Che conservatore il papa buono

Giovanni XXIIIPubblicato su Il Sabato 10 novembre 1990

Il cardinale Oddi compie 80 anni. E anticipa al Sabato le sue memorie. Così ricorda l’amico papa Roncalli. Ribaltando molti luoghi comuni

di Lucio Brunelli

Per lui uno dei vaticanisti più colti è andato a rispolverare, dal vocabolario, una parola caduta in disuso. Parresia. Cioè: dire sempre quel che si pensa. Evangelicamente, senza timore di scontentare qualcuno. Ed è forse questa attitudine, così rara nei Sacri Palazzi, che rende il cardinale Silvio Oddi simpatico anche a chi non la pensa come lui. Così c’è da giurare che gli auguri che riceverà in occasione dell’ottantesimo compleanno, che cade il 14 novembre, saranno molti e in gran parte sinceri.

Anche perché, entrando in familiarità con lui, si scopre che la parresia è soltanto l’aspetto di superficie. Dopo colpisce di più la commozione con cui parla di sua madre che, tirando su 14 figli, «dette la precedenza alla fede anche rispetto alla cultura». O l’entusiasmo, appena venato da una punta di malinconia, di quando racconta i «prodigi» del povero e santo Curato d’Ars.

Chi scrive ha appena terminato di raccogliere, al registratore, le memorie della sua vita. Gli anni della giovinezza, a Morfasso, quattro case sull’Appennino piacentino, quando sfidava gli amici a fare il bagno di inverno, come lui, nelle acque ghiacciate del torrente. La vocazione sacerdotale e le incredibili avventure di «007 al servizio di Sua Santità» nelle più calde sedi diplomatiche del mondo: Teheran, Beirut, Il Cairo, Belgrado, L’Avana, Gerusalemme. Pronto ad alzare la voce con Tito, Fidel Castro e Nasser, quando è in gioco l’interesse della comunità cristiana. E poi il dramma del postconcilio, il suo scontro col cardinale Suenens, a Bruxelles. L’amicizia e perfino la stima di Lefebvre, che egli spera ancora di riportare all’ovile della piena comunione cattolica. I due conclavi cui ha partecipato, con la drammatica morte di papa Lucani. Le «battaglie perse» quando, dal 1979 al 1985, è stato Prefetto della Congregazione per il clero. Uno dei rapporti che più hanno segnato la sua vita è stato quello con Giovanni XXIII. Ma che c’entra il «progressista» Roncalli con il «tradizionalista» Oddi? La testimonianza che segue contribuisce, coerentemente, a rompere molti schemi obsoleti.

Se non sbaglio la sua amicizia con monsignor Angelo Roncalli matura in una circostanza piuttosto avventurosa…

Lo conobbi a Istambul, nel 1941. Durante un viaggio a rischio. Venivo da Roma. Monsignor Montini mi aveva comunicato che avrei dovuto lasciare il mio incarico alla nunziatura di Beirut. C’erano state pressioni da parte del console italiano, un fascistone, che dubitava della mia «italianità». Dovevo quindi raggiungere la mia nuova destinazione: Il Cairo, delegazione apostolica d’Egitto e Palestina. Il Mediterraneo era impraticabile, a motivo della guerra. Attraversai Ungheria e Romania. Raggiunta la Turchia via piroscafo trovai chiuse le frontiere con la Siria. Così, in attesa mi si aprisse un varco, fui ospite nella residenza del Delegato apostolico a Istambul: Roncalli, appunto. Ci rimasi 40 giorni. Lietissimi. Fu l’inizio ella nostra lunga amicizia.

A guerra finita vi ritrovaste di nuovo insieme. Nella nunziatura di Parigi…

Con lui, a Parigi, rimasi tre anni. Non ricordo la data esatta del mio arrivo. L’ho trovata in un appunto inedito del diario dell’allora nunzio apostolico in Francia, inviatomi recentemente da monsignor Loris Capovilla: «Domenica 1 settembre 1946. E’ arrivato stamattina dall’Italia il nuovo Uditore monsignor Silvio Oddi, piacentino, mia cara conoscenza. Lo accolsi a festa: sia benedetto e porti benedizione. Come prima cosa volli assistere alla sua Messa rispondendo alle sue parole. E nel pomeriggio l’accompagnai con Vagnozzi a Nôtre Dame. A pranzo c’erano i coniugi romani Bajola e padre Fugazza, nostro confessore piacentino. Ho fiducia che farà bene ed alleggerirà il peso quotidiano della nunziatura».

Sono anni di grandi fermenti, questi, per il cattolicesimo francese. Come seguivate, in nunziatura, la nascita delle nuove correnti teologiche considerate «progressiste»?

Non gli si dava troppo peso. Di Teilhard de Chardin, ad esempio, la nunziatura venne a sapere qualcosa grazie alle informazioni di un religioso italiano che era riuscito a partecipare alle riunioni semi-clandestine. «Ma questo Teilhard» scherzava Roncalli «non potrebbe accontentarsi di insegnare il catechismo e la dottrina sociale della Chiesa, invece di creare tanti problemi?». Una leggerezza che costò a Roncalli qualche rimprovero da parte di Pio XII. D’altra parte c’è da tener presente il carattere buono del nunzio, che non era portato ad esercitare una specie di polizia nei confronti dei sacerdoti e dei religiosi, non esclusi gli studiosi laici. La sua missione la concepiva più nel dare il buon esempio, nel far conoscere ed amare il pensiero del Papa e quindi della Chiesa. Insomma, era più orientato a fare ed a vedere il bene e i lati buoni delle cose piuttosto che quelli negativi.

Cosa gli rimproverava esattamente Pio XII?

Era stato il Papa in persona, contro il parere di monsignor Domenico Tardini, a volere Roncalli alla importante sede di Parigi. Gli eventi politici avevano reso necessaria la sostituzione del nunzio Valeri, sgradito a De grulle perché considerato compromesso col regime collaborazionista di Vichy. Anche per questa ragione il Papa non perdonava a Roncalli una certa superficialità. Gli rimproverava, ad esempio, di viaggiare troppo fuori Parigi. Dovette intimargli, ad un certo punto, di non lasciare la capitale più di quattro volte l’anno . per impegnarsi di più nel lavoro proprio di un diplomino pontificio: stilare dossier documentati sui problemi della Chiesa locale, tenere rapporti regolari con il governo e con il corpo diplomatico accreditato.

A Roncalli veniva imputata, credo, una certa ingenuità. Ad esempio aveva creduto totalmente nella buona fede di von Papen, ambasciatore cattolico della Germania nazista a Istambul, col quale aveva stretto rapporti di amicizia. So che a monsignor Tardini, quando leggeva i suoi rapporti sul diplomatico tedesco, cadevano le braccia. Comunque fu Roncalli a salvare von Papen dal plotone di esecuzione. Non esitò a testimoniare in suo favore al processo di Norimberga contro i criminali di guerra.

Quando nel 1958 Roncalli viene eletto Papa e prende il nome Giovanni XXIII lei si trovava in Egitto. Capo della rappresentanza pontificia. Come apprese la notizia? Se l’aspettava?

No, veramente no… Ero di ritorno da un viaggio faticosissimo in Alto Egitto. Giunto a Il Cairo tutti mi vengono incontro gridando: «Hanno fatto il Papa, hanno fatto il Papa». Chi è domando. Indovini, indovini… Ed io: «Non so… Montini forse». No, no una sorpresa… Provi ad indovinare. Ci rinunziai presto. Quando mi dissero Roncalli rimasi sorpreso. Avrei giurato che la scelta sarebbe caduta su Montini, anche se non era ancora cardinale.

Era Montini il suo candidato?

No, ma mi aspettavo la sua elezione per la grande stima che circondava il suo nome. Il mio «candidato», se proprio vuole saperlo, era il cardinale armeno Agagianian.

Avrebbe desiderato un papa non italiano con vent’anni di anticipo rispetto ai tempi? Una preferenza sorprendente per un tradizionalista come lei…

Nato in America Agagianian era venuto a Roma giovane, ed ebbe una educazione completamente occidentale. Bella figura, grande poliglotta. Insomma mi sembrava avesse tutti i squisiti per fare bene il Papa.

Eppure Roncalli fu l’ultimo a rimaner sorpreso della sua elezione…

Certo. Lui entrò in Conclave ben sicuro di diventare Papa. Scrisse alcune lettere abbastanza eloquenti ai suoi amici bergamaschi alla vigilia del Conclave. Al vescovo di Bergamo, retore del seminario di Bergamo, al nunzio  apostolico di Svizzera (monsignor Testa), al vescovo di Faenza. Nei giorni immediatamente precedenti ‘era stato tutto un movimento in favore della sua candidatura.

E se ne accorse il politico-giornalista Giulio Andreotti, che pronosticò per primo l’elezione di Roncalli sulla rivista Concretezza. Anche se poi occorsero varie votazioni per raggiungere la maggioranza necessaria. «Sapessi, che emozione» mi confidò successivamente. «Al momento degli ultimi scrutini i nostri nomi si alternavano: Roncalli… Agagianian… Roncalli… Agagianian… Roncalli…». Dovetti interromperlo: Santità, gli dissi, c’è l’obbligo del segreto sul Conclave…

Doveva essere un pontificato di transizione, il suo…

In attesa di Montini che non era ancora cardinale. So che Giovanni XXIII, poco dopo la sua elezione, ebbe a dire al futuro Paolo VI: «le tengo il nido caldo». Una conferma, questa, che già nel 1958 la candidatura Montini era stata presa in seria considerazione dal Conclave. Probabilmente si era preferito Roncalli al cardinale Agagianian proprio a motivo dell’età. Il cardinale armeno era più giovane, e dunque Montini avrebbe dovuto aspettare troppo a lungo.

Si disse che il Conclave aveva «imposto» a Roncalli alcune nomina chiave in Curia e anche un preciso programma di riordino del governo ecclesiastico…

Pio XII negli ultimi anni, da quando specialmente aveva avuto disturbi di salute che hanno sollevato l’interesse di molti specialisti, aveva ridotto di molto il ruolo dei curiali, a cominciare dai cardinali, anche Prefetti di Congregazione. Ed aveva ridotto i contatti personali a due sole persone: i monsignori Tardini e Montini. Di loro aveva annunciato la sua intenzione di elevarli alla Sacra Porpora ed aveva sospeso tale promozione solo perché i due gli avevano manifestato il desiderio di restare al loro posto per essere più disponibili. In realtà negli ultimi anni anche i Prefetti di Congregazione, che avevano precedentemente goduto delle cosiddette Udienze di tabella (cioè fissate in precedenza in modo che si sapeva quale cardinale era ricevuto per il primo e il terzo mercoledì del mese, un altro il lunedì e il giovedì, o anche solo una volta al mese a seconda dell’importanza sul piano dei problemi trattati dal Dicastero) dovevano trattare ogni questione con i pro-Segretari, i quali poi riferivano al Papa. S’era venuto a creare un po’ di disordine, se si può azzardare a dirlo in una Curia che si distingueva certo dalle altre curie o corti imperiali e presidenziali. Penso che il Conclave avesse anche «imposto» a Roncalli la nomina di monsignor Tardini come Segretario di Stato. Ma Giovanni XXIII, poi, si inventò il Concilio e scombinò tutto.

Sono note le perplessità di Tardini, per una certa improvvisazione che caratterizzò la fase preparatoria del Concilio…

Le perplessità di Tardini riguardavano l’ingenuità delle ambizioni ecumeniche del Concilio. Roncalli era convinto davvero che sarebbe bastato invitare tutti i capi delle Chiese cristiane non cattoliche, specialmente quelle orientali, e fare qualche bella cerimonia insieme per fare pace e ristabilire l’unità dei cristiani? Non pochi l’hanno pensato e detto. Io ricordo ad esempio di aver raccolto lo sfogo del Patriarca greco-cattolico sua beatitudine monsignor Sayegh IV. Era furente con la Curia romana, perché aveva distolto il Papa dall’idea di fare un Concilio a scopo ecumenico, cioè di unione delle Chiese. Almeno di quelle orientali…

Ma era vero?

In parte era vero, poiché si ripeteva in tutti i modi, all’annuncio del Vaticano II, che era stato il cardinale Tardini a far cambiare il programma in un Concilio che avesse per scopo primario l’aggiornamento della Chiesa. Tardini, da buon conoscitore delle realtà internazionali, riteneva che i cristiani orientali non avrebbero neppure risposto all’invito… Gli organizzatori del Concilio hanno visto poi in pratica quale era l’entusiasmo dei fratelli separati! Nella prima sessione il Patriarca ortodosso di Costantinopoli non prese nemmeno in considerazione l’invito. E per far venire i russi, è stato necessario promettere informalmente che certi argomenti – comunismo da una parte, soppressione di intere comunità cattoliche dall’altra – non sarebbero stati toccati durante il Concilio.  Ma l’intera fase preparatoria fu un disastro. Non c’era un piano, si procedeva nel caos. Lo notò con la consueta lucidità monsignor Montini, allora arcivescovo di Milano, in un suo famoso intervento.

Ma lei, non manifestò mai le sue perplessità a Papa Roncalli, di cui in fondo era amico?

Prima ancora che cominciasse il Concilio, nel 1961, fui ricevuto in udienza da Giovanni XXIII. Mi ero preoccupato una copia degli atti del Sinodo romano, appena conclusosi. Dissi a Giovanni XXIII: «Beatissimo Padre, per favore si adoperi perché il Concilio non abbia lo stesso esito del Sinodo romano». Cosa vuol dire? Mi domanda oscurandosi un po’ in volto. «Che farebbe ridere tutti» dico io, un po’ brutalmente, a mio modo. E lui, risentito: ma che dici! Il Sinodo romano è stato un successo…

«Santità, mi scusi, ma il Sinodo romano si è risolto in una bolla di sapone». Ma hanno venduto migliaia di esemplari degli atti del Sinodo, ribatte lui sempre più irritato. «Santità, ne avessero vendute pure centomila esemplari rimane il fatto che questo Sinodo ha fatto ridere tutti, ed è rimasto inattuato» concludo. Ed era vero. Il Sinodo romano si era limitato a prescrivere disposizioni rigidissime per i preti: non solo erano obbligati a portare sempre l’abito talare m anche il soprabito o almeno il ferraiolo e il cappello; non dovevano mai comparire in pubblico alla guida di un’automobile con a bordo una donna, fosse pure una parente. Né andare al teatro, al cinema, allo stadio.

Un dialogo che la dice lunga sulla mitologia di tanta storiografia sul papa «progressita». In una recente biografia è scritto che Roncalli subì il Sinodo romano solo per contenta la destra curiale ed avere poi mano libera per un Concilio veramente rivoluzionario.

La verità è che Roncalli era il conservatore più incallito che Dio abbia mai creato sulla faccia della terra. Dovrei raccontarle le conversazioni che avevamo a Parigi, in nunziatura… Quando noi più giovani ci permettevamo osservare che l’abbigliamento di certe suore aveva fatto il suo tempo ed era ora di ammodernarlo lui ci rimproverava seccamente: «Ah, voi distruggereste la Chiesa…». Tutti i tipi di cappello prelatizio più tradizionali li ha indossati lui. La sua prima enciclica l’ha scritta per raccomandare la conservazione della lingua latina nella Chiesa. Ma oggi, chi la ricorda?

Come poté nascere, allora, l’immagine del «Papa buono» che quasi azzera la tradizione ed inaugura una nuova e luminosa era nella Chiesa? Pura invenzione di storici e giornalisti?

Che fu un Papa buono non c’è dubbio. Prima di essere eletto al Soglio Pontificio vnne varie volte in visita a Morfasso, il mio paese natale. E con i miei genitori tenne una corrispondenza commovente. Ma della cosiddetta «svolta giovannea», mi creda, lui non se n’è neanche accorto, Fu quasi interamente gestita da altri, a partire dai suoi collaboratori più vicini. Il vaticanista Giancarlo Zizola, nel libro L’utopia di Giovanni XXIII, ci informa che la designazione di Rroncalli avvenne grazie ai voti dei cardinali del gruppo conservatore che faceva capo al cardinale Ottaviani. Non stento a crederlo. C’è un evidente stacco tra le prime encicliche del Papa, molto tradizionali («nel solco luminoso di Pio XII» come egli disse nel discorso d’apertura del pontificato), e quelle successive, super ottimistiche. Lo spartiacque lo fa quel famoso discorso di apertura del Concilio, nel 1962, in cui denunciava i cosiddetti «profeti di sventura».

Chi aveva più influenza su di lui?

Certamente molta influenza avevano su di lui i suoi più prossimi collaboratori. Si era poi formata una équipe di consiglieri ed esperti. Giovanni XXIII rivelava candidamente che aveva affidato la composizione delle sue encicliche più famose, specialmente quelle a carattere sociale, a degli specialisti. Lo disse lui stesso alla finestra di piazza san Pietro, precisando che il gruppo degli esperti incaricati di stendere l’enciclica Mater et magistra si era rifugiato in Svizzera e lui ne aveva perduto ogni traccia. Lo stesso per l’enciclica Pacem in terris.

Ricevendo il primo ministro del Belgio, Théo Lefévre, che lo ringraziava per la pubblicazione del documento, gli confidò sorridendo: «Guardi, a parte alcune righe… che sono mie, tutto il resto è il frutto del lavoro di altri… sono problemi che il Papa non può conoscere a fondo…». Così, press’a poco fu riportato dal giornale umoristico belga Pan. Ed il primo ministro Lefévre, interrogato da un amico,  confermò l’esattezza dell’informazione. Pur manifestando la sorpresa di averla trovata pubblicata in un giornale, poiché all’udienza non avevano partecipato che lui e l’ambasciatore del Belgio presso la Santa Sede (Poszwik). Molto controversa è anche la paternità del già citato passaggio sui «profeti di sventura»; c’è chi assicura influenze «ideologiche» decisive dei cardinali Agostino Bea e Leo Suenens.

E’ vero che Giovanni XXIII pensava ad un Concilio che approvasse in fretta gli «schemi» redatti dalla Commissione preparatoria  si concludesse con la canonizzazione del «reazionario» Pio IX?

Nei suoi piani il Concilio doveva concludersi per l’Immacolata, l’8 dicembre del 1962. Tutt’al più poteva prolungarsi fino a Natale. Questo lo posso giurare perché ero intimo del cardinale Gustavo testa (allora Prefetto delle Chiese orientali, grande amico del Papa) e lui mi ha riferito più volte i suoi colloqui con Giovanni XXIII su questo tema. Testa era stato incaricato dal Papa dell’allestimento del Concilio. Era il responsabile della macchina organizzativa. La ditta contattata per l’impianto audio e le registrazioni gli pose la questione se la Santa Sede preferiva pagare un affitto giornaliero o comprare l’apparecchiatura.

Se ben ricordo l’affitto costava un milione al giorno. Testa era del parere di comprare perché prevedeva che il Concilio sarebbe durato qualche anno e, conti alla mano, non conveniva affittare. Roncalli gli rispose letteralmente: «Ti sbagli. Per l’Immacolata o al più per Natale tutto deve essere finito». Quindi lui pensava a un Concilio tranquillo, sul modello del Sinodo romano. Con una rapida approvazione dei decreti preparati dalle varie commissioni curiali al lavoro da due anni e già da lui approvati. Quanto alla canonizzazione di Pio IX che fosse suo desiderio provvedervi durante i lavori conciliari non mi sorprende. Lo scrisse pure nel suo diario.

INEDITO

Una lettera inedita di Roncalli del 7 maggio 1953 al futuro Paolo VI . Montini, pro Segretario di Stato, gli aveva chiesto informazioni confidenziali su Oddi, in vista della sua promozione all’episcopato

A Sua Eccellenza Reverendissima

Monsignor Giovanni Battista Montini
Pro-Segretario di Stato di Sua Santità
Informazioni circa Monsignor Silvio Oddi
(confidenziale)

Eccellenza Reverendissima,

Di Monsignor Silvio Oddi che per tre anni mi fu carissimo ed attivissimo collaboratore a Parigi non so che ripetere tutto il bene che già dissi e scrissi  di lui a Vostra Eccellenza quando mi venne levato per altra destinazione (da Parigi a Gerusalemme, nel 1949, ndr).

Lo credo sempre soggetto di primo ordine per dignità sacerdotale, per prontezza d’ingegno, per ardore di zelo delle anime e fedeltà assoluta alla Santa Sede.

Penso che la dura esperienza, nell’esercizio diretto delle sue responsabilità di Rappresentante Pontificio in Jugoslavia, oltre ad affinare le sullodate sue eccellenti doti, lo abbia aiutato a temperare alquanto la immediatezza di qualche scatto del suo carattere, leale, simpatico e vivo, ma talora un po’ subitaneo e perentorio, che presso alcuno può parere di troppo e lasciare qualche scontento

Ma – piacemi il ripeterlo – sicuramente monsignor Oddi è stoffa di prelato e di diplomatico distinto, sulla cui fedeltà, capacità e docilità la Santa Sede può assolutamente contare.

Voglia gradire, Eccellenza, l’espressione del mio ossequio più vivo dev.mo e cordiale.

ANGELO RONCALLI