I consigli di sant’Ambrogio e sant’Ignazio di Antiochia

Rimini,20 -08-2010; meeting rimini comunione e liberazione, volontari al lavoro. ©Riccardo Gallini_GRPhotTempi.it, 14 novembre 2014

Giovanni Fighera

Devo ringraziare una mia studentessa che nel diario, poco tempo fa, ha trascritto il consiglio che il grande sant’Ambrogio, vescovo di Milano, offre a tutti i papà e le mamme. Sono rimasto impressionato dalla bellezza e dall’essenzialità del suo pensiero tanto che l’ho fatto conoscere a tanti che hanno condiviso le mie impressioni. È davvero liberante, perché permette di sbarazzarsi del troppo e del vano, per usare un’espressione dantesca. Consente di andare al cuore della questione e di affidarsi. Qui sta la vera possibilità di libertà e di letizia anche di fronte alla preoccupazione per l’educazione dei figli.

Sentiamo allora sant’Ambrogio:

«L’educazione dei figli è impresa per adulti disposti ad una dedizione che dimentica se stessa: ne sono capaci marito e moglie che si amano abbastanza da non mendicare altrove l’affetto necessario.

Il bene dei vostri figli sarà quello che sceglieranno: non sognate per loro i vostri desideri. Basterà che sappiano amare il bene e guardarsi dal male e che abbiano in orrore la menzogna. Non pretendete dunque di disegnare il loro futuro; siate fieri piuttosto che vadano incontro al domani con slancio anche quando sembrerà che si dimentichino di voi.

Non incoraggiate ingenue fantasie di grandezza, ma se Dio li chiama a qualcosa di bello e di grande, non siate voi la zavorra che impedisce di volare. Non arrogatevi il diritto di prendere decisioni al loro posto, ma aiutateli a capire che decidere bisogna, e non si spaventino se ciò che amano richiede fatica e fa qualche volta soffrire: è insopportabile una vita vissuta per niente.

Più dei vostri consigli li aiuterà la stima che hanno di voi e la stima che voi avete di loro; più di mille raccomandazioni soffocanti, saranno aiutati dai gesti che videro in casa: gli affetti semplici, certi ed espressi con pudore, la stima vicendevole, il senso della misura, il dominio delle passioni, il gusto per le cose belle e l’arte, la forza anche di sorridere. E tutti i discorsi sulla carità non mi insegneranno di più del gesto di mia madre che fa posto in casa per un vagabondo affamato: e non trovo gesto migliore per dire la fierezza di essere uomo di quando mio padre si fece avanti a prendere le difese di un uomo ingiustamente accusato.

I vostri figli abitino la vostra casa con quel sano trovarsi bene che ti mette a tuo agio e ti incoraggia anche ad uscire di casa, perché ti mette dentro la fiducia in Dio e il gusto di vivere bene».

(Sette dialoghi con Ambrogio)

Aggiungiamo quanto scriveva sant’Ignazio di Antiochia: «Si educa molto con quel che si dice, ancor più con quel che si fa, ma molto di più con quel che si è». Non sono le prediche a muovere gli altri. Può bastare un discorso per convincere un uomo, per sfrondare tutte le paure, per suscitare un impavido desiderio di giungere quanto prima alla meta? Forse, tutti noi capiamo che le parole sono insufficienti, di fronte alle difficoltà della vita, ma, poi, spesso ci accontentiamo di fare prediche, di tenere discorsi e ci stupiamo se l’interlocutore non apprende subito la lezione e non si muove.

Nei primi tre canti dell’Inferno Dante presenta la sua geniale pedagogia. Alla fine del canto II, dopo che Virgilio lo rassicura con il racconto delle tre donne benedette che nel Cielo si sono mosse per la sua salvezza, il viaggio non è ancora iniziato, ma Dante sembra essere convinto di intraprenderlo. Ma le sorprese non sono finite. Infatti, dinanzi all’epigrafe posta sulla porta dell’Inferno (incipit del canto III) ritornano le antiche paure. Le parole incise sono cupe, orride: «Per me si va ne la città dolente,/ per me si va ne l’etterno dolore,/ per me si va tra la perduta gente./ Giustizia mosse il mio alto fattore;/ fecemi la divina podestate,/ la somma sapïenza e ‘l primo amore./ Dinanzi a me non fuor cose create/ se non etterne, e io etterno duro./Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate».

Di fronte alla paura di Dante, Virgilio lo prende per mano con lieto volto e lo introduce dentro «a le secrete cose». Un discorso non può avvincere e convincere, non è sufficiente neanche conoscere le ragioni e le motivazioni. Dante non avrebbe intrapreso il viaggio senza la compagnia e la guida lieta e rassicurante di Virgilio.

Il ragazzo e l’adulto hanno bisogno nel viaggio della vita di una compagnia e di una speranza (il lieto volto, che rappresenta la certezza che vale la pena intraprendere il viaggio, cha c’è una meta bella, che il destino è buono e positivo). Si cammina nel viaggio con una compagnia, con un maestro, un testimone della bellezza e della verità incontrate.