione che la Chiesa è “santa” con il riconoscimento che così spesso il peccato ha segnato la sua storia? È proprio la consapevolezza che la Chiesa è santa nelle sue radici e nei principi di verità che le sono stati affidati ad evidenziare lo scarto che tante volte c’è tra i principi e la loro concreta realizzazione e anche il ritardo o la trascuratezza nel riconoscere a questi principi il luogo che a loro conviene nelle gerarchia delle verità e nel mettere a frutto le potenzialità di sviluppo della dottrina che in essi risiedono a spingere la Chiesa al pentimento.

In Nostra Ætate – e a monte in modo ancora più autorevole in LG 16 – abbiamo in germe il riconoscimento dei principi fondamentali che verranno svolti dal magistero susseguente. Prima di tutto il legame profondo che sussiste tra la Chiesa e il popolo dell’Antica Alleanza. Quindi la confutazione della cattiva teologia del “deicidio” e la condanna dell’antisemitismo. La concatenazione dei temi fa comprendere come il primo sia quello assolutamente centrale: quello della relazione che sussiste tra la Chiesa e Israele, cioè la rivisitazione della «teologia della sostituzione».

3. Il Catechismo della Chiesa Cattolica e l’accusa di “deicidio”

Ciò che nel Catechismo della Chiesa Cattolica ha soprattutto colpito l’attenzione è la chiara ed esplicita confutazione dell’accusa di “deicidio” (nn. 597-598). «Tenendo conto della complessità storica del processo di Gesù espressa nei racconti evangelici, e quale possa essere il peccato personale dei protagonisti del processo (Giuda, il Sinedrio, Pilato), che Dio solo conosce, non si può attribuirne la responsabilità all’insieme degli Ebrei di Gerusalemme, malgrado le grida di una folla manipolata e i rimproveri collettivi contenuti negli appelli alla conversione dopo la Pentecoste.

Gesù stesso perdonando sulla croce e Pietro sul suo esempio, hanno riconosciuto l’ “ignoranza” degli Ebrei di Gerusalemme ed anche dei loro capi. Ancor meno si può, a partire dal grido del popolo: “Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli” che è una formula di ratificazione, estendere la responsabilità agli altri Ebrei nel tempo e nello spazio: Molto bene la Chiesa ha dichiarato nel Concilio Vaticano II: “Quanto è stato commesso durante la Passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo. . . Gli Ebrei non devono essere presentati né come rigettati da Dio, né come maledetti, come se ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura” » (n. 597)

Non è possibile attribuire la responsabilità della morte di Gesù indiscriminatamente né a tutte le autorità ebraiche del tempo di Gesù che erano tra loro divise, né – a maggior ragione – a tutto il popolo di allora. Qualora poi ciò anche fosse non avrebbe senso attribuire una responsabilità in senso stretto a tutti gli ebrei dei tempi successivi e quindi agli ebrei del nostro tempo.

«Colui che ha peccato e non altri deve morire; il figlio non sconta l’iniquità del padre, né il padre l’iniquità del figlio. Al giusto sarà accreditata la sua giustizia e al malvagio la sua malvagità» (Ez 18,20). A queste parole del profeta che attestano inequivocabilmente il principio della responsabilità personale fa eco il diritto romano. «Non filius pro patre».

Certamente è vero che il principio della responsabilità collettiva conserva un suo valore, su di un altro piano però. Per es. un giovane tedesco dei nostri tempi può dire: « io al tempo di Auschwitz non c’ero!» E io cattolico del XXI secolo posso sentirmi ugualmente innocente rispetto a crimini commessi in passato da altri cattolici… Tuttavia questo non è del tutto esatto. Accettando un’eredità accetto anche il dare-avere che gli è connesso.

Se sento giustamente miei i meriti di san Francesco d’Assisi debbo farmi carico anche dei demeriti di tanti altri figli della Chiesa. La dottrina cattolica del peccato originale è strettamente collegata con questo principio di responsabilità corporativa. È però anche chiaro che il peccato originale originato è di tutt’altra natura rispetto al peccato attuale, posto che non comporta – appunto – nessuna responsabilità personale. Inoltre ci sono ancora altre due considerazioni da fare.

Prima di tutto il concetto di peccato richiama quello di responsabilità e quello di responsabilità quello di consapevolezza. Qui nel caso è evidente che anche coloro che a quel tempo vollero la morte di Gesù non la vollero in quanto Messia e men che meno in quanto Figlio naturale di Dio. Naturalmente si può pensare ad una culpa in causa, cioè alla trascuratezza nel valutare i segni dati da Gesù con la sua persona, la sua vita e le sue opere, in questo modo però si entra in quell’ambito che è l’intimo del cuore, ambito che Dio si è riservato… A questo proposito le affermazioni del Nuovo Testamento vanno decisamente in senso contrario alla colpevolezza.

Gesù perdona dall’alto della croce: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,24) e Pietro segue il suo esempio: « Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, così come i vostri capi » (At 3,17). Si potrebbe però obiettare ( e molti in passato e anche oggi hanno rinnovato questa obiezione ): può sempre trattarsi di una ignoranza colpevole e niente mi dice nei testi invocati che essa debba essere assolutamente esclusa.

Qui però – oltre al fatto che, se niente ci obbliga ad escluderla, niente neppure ci costringe ad ammetterla – ci mettiamo su una strada che conduce lontano; conduce a quel luogo in cui tutti noi ci incontriamo, quello che ultimamente ci affratella nella condizione di peccatori. Nessuno può dire con certezza di essere senza peccato: « Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dalle colpe che non vedo » (Sal 18/19,13).

Soprattutto però il Catechismo insiste sulla natura particolare della morte di Gesù e richiama il Catechismo Romano, cioè il suo illustre (e unico…) predecessore nella storia della Chiesa: « La Chiesa, nel magistero della sua fede e nella testimonianza dei suoi santi, non ha mai dimenticato che “ogni singolo peccatore è realmente causa e strumento delle. . . sofferenze” del divino Redentore.

Tenendo conto del fatto che i nostri peccati offendono Cristo stesso, la Chiesa non esita ad imputare ai cristiani la responsabilità più grave nel supplizio di Gesù, responsabilità che troppo spesso essi hanno fatto ricadere unicamente sugli Ebrei: ” E’ chiaro che più gravemente colpevoli sono coloro che più spesso ricadono nel peccato. Se infatti le nostre colpe hanno tratto Cristo al supplizio della croce, coloro che si immergono nell’iniquità crocifiggono nuovamente, per quanto sta in loro, il Figlio di Dio e lo scherniscono [Cf Eb 6,6 ] con un delitto ben più grave in loro che non negli Ebrei.

Questi infatti – afferma san Paolo non avrebbero crocifisso Gesù se lo avessero conosciuto come re divino [Cf 1Cor 2,8 ]. Noi cristiani, invece, pur confessando di conoscerlo, di fatto lo rinneghiamo con le nostre opere e leviamo contro di lui le nostre mani violente e peccatrici [Catechismo Romano, 1, 5, 11] “. E neppure i demoni lo crocifissero, ma sei stato tu con essi a crocifiggerlo, e ancora lo crocifiggi, quando ti diletti nei vizi e nei peccati [San Francesco d’Assisi, Admonitio, 5, 3] » (n. 598)

Il riferimento ai demoni che segue immediatamente la citazione del Catechismo Romano ha forse la funzione ci integrare il senso oggettivo del riferimento a 1Cor 2,8. Il Catechismo Romano interpreta infatti l’espressione « i principi di questo mondo » come se si riferisse alle autorità giudaiche. Trattandosi di un testo del magistero ciò che è essenziale è l’insegnamento dogmatico che ci vuole impartire, non la sua esegesi di un testo della Scrittura, a meno che tutto il senso dell’insegnamento non dipenda da questa interpretazione e qui è evidente che l’insegnamento porta piuttosto sul tema della necessaria consapevolezza perché ci sia il peccato. Il senso oggettivo del testo paolino riguarda invece i demoni.

Il Catechismo richiama la natura teologica della morte di Gesù. Esso è morto per i nostri peccati e la colpa della sua morte deve essere rinvenuta nei peccati degli uomini. In questa luce tutti sono corresponsabili, ma le parti si invertono: i più peccatori sono quelli che hanno più consapevolezza e questi sono indubbiamente i cristiani. Ma questo ordine di idee e di pensieri ci conduce a fare un ulteriore passo avanti.

Proprio la natura teologica dell’evento della morte di Gesù ci porta a considerare che il suo valore è salvifico, che si tratta sì di un giudizio, ma di un giudizio che condanna il diavolo e salva l’uomo. Il sangue di Gesù, a differenza di quello di Abele non grida vendetta, ma intercede efficacemente perdono (cfr. Eb 12,24 e Gen 4,10-11).

A turbare la lettura che il Magistero dà dei racconti evangelici può intervenire la consapevolezza del problema del “Gesù storico”. Non sarà poi che in verità le cose sono andate in modo assolutamente diverso? Io credo che la questione debba essere lasciata fuori e questo per diverse ragioni. Prima di tutto i racconti evangelici trasmettono quello che la Chiesa crede e la Chiesa «ha ritenuto e ritiene con fermezza e costanza massima, che i quattro […] vangeli, di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro salvezza eterna, fino al giorno in cui fu assunto in cielo » (Dei verbum, 19).

Qui io mi propongo di esporre il pensiero della Chiesa. Questo è poi anche – indubitabilmente – il pensiero di ogni cristiano sinceramente credente. Il dialogo interreligioso non è un dialogo tra accademici, ma – appunto – tra uomini religiosi in quanto tali. È vero che anche l’uomo religioso, in relazione alla sua cultura storica e teologica, legge i racconti evangelici in modo sensibilmente diverso.

Purtuttavia io credo fermamente che non sia in modo sostanzialmente diverso. Esemplifico. Il credente digiuno di teologia ed esegesi biblica legge le parole di Gesù senza porsi il problema se esse suonino alle sue orecchie esattamente come risuonarono alle orecchie degli ascoltatori di quel tempo, anzi direi che per lui la cosa va da sé.

Il credente teologo ed esegeta sa che i detti di Gesù ci arrivano attraverso una narrazione che non è equiparabile ad un rilevamento magnetofonico. In quest’ottica può avere un senso ed essere anche molto importante cercare di ricostruire – nella misura del possibile – gli ipsissima verba Jesu, ma non così importante da turbare la sua ferma convinzione che quei racconti ci trasmettono quello che Gesù in quanto Figlio di Dio e fondatore della Chiesa voleva che noi oggi ascoltassimo.

Il problema del Gesù storico per il credente non è allora importante in quanto può mettermi in sicuro possesso di quello che Gesù ha veramente detto, ma in quanto mi fornisce un prezioso aiuto per meglio comprendere quel racconto evangelico che in virtù della mia fede accolgo già senza esitazioni come espressioni di una verità salvifica con valore anche storico.

Si tratta del vecchio e sempre attuale problema del Gesù della storia e del Gesù della fede, un problema che qualunque sincero a autentico credente non può non risolvere se non nel senso di una sostanziale identità. Qualunque dialogo che non si metta coraggiosamente su questa via prende una direzione che non porta da nessuna parte, perché non mette in dialogo uomini religiosi sulle loro convinzioni religiose.

Il che – lo dico a scanso di equivoci – non significa che la questione del Gesù storico e quindi quella dell’uso del metodo storico critico per affrontare la problematica sia da considerarsi inutile. Va solo relativizzata rispetto a ciò che è più essenziale. Qui – posto il taglio che ho voluto dare all’argomento – che è soprattutto di esposizione e commento delle fondamentali posizioni del magistero, mi ritengo quindi autorizzato a lasciarla in disparte.

Qui non si tratta dunque di affrontare una nuova lettura dei racconti evangelici puntando a mettere in luce che le cose in verità sono andate diversamente, ma caso mai facendo notare che il modo con cui questi racconti e molte delle cose ivi affermate vanno letti in un’ottica storica e teologica diversa.

Una di queste è certamente il fatto che degli ebrei contemporanei di Gesù si sono trovati coinvolti in modo decisivo nell’evento tragico della sua morte. In che modo dobbiamo leggere – alla luce della sana ragione, della teologia e dell’insegnamento del Magistero – la loro responsabilità?

Che valore dobbiamo dare a diverse affermazioni del Nuovo Testamento che – estrapolate dal loro contesto e secondo una lettura teologica insufficiente – avevano preso alle nostre orecchie un suono decisamente antigiudaico? Una semplice e per qualche verso banale considerazione ci aiuta già abbondantemente a riequilibrare il discorso e correggere la lettura.

Le invettive e le parole aspre che troviamo qua e là nei racconti e nei discorsi neotestamentari sono rivolte da ebrei a ebrei in un contesto in cui una chiara separazione ancora non si è consumata… Rileggere queste invettive e soprattutto riutilizzarle al di fuori di questo contesto vuol dire semplicemente falsarne radicalmente la portata.

Esse avevano e continuano ad avere un valore salvifico nell’ottica dell’ammonimento e della minaccia profetica, ma perdono tutto il loro significato e ne prendono piuttosto uno falso e sinistro, se diventano ancora oggi espressioni di polemica etnico-religiosa in cui del non-ebrei usano contro degli ebrei invettive usate a suo tempo da ebrei nei confronti di membri del loro stesso popolo nel contesto di una polemica che era essenzialmente intragiudaica.

Ricollocarle nel loro genere letterario proprio – che è appunto quello della minaccia profetica – vuol dire concretamente sentirle innanzitutto come rivolte a sé stessi…[3]

4. La “teologia della sostituzione”

Il tema centrale però è certamente costituito – come abbiamo già avuto modo ripetutamente di osservare – dalla « teologia della sostituzione ». Nostra Ætate si limita a ricordare che « secondo l’apostolo, gli ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui chiamata sono senza pentimento ».  Lumen gentium 16 che precede Nostra Ætate sia nel tempo che nel valore teologico non approfondisce di più. Sarà il magistero di Giovanni Paolo II ad esplicitare i contenuti oggettivamente presenti in modo però solo virtuale nei documenti conciliari e a condurre ai testi ancora più espliciti del Catechismo.

Più volte il papa infatti definisce l’alleanza stipulata da Dio con il popolo di Israele come mai revocata, quindi tuttora valida. La prima occasione è stata l’incontro avvenuto a Magonza con gli esponenti della comunità ebraica, il 17 novembre del 1980, dove il papa ha usato l’espressione « Vecchio Testamento, da Dio mai denunziato [von Gott nie gekündigt Alter Bund] ». Ma l’affermazione è stata ripetuta più volte in questi termini o in termini equivalenti. Ora sappiamo che la frequente ripetizione di uno stesso insegnamento costituisce uno dei criteri – e non dei più secondari – per valutare il grado di autorevolezza dell’insegnamento autentico del Papa [4].

L’11 settembre 1987, parlando a Miami negli Stati Uniti e rivolgendosi ad organizzazioni culturali ebraiche,  il papa  precisa  che  Dio  «  ha  scelto  Abramo, Isacco  e Giacobbe e  con  loro  ha  stretto un’alleanza di amore eterno, che non è mai stata revocata [never revoked](cf. Gen 27,12; Rm 11,29) »

Ancora il 26 novembre 1986, parlando ai rappresentanti della comunità ebraica australiana, il santo padre sottolinea che: « la fede cattolica è radicata nelle verità eterne contenute nelle Scritture ebraiche e nel patto irrevocabile [irrevocable covenant ] fatto con Abramo ».

Il 6 dicembre 1990, in occasione del XXV anniversario della dichiarazione Nostra Ætate: « La Chiesa è pienamente cosciente che le Sacre Scritture portano testimonianza che il popolo ebreo, questa comunità di fedeli e custodi di una tradizione antica migliaia di anni, è una parte essenziale del “mistero” della rivelazione e della salvezza ». Ora, se il popolo ebraico, non come pura realtà etnica, ma in quanto portatore di una tradizione religiosa, rientra non accidentalmente ma essenzialmente nel mistero della salvezza, ciò vuol dire che il suo rapporto con il mistero della Chiesa non si risolve in una pura e semplice “sostituzione”.

Nel 1991, incontrando in Brasile i rappresentanti della numerosa comunità ebraica locale, precisa che: « come dice la Bibbia, “Il Signore ha amato Israele per sempre (1Re 10,9), ha fatto con lui un’Alleanza che non è mai stata spezzata [que jamais foi revogada], depositandovi le speranze messianiche dell’intero genere umano».

Di tutti questi interventi certamente il più importante è quello già citato nella sinagoga di Roma (13 aprile 1986), forse la più antica comunità ebraica della diaspora, dove il papa utilizza l’espressione giustamente diventata famosa «fratelli maggiori ». È opportuno notare come l’insieme di questi interventi – per la frequente riproposizione del concetto – rende evidente che non si tratta di un obiter dictum, cioè di un modo di esprimersi isolato, che potrebbe essere inteso come qualcosa di “sfuggito” o comunque senza importanza.

Ma oltre a ciò i destinatari di questi interventi – che sono sempre autorevoli rappresentanti delle comunità ebraiche locali – sottolinea che il Papa aveva ben presente la problematica e intendeva quindi assumere sul punto una posizione dottrinalmente significativa.

Tutto questo infatti converge nel Catechismo della Chiesa Cattolica, dove al n. 63 leggiamo: « Israele è il Popolo sacerdotale di Dio, [Cf Es 19,6 ] colui che «porta il Nome del Signore» ( Dt 28,10 ). E’ il Popolo di coloro «a cui Dio ha parlato quale primogenito», [Messale Romano, Venerdì Santo: Preghiera universale VI] il Popolo dei «fratelli maggiori» nella fede di Abramo »

5. La teologia di Israele in Rm 9-11

Per una teologia di Israele il passo neotestamentario incontestabilmente centrale è costituito dai capitoli 9-11 della lettera ai Romani. Gli esegeti sono ormai concordi nel ritenere che questi capitoli non costituiscano un elemento secondario, un excursus all’interno di una argomentazione di altra natura. Il fatto che si trovi alla conclusione della sezione dogmatica della lettera lo indica già chiaramente. ma è soprattutto l’argomento centrale dell’epistola paolina che lo rivela.

San Paolo vuole dimostrare l’ assunto fondamentale della sua teologia, cioè che la salvezza dipende dalla fede e la fede è accoglienza delle promesse divine. In quest’ordine di idee si presenta davanti a Paolo una difficoltà formidabile: che ne è delle promesse fatte al popolo di Israele? «Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli» (Rm 9,4-6) « a loro sono state affidate le rivelazioni di Dio. Che dunque? Se alcuni non hanno creduto, la loro incredulità può forse annullare la fedeltà di Dio? Impossibile! » (Rm 3,2-4)

Il tema è quindi la provvidenza salvifica di Dio, non tanto in quanto rivolta al singolo, ma in quanto ha per oggetto gruppi di uomini dotati di una particolare unità di destino – popoli – in vista del loro ruolo nella storia della salvezza. Dio non promette mai nelle Scritture la salvezza incondizionatamente ad un singolo, ma a un popolo lo ha fatto e questo è il popolo di Israele.

Ora sembra proprio che qui la promessa di Dio si sia rivelata illusoria, perché il popolo di Israele – nel suo insieme – non ha accettato la predicazione degli apostoli. San Paolo cerca di rispondere e la sua risposta di scagliona in tre tentativi. Il fatto che una soluzione sia seguita da un’altra non vuol dire che la precedente sia falsa, ma indica certamente che è insoddisfacente a sé sola.

Così dapprima san Paolo dice che il vero Israele non è l’Israele “secondo la carne”, perché Israele stesso nella figura del patriarca Abramo è entrato nell’alleanza credendo alla promessa di Dio: «Tuttavia la parola di Dio non è venuta meno. Infatti non tutti i discendenti di Israele sono Israele, né per il fatto di essere discendenza di Abramo sono tutti suoi figli. No, ma: in Isacco ti sarà data una discendenza, cioè: non sono considerati figli di Dio i figli della carne, ma come discendenza sono considerati solo i figli della promessa » (Rm 9,6-8)

Si è dunque figli di Abramo in quanto si eredita la sua fede e non soltanto per discendenza biologica. Sta di fatto però che la promessa di Dio riguardava la discendenza di Abramo, il suo popolo, in termini ben concreti. Dio infatti promette e dona un figlio ad Abramo e Sara.

È per questo che san Paolo prosegue l’argomentazione evocando il ben noto tema profetico del “resto di Israele”. «Io domando dunque: Dio avrebbe forse ripudiato il suo popolo? Impossibile! Anch’io infatti sono Israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino. Dio non ha ripudiato il suo popolo, che egli ha scelto fin da principio. O non sapete forse ciò che dice la Scrittura, nel passo in cui Elia ricorre a Dio contro Israele? “Signore, hanno ucciso i tuoi profeti, hanno rovesciato i tuoi altari e io sono rimasto solo e ora vogliono la mia vita” (1Re 19,10). Cosa gli risponde però la voce divina? “Mi sono riservato settemila uomini, quelli che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal” (Ibid. 18). Così anche al presente c’è un resto, conforme a un’elezione per grazia » (Rm 11,1-5).

In fondo lui e i suoi collaboratori, la comunità degli apostoli e della chiesa di Gerusalemme, un gran numero di credenti sono israeliti. Essi sono “il resto”. La Chiesa è composta di giudei e di gentili. Il comando di Cristo di rivolgersi dapprima alla casa di Israele è stato rispettato. Questo però pone come una spaccatura all’interno di Israele: il resto e gli altri.

Bisogna tener conto di nuovo che quello che san Paolo ha qui in vista non è direttamente il problema della salvezza individuale, i cui esiti sono in definitiva noti solo a Dio, bensì il piano di Dio; egli si situa decisamente in una prospettiva di teologia della storia, cioè di teologia della provvidenza storica di Dio. Anche il piano provvidenziale di Dio sulla storia è noto – nei suoi ultimi dettagli a Dio solo – ma è un piano (il mistero nascosto dai secoli eterni) che Dio ha voluto rivelare agli uomini nelle sue linee generali. A queste linee generali appartiene il ruolo salvifico primario affidato a Israele. Ora, nonostante il resto, Israele sembra essere posto ora “fuori gioco”.

San Paolo allora avanza una nuova soluzione: il rifiuto di Israele non rappresenta il venir meno – neppure parziale – del piano di Dio, perché Dio sa servirsi del male della storia per farne uscire un bene ancor maggiore, per cui questo stesso rifiuto, l'”indurimento” di Israele, ha un senso provvidenziale. A causa del rifiuto di Israele sono le genti ad entrare nel piano di Dio. Alla fine poi anche Israele entrerà e il suo ruolo sarà straordinario [5].

« Ora io domando: Forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta ai pagani, per suscitare la loro gelosia. Se pertanto la loro caduta è stata ricchezza del mondo e il loro fallimento ricchezza dei pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale! » (Rm 11,11-12)

Questa «indurimento [ pôrôsis ]» d’altra parte non comporta un venir meno dell’alleanza: « Quanto al vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! » (28-29) San Paolo non spiega perché l’indurimento di Israele produce l’entrata delle genti. Parrebbe anzi che questo sia assolutamente inessenziale, dato che i popoli erano comunque chiamati alla salvezza. Qui mi rivolgo ad un grande esegeta francese, morto da pochi anni, che – tra tutti – mi pare quello che ha affrontato più direttamente e convincentemente questo enigma. Stanislas Lyonnet [6] propone due ragioni, strettamente collegate tra loro:

Primo: l’antisemitismo già ampiamente diffuso nell’ambiente ellenistico e romano antico. Se il messaggio di Cristo si fosse presentato con connotati esclusivamente – se non prevalentemente – giudaici difficilmente avrebbe potuto essere accolto dalla cultura greco-romana.

Secondo: i giudeo-cristiani costituiscono un problema all’interno della Chiesa primitiva composta di giudei e gentili per la loro difficoltà a staccarsi dall’osservanza scrupolosa e letterale della componente cerimoniale della legge, soprattutto per la loro pretesa che diventare cristiano dovesse necessariamente significare un previo diventare ebreo. Qui non è più direttamente un problema collegato con la presenza dell’antisemitismo nella cultura dell’epoca, quanto il significato che l’ebraismo doveva rivestire all’interno del piano della salvezza. Da indispensabile “pedagogo”, rischiava di diventare un ingombrante e falsificante schermo.

A queste ragioni aggiungerei il fatto che le genti: qui i greci e i romani – e quindi le loro culture – vengono ad assumere un ruolo storico salvifico primario, con tutti i vantaggi che ciò significa. Il bene più grande non consiste nel donare il bene, quanto nel far liberamente fare il bene… Naturalmente nasce un grande problema. Se il ruolo dei popoli diventa perspicuo, il ruolo di Israele rischia di diventare sempre più incomprensibile. La crisi infatti si manifesta all’interno della Chiesa e coinvolge il significato dell’Antico Testamento.

Da Marcione a von Harnak si è affacciata spesso la tentazione di disfarsi dell’Antico Testamento come di un fastidioso “ingombro”. Sappiamo che la Chiesa “grazie a Dio” vi ha resistito. Ciò non toglie che la persistenza storica di Israele risultava essere sempre di più incomprensibile. Non così tanto però da non percepire che era un evento di natura provvidenziale.

La teologia agostiniana del “popolo testimone” lo attesta. Nel suo complesso essa non è soddisfacente, perché riduce Israele ad un ruolo meramente materiale, di “bibliotecario”, purtuttavia questa teoria costituisce essa stessa una testimonianza. La testimonianza che i cristiani non se la sono mai sentita – nelle loro voci più autorevoli e pensose ma anche nelle istanze magisteriali – di considerare Israele alla stregua di tutti gli altri popoli. Ora se l’antica alleanza è venuta meno, Israele non esiste più e viceversa: se Israele esiste ancora, allora l’Alleanza non è venuta meno. Israele infatti non è un popolo come gli altri.

La sua natura di popolo è ultimamente soprannaturale, “ecclesiale”. Nasce da una convocazione, la convocazione di Dio. Se questa convocazione viene meno, viene meno il suo risultato, ma se il risultato permane ciò significa che la convocazione è ancora in atto.

San Paolo parla di una futura conversione di Israele. Anche questo presuppone una sua permanenza. Se Israele è nel frattempo sparito chi si convertirà? Possiamo fare un’analogia con la teoria condizionalista nell’escatologia individuale che i TdG hanno fatto propria. Se l’uomo quando muore muore totalmente, cioè non esiste nessuna anima individuale che possa sopravvivere, allora come farà a risorgere?

La resurrezione diventa inevitabilmente una nuova creazione nel senso di creazione di una cosa nuova e non c’è più nessun legame tra quello che c’era prima e quello che viene dopo… Una riflessione attenta sui termini usati da san Paolo è sufficiente poi per giungere alla stessa conclusione.

San Paolo – proprio nel contesto dell'”indurimento” di Israele – usa termini che implicano un soggetto che continua ad esistere come tale davanti a lui: « a loro sono state affidate le rivelazioni di Dio. Che dunque? Se alcuni non hanno creduto, la loro incredulità può forse annullare la fedeltà di Dio? Impossibile! » (Rm 3,2-4; cfr 2Tim 2,13). « Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi [ hoítinés eisin Israêlîtai, hôn hê yiothesía kaì hê dóxa kaì hai diathêkai kaì hê nomothesía kaì hê latréia kaì hai epangelíai, hôn hoi patéres ]; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli » (Rm 9,4-6).

«In greco abbiamo qui una frase nominale, senza verbo, il che esprime uno stato permanente, come ha ben compreso la Volgata che traduce “quorum sunt”, in armonia con il presente: “essi che sono Israeliti”» [7]. Il problema ora però si sposta. Se Israele permane che ruolo viene ad aver la Chiesa? L’espressione “vero Israele” o “nuovo Israele” o – il che è lo stesso – “nuovo popolo di Dio” è troppo ancorata nella sua tradizione e nella sua autocomprensione per rinunciarvi. Il papa d’altra parte non l’ha fatto.

L”espressione “vero” non deve trarre in inganno: nel linguaggio patristico non ha sempre come controparte “falso”. Per es. quando alcuni padri chiamano “vero corpo di Cristo” l’effetto del corpo di Cristo che è l’eucaristia non intendono ovviamente dire che l’eucaristia sia il falso corpo di Cristo! Il rapporto è tipologico: un evento (che rimane assolutamente reale come tale) rimanda ad un’altro evento. La Chiesa è l’Israele messianico che si sente sempre legata all’Israele antico, come appunto ai suoi “fratelli” maggiori.

Questo non vuole ovviamente togliere la differenza. Per la Chiesa un velo rimane steso sugli occhi di Israele. Il velo non significa di suo che la legge a cui Israele rimane attaccato sia qualcosa di falso o di transitorio, ma che gli occorre un passo – che è la conversione – per coglierne il vero senso. Che non è quello della sua distruzione, ma del suo compimento. Neppure si deve pensare che Israele percorra ora il suo cammino come in parallelo, cioè completamente staccato e autonomo rispetto al cammino della Chiesa.

Tutto sarebbe rimandato all’eschaton. In quell’occasione Israele si convertirà. Questa visione trasmette un’immagine falsa dei rapporti tra piano di Dio e libertà umana. La conversione è sempre un dono di Dio, ma un dono fatto alla libertà dell’uomo che – per sua natura – si dispiega nel tempo. Così deve essere per la conversione di Israele.

Un concetto ci aiuta a comprendere come questo processo storico continui ad avere un suo legame teologico e concreto con la vicenda storica della Chiesa di Cristo: la “gelosia [parazêlóô: provocare ad invidia e gelosia]”. Una gelosia reciproca. I popoli sono gelosi di Israele per la sua elezione (e di fatto hanno cercato di togliergliela…), Israele deve diventare geloso della Chiesa, vedendo come quei beni che sono i suoi per primogenitura sono da lei sviluppati e “inverati”. Purtroppo – di fatto – questa gelosia nei rapporti reciproci ha quasi sempre declinato nel senso dello “zelo amaro” ( zêlos pikrós cfr. Gc 3,14). Si comprende così come la relazione deve sussistere, ma non deve essere improntata al proselitismo [8].

Non si tratta di “tirare la giacca” dell’ebreo per invitarlo fastidiosamente a diventare cristiano, quanto di approfondire nella vita cristiana quei beni che sono di Israele per suscitare la sua gelosia. Rifiuto del proselitismo non significa rifiuto della missione – che il cristiano per sua natura non potrà mai fare senza suicidarsi – ma suo affinamento e approfondimento, secondo il piano di Dio. Propriamente infatti l’ebreo non si converte, arriva a compimento.

Qui ancora ci viene in soccorso il Catechismo: « Del resto, quando si considera il futuro, il popolo di Dio dell’Antica Alleanza e il nuovo popolo di Dio tendono a fini analoghi: l’attesa della venuta (o del ritorno) del Messia. Ma tale attesa è, da una parte, rivolta al ritorno del Messia, morto e risorto, riconosciuto come Signore e Figlio di Dio, dall’altra è rivolta alla venuta del Messia, i cui tratti rimangono velati, alla fine dei tempi: si ha un’attesa accompagnata dall’ignoranza o dal misconoscimento di Gesù Cristo » (n. 840).

Ci troviamo insomma davanti come a tempi (da intendere ovviamente in senso qualitativo kairologico più che quantitativo cronologico) che coesistono. Diceva Sciacca: « […] il tempo è compiuto, ma non ancora consumato »[9]. Il tempo non ancora consumato conosce una “contemporaneità dei tempi”.

Si tratta di un tema caro agli antichi teologi.

Per sant’Agostino l’umanità è passata per tre stati successivi, il primo dopo la caduta fino a Mosè e si chiama stato della legge di natura; il secondo da Mosè a nostro Signore ed è lo stato della legge scritta; il terzo da nostro Signore fino a noi, lo stato di grazia che durerà fino alla fine dei tempi. Li riassume in tre parole: «Ante legem, sub lege, sub gratia » e, andando più lontano, osserva che questi diversi stati della umanità s’incontrano facilmente nelle persone anche oggi, le quali possono stare « Ante legem », o « sub lege » o « sub gratia ».

San Tommaso eredita questa tematica da Agostino e un suo passo significativo è citato a questo proposito proprio dal Catechismo: «La Legge antica è una preparazione al Vangelo. “La Legge è profezia e pedagogia delle realtà future” [Sant’Ireneo di Lione, Adversus haereses, 4, 15, 1]. Essa profetizza e presagisce l’opera della liberazione dal peccato che si compirà con Cristo, ed offre al Nuovo Testamento le immagini, i “tipi”, i simboli per esprimere la vita secondo lo Spirito. La Legge infine viene completata dall’insegnamento dei libri sapienziali e dei profeti, che la orientano verso la Nuova Alleanza e il Regno dei cieli.

Ci furono, nel regime dell’Antico Testamento, anime ripiene di carità e della grazia dello Spirito Santo, le quali aspettavano soprattutto il compimento delle promesse spirituali ed eterne. Sotto tale aspetto, costoro appartenevano alla nuova legge. Al contrario, anche nel Nuovo Testamento ci sono uomini carnali, che ancora non hanno raggiunto la perfezione della nuova legge, e che bisogna indurre alle azioni virtuose con la paura del castigo o con la promessa di beni temporali.

Però, la Legge antica, anche se dava i precetti della carità, non era in grado di offrire la grazia dello Spirito Santo, in virtù del quale «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori» ( Rm 5,5 ) [San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, 107, 1, ad 2] » (n. 1964).

A questa misteriosa permanenza di Israele nella storia – con il suo significato provvidenziale – si possono forse applicare mutatis mutandis le osservazioni che il papa, nel suo libro-intervista Varcare le soglie della speranza, rivolge al mistero della disunione dei cristiani: « […] potremmo davvero domandarci: perché lo Spirito Santo ha permesso tutte queste divisioni? In genere, le loro cause e i meccanismi storici sono conosciuti. È legittimo però chiedersi se non vi sia anche una motivazione metastorica.

A questa domanda possiamo trovare due risposte. Una più negativa, vede nelle divisioni il frutto amaro dei peccati dei cristiani. L’altra, invece, più positiva, è generata dalla fiducia in Colui che trae il bene persino dal male, dalle debolezze umane: non potrebbe essere, dunque, che le divisioni siano state anche una via che ha condotto e conduce la Chiesa a scoprire le molteplici ricchezze contenute nel Vangelo di Cristo e nella redenzione da Lui operata? forse tali  ricchezze non sarebbero potute venire alla luce diversamente…

In una visione più generale, si può infatti affermare che, per la conoscenza e per l’azione umane, è significativa anche una certa dialettica. Lo Spirito Santo, nella Sua condiscendenza divina, non lo ha preso in qualche modo in considerazione? Bisogna che il genere umano raggiunga l’unità mediante la pluralità, che impari a raccogliersi nell’unica Chiesa, pur nel pluralismo delle forme del pensare e dell’agire, delle culture e delle civiltà. Una tale maniera di intendere non potrebbe essere in un certo senso più consona alla sapienza di Dio, alla Sua bontà e provvidenza?

 Questa, tuttavia, non può essere una giustificazione per divisioni che si approfondiscono sempre di più! Deve giungere il tempo in cui si manifesti l’amore che unisce! Numerosi indizi lasciano pensare che quel tempo sia effettivamente giunto e, di conseguenza, risulta evidente l’importanza dell’ecumenismo per il cristianesimo. Esso costituisce una risposta all’invito della Prima Lettera di Pietro a “dare ragione della speranza che è in noi” (cfr. 3,15)» [10].

6. L’ebraicità di Gesù

Parlando del Gesù storico, abbiamo già rilevato che – se la storicità di Gesù colta con la metodologia storico critica non deve né può divenire normativa per il nostro credere – tuttavia la sua dimensione storica e quindi la sua ebraicità rivestono un significato difficilmente sopravvalutabile per la comprensione della sua persona.

Come la sua storicità però, così la sua ebraicità non è soprattutto affare di metodologia scientifica, proprio perché abbiamo da interrogare una tradizione ebraica vivente. Questo atteggiamento ha diversi risvolti teologici interessanti. Per es. il Catechismo della Chiesa Cattolica corregge il rapporto che Gesù ha con la legge e con il partito dei farisei.

La lettura moralistica che risolve tutto in una polemica con l’ipocrisia e il legalismo è fuorviante. Gesù riconosce come positivo l’attaccamento alla legge e il suo vero rapporto con la legge si condensa nel famoso detto: « Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento » (Mt 5,17).

Il compimento avviene nella sua persona e nella sua vita e il culmine è la croce. Questo ha dei risvolti importanti per la nostra vita di cristiani. Dobbiamo riconoscere come la polemica unilaterale e superficiale contro il legalismo e l’ipocrisia religiosa ci ha spesso condotti sulle rive di un “buonismo” dolciastro e decisamente ambiguo.

La liberazione dalla legge non consiste in una vita morale dalle esigenze più blande, ma nel vivente rapporto con la Persona che si è fatto «nostra giustizia». “Legge” – ormai lo sanno tutti – ha un significato non strettamente legalistico. Andrebbe tradotto meglio con “istruzione” e ricopre il senso di un insegnamento che ci vuole aiutare a trovare in tutti i recessi della nostra vita la concretezza della volontà di Dio. Per usare le espressioni di sant’Ignazio di Loyola: «cercare e trovare la volontà di Dio nella disposizione della propria vita».

Così un incontro simpatetico con il mondo ebraico fornisce al cristiano di oggi un mezzo preziosissimo per comprendere più a fondo chi è Gesù. Non soltanto il vantaggio di pace di un dialogo autentico – qualcosa di sempre auspicabile per chi è chiamato ad essere operatore di pace – ma anche un aiuto prezioso per approfondire la figura di colui che per noi è tutto.

Mi sono trovato di recente a consultare una grammatica di aramaico palestinese opera di un grande studioso tedesco del secolo scorso. Nella prefazione – quasi per giustificare il suo meticoloso sforzo di ricostruzione di una lingua antica non più parlata e di un suo particolare e marginale “dialetto” – scriveva: «La fatica che ha per oggetto una lingua ormai da tempo scomparsa e monumenti letterari che non possono essere considerati in sé stessi tra i supremi prodotti dello spirito, non è inutile se può servire ad appianare la strada alla comprensione del più grande problema della storia universale che è l’apparizione di Gesù» [11].

Gesù è ebreo. Si tratta dell’ovvieta delle ovvietà. In lui – per un cristiano – si condensa il senso di tutte le cose: il cristianesimo non è soprattuto una dottrina, ma una persona. Una persona umana appartiene necessariamente ad un popolo, ad una cultura. La conoscenza del popolo e della cultura di Gesù viene dunque a prendere un significato unico. La riflessione su antigiudaismo e antisemitismo assume perciò un significato che travalica quello di una doverosa purificazione della memoria: viene a “liberare” un settore della riflessione storico teologica su Gesù che si trovava come congelato e bloccato in una pania residuale di pregiudizi infondati.

La ricerca sull’ebraicità di Gesù poi, se non vuole arenarsi nella ricerca erudita e astratta, deve prendere atto di una verità che – anch’essa – per noi cattolici appartiene al regno dell’ovvio (a quello del marchese di La Palice): le verità vive che riguardano l’uomo si debbono cercare prima ancora che in pagine scritte su carta (o roccia o argilla o papiro o pergamena…) nei cuori di uomini viventi e quindi in una tradizione vivente di cui è sempre portatrice una comunità, un popolo.

Così l’ebraismo vive non nei suoi monumenti di pietra o letterari e nelle ricostruzioni raffinate degli eruditi, ma nella tradizione di un popolo che è ancora – provvidenzialmente – tra noi. Il “popolo testimone” dunque per noi è importante non come muto e ignaro “bibliotecario” dei sacri testi, ma come portatore nella sua stessa tradizione e quindi nella sua stessa vita, di quell’identità ebraica che per noi cristiani è assolutamente essenziale.

Note

[1] « Sarebbe senz’altro auspicabile che questa rilettura “in spirito di pentimento” di secoli cristiani di polemica, di disprezzo e di violenza antiebraica […] si faccia prima di tutto con una messa in luce più esplicita dell’autentica dottrina della fede cattolica sul popolo ebreo, così come il Magistero supremo della Chiesa ha incominciato a insegnarlo ex professo dopo il Concilio Vaticano II. […] Solo l’insegnamento dottrinale del Magistero permette infatti di discernere in che cosa le opinioni teologiche sul popolo ebraico che troviamo nella storia della Chiesa costituiscono una espressione fedele della fede cattolica e in che cosa se ne discostano sotto la pressione di quello che il papa chiama nella Tertio millennio adveniente ” un’atmosfera passionale alla quale solo grandi spiriti veramente liberi e pieni di Dio riuscivano in qualche modo a sottrarsi ” (35) » Jean-Miguel Garrigues, Antijudaïsme et théologie d’Israël, in: AA. VV., Radici dell’antigiudaismo in ambiente cristiano. Colloquio Intra-Ecclesiale, Atti del Simposio teologico-storico. Città del Vaticano, 30 ottobre – 1 novembre 1997. Grande Giubileo dell’Anno 2000, Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 2000, p. 322.

[2] La Documentation Catholique, 29 (1938), col. 1460.

[3] Commentando il documento della Pontificia Commissione Biblica Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana il card Ratzinger osserva: «[…] vorrei […] sottolineare un’intuizione che per me appare particolarmente importante. Il documento mostra che i rimproveri rivolti nel Nuovo Testamento agli ebrei non sono più frequenti né più aspri delle accuse contro Israele nella legge e nei profeti, quindi all’interno dello stesso Antico Testamento (n. 87). Essi appartengono al linguaggio profetico dell’Antico Testamento e quindi devono essere interpretati come le parole dei profeti. Essi mettono in guardia da deviazioni presenti, ma per loro natura sono sempre temporanei e presuppongono quindi anche sempre nuove possibilità di salvezza » (Joseph Ratzinger, Prefazione a: Pontificia Commissio Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella bibbia cristiana, Città del Vaticano: Libreria Editrice vaticana, 2001, p. 12).

[4] «Ma questo assenso religioso della volontà e della intelligenza lo si deve in modo particolare prestare al magistero autentico del romano Pontefice, anche quando non parla ” ex cathedra “. Ciò implica che il suo supremo magistero sia accettato con riverenza, e che con sincerità si aderisca alle sue affermazioni in conformità al pensiero e in conformità alla volontà di lui manifestatasi che si possono dedurre in particolare dal carattere dei documenti, o dall’insistenza nel proporre una certa dottrina, o dalla maniera di esprimersi » (Lumen gentium 25).

[5] «Quid, inquam, faciet talis assumptio, nisi quod gentiles resurgere faciat ad vitam? Gentiles enim sunt fideles qui tepescent. […] Vel etiam qui totaliter cadent decepti ab Antichristo, Iudaeis conversis in pristinum fervorem restituentur. Et etiam sicut Iudaeis cadentibus, gentiles post inimicitias sunt reconciliati, ita post conversionem Iudaeorum, imminente iam fine mundi, erit resurrectio generalis, per quam homines ex mortuis ad vitam immortalem redibunt » (san Tommaso d’Aquino, Super Epistolam B. Pauli ad Romanos lectura, Caput 11, lectio 2 (in Rm 11,15).

[6] Cfr. Stanislas Lyonnet, S.J., Etudes sur l’epître aux Romains (Analecta biblica 120), Roma: Editrice Pontificio Istituto Biblico, 1990, pp. 264-273 (Le rôle d’Israël dans l’histoire du salut selon Rom 9-11, 1977).

[7] Jean-Miguel Garrigues, Antijudaïsme et théologie d’Israël, in: AA. VV., Radici dell’antigiudaismo in ambiente cristiano. Colloquio Intra-Ecclesiale, Atti del Simposio teologico-storico. Città del Vaticano, 30 ottobre – 1 novembre 1997. Grande Giubileo dell’Anno 2000, Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 2000, p. 326.

[8] Cfr. anche il Direttorio ecumenico 28, nota 15 (EV 2, 1221) dove si intende un modo di procedere non conforme allo spirito evangelico. Qui si intende soprattutto un atteggiamento che misconosca il ruolo provvidenziale permanente e la dignità peculiare di Israele.

[9] Michele Federico Sciacca, La libertà e il tempo, Marzorati, Milano 1965, p. 337.

[10] Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, intervista con Vittorio Messori, Milano: Mondadori, 1994, pp. 167-168.

[11] Gustaf Dalman (1855-1941), Grammatik des jüdisch-palästinischen Aramäisch nach den idiomen des Palästinischen Talmud des Onkelostargum und Prophetentargum und der Jerusalemischen Targume.