La strage di San Bartolomeo

Strage_SBartolomeoPubblicato su Il Timone Marzo 2004

di Vittorio Messori

E’ un po’ noioso: ma non è colpa nostra se bisogna sempre ricominciare. Da oltre due secoli, ai cattolici e alla loro chiesa vengono rinfacciati i misfatti che avrebbero commesso. Ed ogni generazione di credenti deve far fronte a queste accuse, vagliarle, discernere il vero dal falso e stabilire – in verità e coscienza – se davvero occorre pentirsi. O se, invece, la ricostruzione oggettiva dei fatti porti a respingere simili, aggressive richieste di perdono o, almeno, a diminuire la responsabilità gettata sulle spalle dei cattolici del passato.

Nella rubrica su Avvenire passai in rassegna alcuni di questi “luoghi comuni” per eccellenza (sono, infatti, sempre gli stessi: Galileo, le Crociate, l’Inquisizione, i Borgia, Pio IX e via salmodiando), consapevole che ogni nuova generazione deve informarsi e, dunque, dovevo vincere il fastidio di ripetere cose mille volte già dette, da innumerevoli autori. Se le solite accuse sono reiterate, così devono essere reiterate anche le repliche, a beneficio di coloro per i quali quelle invettive suonano come una novità. Come dicono i napoletani, “nessuno nasce imparato”. Neanche i cattolici.

Prima o poi, dunque, bisognava parlare (non l’ho ancora fatto né negli articoli né nei libri) della notte più tristemente celebre, quella tra il 23 e il 24 agosto 1572 quando la liturgia celebrava – e ancora celebra – la ricorrenza di San Bartolomeo e che vide scorrere un mare di sangue. Per i francesi è la Saint-Barthélemy ed è da sempre uno dei cavalli di battaglia della propaganda anticattolica.

Come mi confermava un collega parigino, ancora oggi non c’è dibattito dalle sue parti dove alla fine qualcuno non dica, con aria di sfida: “Oui, d’accord, mais qu’en faite vous de la Saint-Barthélemy?”, come la mettiamo con la strage di San Bartolomeo? Quella strage – orrenda, precisiamolo subito – è un’arma di battaglia sia per gli increduli che per i protestanti, visto che essi ne furono le vittime.

A questo proposito non ho dimenticato quanto mi disse – nell’unico incontro che, purtroppo, abbiamo avuto – Jean Dumont, lo studioso francese morto di recente che dedicò la sua vita a cercare di costruire, con oggettività e rigore, una “controstoria” cattolica che contrastasse il cumulo di diffamazioni, magari anche in buona fede, per mancanza di informazione corretta.

Mi disse, dunque, Dumont (parlavamo giusto di un suo studio sulle guerre di religione in Francia, dopo la Riforma protestante): “Lavoro per stabilire la realtà dei fatti – realtà che spesso è ben più favorevole alla Chiesa di Roma di quanto non credano i suoi stessi fedeli – perché sono convinto che è un modo per far progredire l’ecumenismo. Questo sarà più agevole, se permetteremo ai protestanti di rispettare di più i cattolici e il loro passato. Se mostreremo che non siamo quei “mostri” che spesso credono, il dialogo ne sarà grandemente avvantaggiato. Al contrario di quanti molti pensano oggi, accettare acriticamente le accuse, senza verifica e senza chiarire le circostanze che spieghino e magari giustifichino, danneggia il clima ecumenico”.

Parole d’oro: prego prenderne nota (non a caso le ho messe in corsivo), perché mostrano come l’impegno dell’apologeta sia nella linea del dialogo realistico e, dunque, autentico; mentre quella resa senza alcuna difesa che tanti cattolici praticano lascia l’interlocutore nei suoi pregiudizi e, così, lo rende più chiuso o, almeno, diffidente. E’ in questo spirito, dunque, che affronteremo quella strage famosa, entrata a far parte fissa del rosario dei “misteri vergognosi” addebitati alla Chiesa.

Innanzitutto, ricordiamo i fatti. Il 18 agosto del 1572 si celebrano a Parigi le nozze di Margherita, figlia di Caterina de’ Medici (la fiorentina vedova del re Enrico II e madre del regnante, Carlo IX) con Enrico di Borbone, re di Navarra. Questi è calvinista ed è destinato a succedere al trono di Francia: non a caso il papa, Gregorio XIII, si è opposto a quelle nozze ed è grande il malcontento nella Capitale, soprattutto tra i popolani.

Pochi sanno che, al contrario di quanto si crede (vittime come siamo dello specchio deformante della Rivoluzione Francese) il popolo di Parigi è stato tra i più fedeli all’ortodossia cattolica, mostrandosi impermeabile alle eresie che invece hanno trovato molti proseliti nel Midi e all’Est, verso l’Alsazia e la Lorena. Gli ugonotti non riuscirono neppure ad avere un luogo di culto nella grande città, che era una specie di isola cattolica in mezzo a un Regno che stava suddividendosi tra le due confessioni.

Il fermento nei quartieri poveri è aumentato dal fatto che, per assistere alle nozze, giungono nella Capitale in pompa magna i membri dell’aristocrazia calvinista, accompagnati da minacciosi “bravi” e manifestamente sprezzanti verso quelle che considerano le “superstizioni papiste”. Tra l’altro, i cattivi raccolti hanno provocato un forte rialzo del prezzo del pane, creando un malcontento che è esasperato dalla calura, con una siccità che dura da mesi e che ha lasciato Parigi quasi all’asciutto.

Caterina, amante degli intrighi politici e del potere, è molto inquieta perché il figlio, il re, è sfuggito al suo controllo politico e sembra sempre più influenzato dal capo del partito ugonotto, Gaspard, conosciuto come ammiraglio di Coligny. Questi sta quasi per convincere Carlo IX a dichiarare guerra alla Spagna, impegnata contro i protestanti nella guerra dei Paesi Bassi.

Sia subito chiaro: la figlia di Lorenzo de’ Medici non ha alcuna preoccupazione religiosa, della teologia è disinteressata al punto che, nei suoi lunghi e continui maneggi, ha oscillato periodicamente tra cattolici e riformati, tra fedeltà all’Impero e all’Inghilterra anglicana. Se detesta il Coligny è perché il suo orgoglio è ferito: nessuno, tranne lei, deve avere influenza sul figlio. Capo del “partito ugonotto” è quell’ammiraglio, capo del “partito cattolico” (ma anche qui la differenza è politica ben più che religiosa) è il duca di Guisa. Tutta questa potente famiglia nobiliare è da sempre nemica di Coligny, tanto da aver progettato di ucciderlo. Un proposito del quale Caterina pensa di approfittare.

In effetti, quattro giorni dopo le nozze, un sicario, l’avventuroso Maraudel, spara un colpo di archibugio contro l’ammiraglio e fugge, non accorgendosi che la vittima è soltanto ferita e in modo non grave. Il clamore è enorme. Gli aristocratici protestanti, ancora in città, vanno in giro minacciosi con i loro armati e arrivano al punto di dichiarare pubblicamente che se il re non farà giustizia, ci penseranno loro. Si vendicheranno cominciando da Caterina e dai duchi di Guisa, per passare poi al clero: minaccia da non sottovalutare visto che gli ugonotti hanno già fatto strage in Francia, negli anni passati, di centinaia di ecclesiastici.

Qualcuno, tra quei nobili passati al calvinismo (e spesso segnati dall’estremismo dei convertiti e dei settari) fa girare la voce che è il momento di liberarsi dello stesso Carlo IX e di mettere sul trono un altro re, magari il giovane sposo protestante, Enrico di Navarra. Caterina – che aveva progettato di uccidere soltanto il Coligny – si vede in grave pericolo, anche perché il figlio ha ordinato un’inchiesta severa e imparziale ed è certa che verrà scoperta come mandante. E sa che i suoi nemici chiederanno per lei il patibolo.

Così, con l’appoggio di alcuni membri della Corte e, soprattutto della famiglia Guisa, improvvisa un piano disperato per salvarsi: convincere il figlio che il trono è in pericolo, che gli ugonotti complottano, che la difesa della Francia esige che si preceda l’insurrezione, eliminando i capi. Una sorta di hitleriana “notte dei lunghi coltelli” in anticipo di quasi quattro secoli.

In un drammatico colloquio Carlo IX, che non ne vuol sapere, è alla fine convinto che il pericolo è gravissimo e imminente e che bisogna agire subito. Molti storici pensano che Caterina non esagerasse, che davvero la rivolta stesse per cominciare. In ogni caso il re da ordine di chiudere le porte della città e di sopprimere gli esponenti ugonotti più in vista, a cominciare dal Coligny, a letto per la ferita. La disposizione di uccidere è limitata a una lista stilata in fretta, ma la situazione sfugge subito al controllo. Il popolo ne approfitta per sfogare il suo rancore contro l’alterigia ugonotta, procedendo a una strage dove sono uccisi anche alcuni cattolici.

In effetti, ai plebei eccitati si sono subito uniti i soliti delinquenti, sadici, profittatori che non mancano mai in questi casi e molto spesso le vittime cadono per vendette private. Non ci sono cifre precise dei morti ma la stima che raccoglie i maggiori consensi parla di 2.000 vittime. Il re ha spedito messaggeri nelle province perché imprigionino i capi dei calvinisti ma li proteggano dagli assassini. Ma, malgrado gli ordini – anche perché questi spesso giungono quando è ormai tardi – il popolo approfitta delle voci che arrivano da Parigi per procedere alla vendetta per le stragi, i saccheggi, le distruzioni di chiese operate dagli eretici.

Qualcuno ha osservato che se la ferocia, più che nella Capitale, fu maggiore in provincia è perché qui la gente aveva esperienza quotidiana di chi fossero gli ugonotti, che a Parigi non esistevano. Così, ai morti nella Capitale si aggiungono gli altri, ancor più numerosi, delle province. C’è chi parla di 20.000 morti, ma ora, dopo lunghi studi, molti si dicono certi che, in tutta la Francia, non si andò oltre i 5.000. Anche così, una vera, terribile strage.

Mentre il massacro è ancora in corso, Carlo IX e la madre inviano un messo urgente a Roma, dal Papa. Secondo le istruzioni ricevute dal re l’uomo, un aristocratico autorevole, annuncia (solo verbalmente) quella che presenta come una splendida notizia, un segno della Provvidenza divina.

L’ammiraglio di Coligny e gli altri capi protestanti, dice, avevano organizzato un terribile colpo di stato: il re, la famiglia reale, i ministri, il cardinale e i vescovi stessi dovevano essere uccisi per fare della Francia un paese protestante e muovere guerra alla Spagna e poi al pontefice stesso. Ma Sua Maestà era venuta a conoscenza del complotto e, proprio la notte stessa in cui doveva aver luogo, li aveva preceduti, facendo ricadere su di loro quanto progettato ai suoi danni. Lo stesso nunzio a Parigi invia un dispaccio in cui si dice che il ferimento dell’ammiraglio aveva a tal punto esasperato i capi degli ugonotti che si attendeva di ora in ora una loro reazione violenta.

“Presentata così la cosa” ha osservato uno storico “le dimostrazioni di compiacimento di Gregorio XIII appaiono cosa normale e dovuta come le felicitazioni pubbliche che si scambiano i capi di stato di oggi quando qualcuno di loro sfugge a un attentato o a un atto di terrorismo”.

In effetti, il Papa prese quelle iniziative che vengono ancora oggi ricordate come scandalose: il canto del Te Deum, un’allocuzione al Concistoro per rallegrarsi dallo scampato pericolo del re cattolico e – cosa giudicata ancor più intollerabile – il conio di una moneta commemorativa. Dunque, non per forzatura “apologetica” ma per la forza dei fatti (ormai accertati al di là di ogni dubbio), risulta chiaro che la strage è cosa tutta politica, presa all’interno della Corte, senza alcun coinvolgimento della Chiesa che, anzi, fu colta di sorpresa.

Nessun ecclesiastico ebbe un qualche ruolo nella vicenda. Nessun prete partecipò alla riunione notturna in cui tutto fu deciso. Una decisione che fu imprevista e non premeditata, dovuta al fallimento dell’attentato a Coligny. Se questi fosse morto, ci si sarebbe fermati li. Se l’azione degenerò in una strage che andava ben al di là del progetto, lo si deve all’eccitazione del popolo, sfuggito ad ogni controllo.

Casi simili, durante le guerre di religione, si verificarono sia da parte cattolica che protestante. Si tenga presente che la Saint-Barthélemy aveva avuto molti, terribili precedenti per mano ugonotta: come les Michelades (dette così perché avvenute durante le feste per San Michele) di pochi anni prima, nel 1567 e 1569, a Nimes, quando i protestanti chiusero di sorpresa le porte della città, massacrarono tra l’una volta e l’altra 500 cattolici, devastarono tutte le chiese, bruciarono in un grande rogo quadri, archivi, arredi liturgici.

E tutto questo (come molte altre stragi di cui furono responsabili) a freddo, per odio verso il “papismo”, non nell’eccitazione frenetica della Saint-Barthélemy.

Per finire, ecco un commento di Ludwing von Pastor, il grande storico del papato, come sempre informato e, dunque, pacato a proposito sia dell’esplosione di violenza popolare che della reazione papale: “Si deve tener presente quale pericolo minacciasse i cattolici, dal semplice fedele fino al Papa, da parte degli ugonotti. Dopo i turchi, la Chiesa non aveva nemici più sinistri e sanguinari dei calvinisti. Ciascuno in Roma conosceva le crudeltà che da anni essi avevano compiuto in Francia e nei Paesi Bassi, e non appena avevano in mano il potere spogliavano sistematicamente i cattolici, saccheggiavano e incendiavano le magnifiche cattedrali, profanavano le tombe degli ecclesiastici, pestavano sotto i piedi le ostie consacrate o le gettavano per nutrimento ai cavalli, violavano le monache e uccidevano preti e religiosi.

Quegli strazi, che solo una crudeltà bestiale poteva immaginare, venivano compiuti con i cattolici solo perché volevano restare fedeli alla loro fede: sepolti vivi, cotti nell’olio bollente, lingue strappate, sventrati e ancora cose più orrende. Erano giunte in Roma notizie di cacce che venivano compiute, per esempio nel Béarne, contro sacerdoti, quasi fossero fiere, come pure del precipizio presso Saint Séver in cui i calvinisti avevano gettato 200 preti.Una fine di questa furia non poteva prevedersi.

Proprio nell’agosto della strage giunse in Roma la notizia del lento supplizio dei martiri di Gorkum. Se avessero trionfato Coligny e i suoi compagni, sarebbe finita con la fede cattolica in Francia e nei Paesi Bassi e migliaia di preti sarebbero stati minacciati di morte sicura. Ma una Francia protestante, di questo si era persuasi, avrebbe attaccato anche l’Italia, in particolare lo Stato Pontificio.

Lutero nel suo scritto Contro il papato fondato in Roma dal diavolo aveva esortato ad attaccare con le armi il papa e l’”intero cancro della Sodomia Roma” e di “lavarsi le mani nel loro sangue”. Il teologo di Jena, Metto Judex, aveva raccomandato una spedizione contro Roma per l’estirpazione del papato. Nessun dubbio che anche i calvinisti di Francia fossero pronti a prender parte ad una tale impresa. “Noi tutti” proclamava Orange nel 1569 “combattiamo contro il demonio, ossia contro l’Anticristo romano”.

Dunque, ne conclude von Pastor, “se si tiene conto di queste circostanze e dell’opinione dominante in quei tempi sulla necessità e la legalità della distruzione degli eretici, appariranno spiegabili le soddisfazioni del Papa e della curia, che oggi tanto ci colpiscono, per l’improvviso cambiamento avvenuto in Francia a favore della Chiesa”.

Certo, terribili furono le guerre di religione in Europa e finirono, tra l’altro, per aprire la strada al sincretismo, al deismo, all’agnosticismo se non all’ateismo degli illuministi, stanchi di stragi che si richiamavano alla fede. Ma terribili furono entrambi i contendenti, non certo uno solo. E su tutto, poi, aleggia una domanda che pochi sembrano ormai porsi e che, invece, è essenziale: chi aveva cominciato? Chi aveva iniziato a istigare all’odio?