Marcello Pera: ci ha insegnato che il male esiste

GPII_CameraPubblicato su Il Giornale
Sabato 16 aprile 2005

Il presidente del Senato e la lezione che Giovanni Paolo II ha dato ai laici in politica

di Mario Sechi

Il Cardinal Angelo Sodano intona il De Profundis in piazza San Pie­tro. È la fine di unpontificato lun­go e fondamentale per la storia del Novecento. Giovanni Paolo II «muore mentre più alta era la sua voce e più sentito il bisogno della sua missione. Per la dignità del­l’uomo, la libertà, la tolleranza, il rispetto, la pace» commenta Mar­cello Pera, mentre scorrono da­vanti alla tv le immagini di una piazza San Pietro in preghiera. Ka­rol Wojtyla, il Papa venuto dal­l’Est, se ne va lasciando un segno indelebile nella gente comune ma anche nelle istituzioni.

«Allo sgo­mento dei credenti – dice Pera – si unisce il silenzio attonito di tutto il mondo che perde con lui un pro­tagonista della nostra storia e una guida morale e spirituale delle no­stre coscienze».

Presidente Pera, in quest’era di relativismo culturale che cosa ha significato per lei, uomo laico, il pontificato di Giovanni Paolo II?

«Proprio una grande battaglia con­tro il rischio del relativismo cultu­rale. Per capirci: il relativismo è la dottrina secondo la quale le cultu­re o le civiltà non si possono com­mensurare e giudicare da fuori. Perciò, per il relativista, non esiste la verità, se non come autocompli­mento che ciascuna cultura fa a se stessa quando qualcosa le pia­ce o le serve. Questa tesi, che è na­ta nel campo della filosofia del lin­guaggio e dell’ epistemologia, è pe­netrata anche nella teologia. Essa porta a dire che il cristianesimo non è migliore di altre fedi. Così il cristiano non potrà mai dite che Cristo è il figlio di Dio. E neppure ppiià consentire con Gesù quan­do dice: ego sum via, veritas et vi­ta. Gesù è un profeta, come tanti altri, con la sua verità».

E perché questo è un rischio an­che per un laico?

«Intanto, è chiaramente un ri­schio per un credente, perché, se­guendo il relativismo, egli non di­venta più tollerante o dialogante, come molti pensano, ma semplicemente per­de la fede. Poi è un ri­schio per tutti, anche per i laici. Giustamen­te, nella Centesimus Annus, il Papa mise in guardia contro le insidie di quella che egli chiamò “la allean­za fra democrazia e relativismo etico”. Questa alleanza por­ta alla perdita di iden­tità. Chi siamo noi se “tutto va bene”? In che cosa crediamo? Per che cosa combat­tiamo? Anzi: perché dovremmo combattere? Il rischio, come si ve­de, è enorme».

Si è detto che in politica non biso­gna parlare troppo facilmente di bene e male. Nel libro «Memoria e identità» Giovanni Paolo II compie una grande indagine in­torno a questi due temi e alle «ideologie del male». Quale inse­gnamento può trarne la nostra politica?

«Intanto, che il male esiste. Poiché il male va combattuto. E sicco­me il male non è mai definitiva­mente sconfitto – perché per i cre­denti è frutto del peccato origina­le e per i laici degli errori della vo­lontà degli uomini – ne deriva che la lotta al male è un dovere per le persone e il compito della politi­ca. Questo è ciò che fece il Papa contro il comunismo e che ha con­tinuato a fare contro altri mali. Un compito inesauribile, perché il be­ne non è uno stato, bensì un processo».

Autorevoli pensato­ri hanno teorizzato lo scontro delle civil­tà. Lei ha messo più volte l’accento sul­l’atteggiamento po­co lungimirante del­l’Occidente nei con­fronti della minac­cia del fondamentali­smo islamico. È sulfl­ciente la via del dialo­go interreligioso promossa da Giovan­ni Paolo II?

«Credo francamente che l’idea stessa di dialogo interreligio­so sia sbagliata. E credo anche che il Papa stesso ne abbia compreso i limiti. Se Cristo è l’unica verità, co­me si può dialogare con chi affer­ma un’altra verità? Le religioni non dialogano tra loro, perché so­no esclusive. Perciò tendono più facilmente a ignorarsi o separarsi o scontrarsi. Ma il dialogo è inve­ce possibile e obbligatorio al livel­lo sub-religioso dei valori secolari che dalle religioni derivano. Ad esempio, dal cristianesimo deriva­no i valori della dignità umana, della libertà, della tolleranza, del­l’uguaglianza. Su questi valori, og­gi negati dal fondamentalismo islamico, il dialogo è possibile e la politica è il miglior strumento per praticarlo. Lo scontro di civiltà, se ci fosse, sarebbe la fine della politi­ca».

Guerra e pace, come l’antinomia tra male e bene. Giovanni Paolo II ha vissuto la Seconda guerra mondiale e l’orrore del nazismo, poi la Guerra Fredda e gli anni bui dell’Unione Sovietica. Secon­do lei quanto questa esperienza ha influito sulle posizioni assun­te da Giovanni Paolo II nei con­fronti della guerra? Definirebbe questo Papa un pacifista?

«Un Papa non è un pacifista. Non è scritto: “Beati i pacifisti”, bensì: “Beati i facitori di pace”, che è un’altra cosa e talvolta una cosa opposta. Non a caso Giovanni Pa­olo II è stato un combattente e non si è mai arreso. In questo, non solo il Vangelo, ma le sue tra­giche esperienze di figlio della Po­lonia, prima invasa dai nazisti e poi dai comunisti, sono state de­terminanti».

Un’Europa ancora in cerca di identità e incapace di ritrovare le sue radici cristiane. Perché il ma­gistero di Giovanni Paolo II è ri­masto inascoltato?

«Perché i capi di Stato e di gover­no europei non sono ancora in grado di dire che cos’è l’Europa di cui parlano e che vogliono, quan­do la vogliono davvero. Siamo onesti: l’Europa come entità politi­ca non è matura, se non per alcu­ne cose importanti e utili, ma mi­nori. Certamente l’Europa non è matura come entità culturale e spirituale, proprio quella che ave­va in mente il Papa. La sua è l’Eu­ropa degli apostoli Pietro e Paolo e dei santi Cirillo e Metodio. La no­stra è l’Europa dei mercati e dei diritti e valori connessi. Sarebbe sbagliato svilirla, soprattutto ades­so che, dopo tanti sforzi, è a ri­schio anch’essa; ma non è lungi­mirante neppure fame un idolo o un’ideologia».

Patria, Europa, Chiesa, mondo. Il Papa ha detto che è inscindibi­le la storia dell’Europa da quella della Chiesa. II cristianesimo ha plasmato davvero quello che oggi chiamiamo spirito europeo?

«E impossibile negarlo. Chi voles­se farlo, studi un saggio dei nostri classici o legga un nostro grande romanzo o faccia una passeggiata in una qualunque grande piazza europea o esamini le nostre costi­tuzioni e i nostri codici. Che aria di famiglia vi respira?».

Il Papa ha detto che «dopo la ca­duta dei sistemi totalitari le socie­tà si sono sentite libere, ma quasi simultaneamente è sorto un pro­blema di fondo: quello dell’uso della libertà». Esso attende anco­ra una soluzione?

«Credo che questo sia stato il gran­de problema del Papa, il perno del­la sua missione. Egli vedeva che i totalitarismi avevano negato la li­bertà, ma temeva fortemente che i regimi della libertà negassero la ve­rità. La vittoria dell’Occidente sul comunismo, come prima sul nazi­smo e il fascismo, non equivaleva ancora alla vittoria della spirituali­tà. Anzi, nell’analisi del Papa, pro­prio l’Occidente rischiava di più, perché mentre sotto i regimi totali­tari l’identità e l’appartenenza reli­giosa si rafforzano,nel mondo dei beni e dei mercati si affievo­liscono.

Per questo, Giovanni Paolo II è sempre stato tenace­mente avverso a tutte le “libertà” in materia di bioetica che l’Occi­dente sente invece co­me diritti. Per questo è stato diffidente, an­che oltre i fatti, del­l’America e della “cul­tura della moderna metropoli” come dis­se a Denver nel 1993 e per questo ha criti­cato il capitalismo. Per lui, la società seco­larizzata era al tempo stesso un progresso e un regresso: un pro­gresso verso la libertà, un regresso verso l’assenza di spiritualità. Alla base di questo atteggiamento c’era l’angosciata domanda: che farsene della libertà se è soltanto “da e non “per?».

Ricerca scientifica e religione. È dai tempi di Galileo che sembra impossibile superare (antagoni­smo tra queste due sfere della co­noscenza. Le scuse date a Galileo dalla Chiesa le hanno riconcilia­te?

«Sul caso Galileo, Giovanni Paolo II è stato coraggioso. Ha ricono­sciuto l’errore della Chiesa e la grandezza di Galileo non solo come scienziato, ma anche come in­terprete della Scrittura. Ma le “scu­se” si fermano qui. Sarebbe sba­gliato concludere che Giovanni Paolo II abbia anche sostenuto il diritto alla totale libertà di ricerca scientifica. Questo non era, né po­teva essere, il suo pensiero. Per­ché, per un credente, la scienza è una forma circoscritta di cono­scenza che non può contraddire la vera conoscenza, che è quella di fede.

E perché la conoscenza scientifica, per acquisire le sue par­ziali e fallibili verità, non può usa­re strumenti che neghino la cono­scenza di fede. In altri termini, si è liberi di sperimentare con biglie metalliche come Galileo o prismi di vetro come Newton o tubi pieni d’acqua come Torricelli e Pascal, non si è liberi di sperimentare su geni o cellule o embrioni. Se uno scienziato rivendicasse questa li­bertà con l’argomento che egli la­vora nella sua “sfera di conoscen­za” distinta e separata dalla “sfera della fede”, come dice lei, un altro caso Galileo sarebbe inevitabile».

E secondo lei, il conflitto che ab­biamovisto a proposito della legge sulla procreazione e il referen­dum, non ripropone questo scontro?

«Esattamente. E su questo non c’è accomodamento, non c’è com­promesso. Non si patteggia col Vangelo. Quelli che, su questo ter­reno, hanno accusato il Papa di tradizionalismo si ostinano a non capire la fede cristiana. O l’accetti, questa fede, o sei fuori. Non puoi fartene una a immagine tua e dei tempi».

Come è cambiato il rapporto tra Chiesa e politica durante il ponti­ficato di Giovanni Paolo II?

«Giovanni Paolo II è stato il Papà più politico e meno politico al tempo stesso. Il meno politico, perché si rivolgeva agli individui e alle lo­ro coscienze, più che alle nazioni e ai gover­ni. II più politico, per­ché esigeva dalla poli­tica il rispetto dei principi cristiani. Mentre rispettava la separazione Stato­Chiesa, sapeva che la separazione politica­religione non produ­ce gli stessi frutti di li­bertà. Il risveglio reli­gioso cui stiamo assi­stendo anche in Occi­dente è in gran parte merito suo».

Restò lontano dalle cose italiane?

«Rispetto ad altri suoi predecesso­ri, sì. Con un’eccezione vistosa, mi sembra: il problema della giu­stizia, che egli sollevò con un ge­sto, l’abbraccio al senatore Andre­otti, e con una richiesta, la clemen­za per i detenuti. Per il resto, il suo orizzonte era altro. È stato un grande Papa, perché la sua paro­la, i suoi gesti, le sue sofferenze so­no stati una sfida per tutti, creden­ti e non».