Biografie ritoccate per antifascisti redenti

CoverCorriere della sera 22 settembre 2005

La rivista «Primato» e i littoriali non furono oasi di libertà: la polemica sul libro di Mirella Serri

 Da Vittorini ad Argan, perché gli intellettuali nascosero l’adesione al regime

Pierluigi Battista

Continua oggi, con l’intervento di Pierluigi Battista, la discussione sul libro di Mirella Serri, «I redenti – gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948», edito dal Corbaccio (pagine 372, 19,60). Con il termine «redenti», l’autrice si riferisce ai tanti scrittori, artisti, filosofi, storici, giornalisti, registi, che passarono drasticamente da posizioni fasciste, soprattutto collaborando con la rivista di Giuseppe Bottai, «Primato», a una convinta militanza antifascista, spesso nelle file del Partito comunista.

Il critico Carlo Muscetta, che appartenne a questa schiera, parlò di «dissimulazione onesta», mutuando la nota espressione di Torquato Accetto. Ma fu semplice dissimulazione quella di Giulio Carlo Argan, Mario Alicata, Vitaliano Brancati, Galvano Della Volpe, Renato Guttuso, Roberto Rossellini, Giaime Pintor? Come ha notato Aurelio Lepre nell’intervento iniziale il 13 settembre, si trattò di un naturale bisogno di oblìo dopo la catastrofe della guerra. Un oblìo, ha notato il recensore, che durò troppo a lungo.

Luciano Canfora nell’articolo del 15 settembre ha notato come il radicale passaggio di campo fu agevolato dallo stesso Togliatti, che sapeva quanto fossero importanti gli intellettuali per la costruzione di un’egemonia del Pci. Giovanni Belardelli domenica 18 ha infine citato come emblematico il caso del grande storico Delio Cantimori, che alla fine degli anni Trenta considerava fascismo e comunismo come salutari espressioni delle forze nuove che si contrapponevano alla vecchia e decadente società borghese.

«Gli intellettuali che vissero due volte», li definisce Mirella Serri nel suo libro I redenti (Corbaccio) di cui hanno scritto sulle colonne del Corriere Aurelio Lepre, Luciano Canfora e Giovanni Belardelli. Sono gli scrittori, i poeti, i pittori, gli storici, i filosofi, i giornalisti che nella loro prima vita furono fascisti, cantarono le lodi del Duce, aderirono più o meno entusiasticamente al regime e passarono invece il resto della seconda vita, la seconda, quella successiva al 1945, a cancellare le tracce della vita precedente.

Se ci si chiede perché sia andato tanto di moda in questi decenni il sensazionalismo della scoperta compromettente (una lettera inviata a Mussolini, la ricevuta di un finanziamento del Minculpop, un articolo seppellito negli archivi e improvvisamente riemerso), la risposta è che una verità troppo a lungo negata o rimossa finisce sempre per riaffiorare in forme mostruose.

Affermare che gli intellettuali italiani ebbero prolungate e soddisfacenti relazioni con il regime fascista non è più controverso. Dopo tanti anni di omertà e di imbarazzo, la domanda meno ovvia è diventata questa: perché gli intellettuali italiani hanno attraversato la loro vita di «redenti» occultando ciò che era accaduto prima, inventandosi un passato inesistente, raccontando percorsi esistenziali mai veramente vissuti? Il libro di Mirella Serri affronta senza scandalismo la questione di questa frattura mai apertamente indagata, né dai singoli né da una storiografia compiacente.

Rilegge le pagine di Primato , la rivista di Bottai che la vulgata post-fascista ha descritto e glorificato come fucina di antifascisti, vivaio di giovani ingegni dissidenti che seppero sfruttare ogni opportunità consentita dal regime per manifestare il loro latente antifascismo lungo la via della sicura «redenzione».

E scopre che Carlo Muscetta e Renato Guttuso, Giulio Carlo Argan e Mario Alicata, Giaime Pintor e Galvano Della Volpe, e tutti gli altri antifascisti in pectore, antifascisti dissimulati, antifascisti «nicodemiti», durante gli anni della guerra nazi-fascista collaborarono a una rivista in cui l’impegno bellico veniva esaltato come «un sacrificio religioso» e in cui ci si commuoveva per le sorti dei «vari miti imperiali, mediterranei, europei, storici e razziali». Proprio così: «razziali».

Nelle riviste del «vivaio antifascista» (non solo Primato , ma anche i giornali dei Guf, come Roma fascista) la campagna antiebraica del regime veniva tranquillamente assecondata, l’invettiva antisemita (nel 1941, nel 1942, mentre si stava mettendo in moto la spaventosa macchina dello sterminio, non nei decenni precedenti) era all’ordine del giorno.

Ma nella seconda vita, nell’Italia repubblicana e democratica e antifascista, c’è stato almeno un intellettuale di quelli che offrirono la loro collaborazione a Primato e ne ricevettero prestigio, che abbia riletto quelle pagine con una certa, sia pur misurata e non autodistruttiva, vergogna? Nemmeno uno.

E allora, perché inventarsi (un’invenzione pura, come ha scritto negli anni passati Michele Sarfatti) il mito del vivaio antifascista covato nelle stanze di un potente gerarca fascista come Bottai in cui la politica del regime sarebbe stata audacemente aggirata, ridicolizzata, svuotata da un nugolo di giovani intellettuali che sembravano fascisti «fuori» ma in realtà erano antifascisti «dentro»?

Hanno detto: quelle riviste e quei giornali erano una nicchia di relativo anticonformismo, delle piccole oasi di libertà. Ma quante oasi di libertà fiorivano in una feroce dittatura che pure spegneva ogni spiraglio di autonomia e di dissenso? Gli intellettuali che parteciparono alla covata di Giovanni Gentile hanno raccontato (ma uno storico severo come Gabriele Turi ha drasticamente ridimensionato la leggenda) che anche l’Enciclopedia italiana e la Normale di Pisa erano delle oasi di libertà e dunque chi è stato con Gentile non si è compromesso più di tanto con un esponente di punta della cultura fascista.

Quelli che saggiarono i loro ingegni nei Littoriali hanno anch’essi avanzato l’idea che in quelle gare si materializzasse un’altra oasi di libertà, ma un altro studioso, Luca La Rovere, ha spiegato come attraverso i Guf il fascismo protendesse i propri tentacoli totalitari sulla gioventù italiana e che i giovani dissenzienti protestavano perché il fascismo stava diventando troppo poco fascista, troppo accomodante, troppo moderato e compromissorio: volevano un fascismo rivoluzionario e intransigente.

La teoria della molteplicità delle oasi non regge a un minimo di indagine fattuale: i giovani che stavano percorrendo «il lungo viaggio attraverso il fascismo» di zangrandiana memoria a tutto pensavano fuorché di approdare all’antifascismo «redento» dei decenni successivi.

E dunque, perché non hanno raccontato la verità? Nel corso dei decenni hanno elaborato piuttosto sofisticate strategie di occultamento, raffinate e tortuose tecniche di autogiustificazione, abbellendo le biografie, depurandole di ogni contaminazione compromettente. Hanno avanzato a scusante l’attenuante della giovane età, ma anche Vittorio Foa e Giancarlo Pajetta erano giovani, ciò che non impedì loro di trascorrere i migliori anni della giovinezza nelle prigioni fasciste.

Hanno pateticamente ritoccato le date, retrodatando clamorosamente il momento della loro uscita dal fascismo: Elio Vittorini raccontò che con la guerra di Spagna lui aveva chiuso con il fascismo, circostanza che tuttavia nel 1942 non gli impedì di partecipare (con Giaime Pintor) a un convegno a Weimar presente Goebbels.

Carlo Muscetta, lo ricorda Mirella Serri, elaborò la scappatoia della «dissimulazione onesta», per dire che chi partecipava alle iniziative del regime faceva finta di aver aderito al fascismo ma in realtà custodiva in petto un palpitante cuore antifascista. E poi si è imposta la teoria della competenza «tecnica» e apolitica, per cui un grande giurista come Piero Calamandrei poté collaborare con il Guardasigilli Grandi per la stesura di un nuovo codice solo «tecnicamente» e soltanto «tecnicamente» Argan poteva occupare un posto di rilievo nel ministero di Bottai.

Modi diversi ma convergenti per cancellare le tracce. Ma la cancellazione della prima vita è stata pagata a caro prezzo. Perché il disvelamento della verità occultata si è realizzato nell’ambito di un clima feroce di resa dei conti in cui ogni frammento della prima vita cancellata è stato rinfacciato con una crudeltà che ha costretto chi di volta in volta si è trovato «vittima» di una scoperta a umilianti ammissioni, come accadde a Giovanni Spadolini e Norberto Bobbio, oppure a spavalde negazioni, come nel caso di Giorgio Bocca, più volte bersagliato a causa degli scritti antisemiti vergati nei primi anni Quaranta.

Una ferocia che ha finito per alimentare un clima di sospetto nei confronti di chi, come Mirella Serri, si è chiesto come mai ancora nel ’43 un eroe come Giaime Pintor coltivasse l’idea di partire volontario con la Wehrmacht per la campagna di Russia. Ma fare storia non significa accusare qualcuno o emettere verdetti morali. Significa semplicemente accostarsi a una materia ancora viva, resa torbida da decenni costellati da troppi silenzi.

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Mirella Serri, I redenti – gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948,  Corbaccio 2005;  pagine 372