La Grande Guerra: un conflitto moderno

aerei_grande_guerraPubblicato su Il Timone n. 29, gennaio 2004

di Oscar Sanguinetti

Alle spalle di casa mia, nel quartiere di Porta Romana a Milano, si erge un gruppo bronzeo che raffigura due guerrieri, uno romano antico, l’altro medievale, che sorreggono un milite moderno, ferito e prossimo a spirare. Su una delle lapidi del piedestallo si legge fra l’altro: «[…] alle vittime inermi degli aeroplani austriaci che la mattina del 14 febbraio 1916 lo insanguinarono; il rione di Porta Romana erge questa memore ara […] 24 giugno 1923»; una delle tre iscrizioni reca in calce i nomi dei diciotto milanesi uccisi dal raid austro-ungarico.

Questa immagine mi suggerisce alcune brevi riflessioni su quella che è stata la Grande Guerra, prima fase di quella spaventosa «guerra civile europea», come la chiama Ernst Nolte, che, con il suo «secondo tempo», nel 1939-1945, e con le sue appendici «fredde», causerà decine di milioni di morti.

Questo episodio, tutto sommato minore, si presta ad almeno due considerazioni. In primis, segnala che la guerra nel 1916 si avvale di “tecnologie” nuove, mai sperimentate prima, di cui l’aeroplano è il simbolo. E, ancora, dimostra che una regala etica, di vitale importanza, è stata violata: per la prima volta due eserciti si affrontano non più solo in campo neutro, lontano dalle città, ma coinvolgono nel loro scontro le popolazioni civili.

E non sarà soltanto l’aeroplano a moltiplicare le potenzialità distruttive degli eserciti in guerra. Nelle trincee del prima conflitto fanno la loro comparsa armi di distruzione di massa, soprattutto i tremendi gas asfissianti, e armi meno sleali, ma sempre più micidiali: i lanciafiamme, le mitragliatrici, i carri armati, i sommergibili, le mine.

Lo scontro del 1914-1918 è, comunque, diverso dal passato non solo per questa: grazie al treno, all’autocarro, all’aeroplano stesso, masse enormi di combattenti potranno essere mobilitate e spostate in tempi brevi, consentendo cosi di aprire fronti di migliaia di chilometri, combattere su più linee, distanti magari fra loro quanto la profondità stessa dell’Europa, far affluire, come faranno gl’inglesi e gli americani, i loro soldati dai quattro angoli del globo.

Ancora, il primo conflitto mondiale è uno scontro di quelle masse in via di «nazionalizzazione», studiate da George Lachmann Masse (1918-1999). Le grandi dimostrazioni politiche di massa degli anni a cavallo fra i due secoli hanno gia visto scendere in piazza migliaia d’individui senza volto e senza nome, a testimonianza che la civiltà di massa, creata dalia dissoluzione della «società per corpi», operata dalla Rivoluzione europea, è una realtà. Ora, con la guerra, quella dissoluzione diventa anche fisica. Nella guerra del 1914-1918, come la vita, anche la monte è di massa.

Nella grande fornace delle mille cruente battaglie che si combattono dalla Francia all’Ucraina, dalla Lituana ai Balcani, si muore come le mosche: su un totale di 65 milioni di mobilitati, i caduti sono almeno 10 milioni. Su un fronte secondario e poco idoneo agli scontri di massa, come quello italiano, i caduti in quattro anni di guerra sfioreranno i 680 mila, che, sommando i civili e i morti negli anni dopo il 1918, arrivano a 750 mila. E queste morti arrecheranno un incalcolabile danno alla società europea e occidentale a venire.

Le masse di uomini scagliate all’assalto e quelle mobilitate nelle retrovie vivono irreggimentate all’interno di un’organizzazione e di un apparato logistico, che riflettono in piena l’ideologia dell’età della tecnica e dell’industria: rigide barriere di classe fra ufficiali e saldati, disciplina ferrea, burocratizzazione dei rapporti, spersonalizzazione dei singoli, calcolati solo come bocche da fuoco o costi da coprire, nella vita e nella monte.

Da tutti questi elementi inizia a profilarsi come sia lecito leggere il primo conflitto mondiale essenzialmente nei termini di una guerra «moderna», di una guerra della modernità e, nella fattispecie, della “prima” modernità. In essa si assiste all’incarnarsi della quintessenza di quella dinamica culturale e storica che domina in Occidente – e, di qui, nel mondo – dal Rinascimento in poi e che si diffonde nei rapporti politici e sociali con le rivoluzioni dei secoli XVIII e XIX.

Ma vi si leggono anche i caratteri inquietanti che questa dinamica assume nella sua «maturità», all’alba del XX secolo. L”eclisse del sacro” ottocentesca viene compensata dal sempre più vertiginoso sviluppa delle ideologie, fra cui particolarmente in auge è il nazionalismo, cui fa da pendant la mentalità positivista e darwinista, che dilaga.

Nell’Europa del 1914 irrompono l’ideologizzazione delle masse, l’odio per il nemico e il desiderio del suo annientamento, i partiti ideologici. Niente sarà più come prima della Grande Guerra.

Da entrambi questi fenomeni, dal loro sottofondo materialistico, germineranno il razzismo e la teoria dell’«igiene sociale» mediante la guerra. Quando si stigmatizzano i generali che mandavano al massacro migliaia di giovani in autentiche ecatombe in serie, bisogna tenere presente che questi uomini ragionavano e si muovevano in una logica drammaticamente «moderna», in quel razionalismo strumentale che il sociologo inglese Zygmunt Bauman vede sfociare «inevitabilmente» nel genocidio industriale, l’Olocausto.

Al fronte, poi, non deve esistere legame in contrasto con il binomio amico-nemico: né la comune fede religiosa, né l’appartenenza alla medesima Chiesa. né la responsabilità verso i figli, le spose, la comunità di origine. Di qui autentiche mistificazioni ideologiche, come una presunta «religione della patria»; di qui la disinformazione più sinistra, che non si ferma nemmeno davanti alle menzogne più sfrontate – i mucchi di manine tagliate ai bambini belgi dai soldati tedeschi -; di qui il culto al dio-Stato; di qui l’odio feroce contro il nemico.

Ciononostante il popolo dei combattenti e quello, soprattutto femminile, delle fabbriche e delle retrovie, nel suo composto e rassegnato spirito di sacrificio, offre una magnifica risposta.

Ma i segni d’insofferenza per la drammatica condizione in cui i governi fanno vivere i soldati, ubriacandoli prima delle battaglie, facendoli vegetare nelle trincee in condizioni disumane, esponendoli senza pudore a rischi più assurdi, si fanno sentire, di fronte a quella «[…] lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage», come dirà nel 1917 Papa Benedetto XV (1914-1922). Dopo anni di «guerra totale», la renitenza alla leva cresce, aumentano le diserzioni, monta il rifiuto di andare all’assalto. E scattano allora le decimazioni, i plotoni di esecuzione sommaria, i processi, gli ergastoli.

Uno degli aspetti meno noti e più sconcertanti del conflitto, che solo da poco è affiorato, riguarda il trattamento inflitto dal governo italiano ai propri prigionieri. Per principio la loro cattura era frutto di resa o di diserzione, e l’Italia, a differenza degli altri belligeranti, impedirà costantemente agli aiuti delle famiglie e delle organizzazioni internazionali di raggiungere i suoi soldati: le loro terribili condizioni di vita – morranno a migliaia – verranno usate come deterrente per i soldati al fronte, che non dovranno farsi tentare da una troppa «allettante» immagine della prigionia.

Vi è infine però un altro volto, meno visibile, del conflitto, su cui vale la pena soffermarsi.

Non tutti quelli che nel 1914-1915 vogliono la guerra lo fanno solo per ragioni patriottiche, egemoniche o economiche. C’è chi ha un progetto e una strategia che vanno oltre. Per esempio, per la massoneria il conflitto è un’occasione d’oro per proseguire nella lotta contro le potenze «feudali», come l’Impero austro-ungarico, il Reich guglielmino, l’autocrazia ottomana, la Russia dei Romanov, realtà le quali, si badi bene, alla fine del conflitto sono tutte scomparse. Pura coincidenza? Forse. È un fatto però che tutte le aperture alla pace da parte degl’Imperi Centrali dopo il 1917 sono lasciate cadere.

È nelle trincee si plasma, altresì, l’«uomo nuovo», l’uomo del Novecento, «laico» ed emancipato, ma gia «predisposto» per gl’imminenti totalitarismi. E anche per il comunismo ciascuno sa quanta importante sia stata a guerra, senza la quale sarebbe impensabile la conquista del potere da parte del «pacifista» Lenin (1870-1924).

Concludendo, se vogliamo capire che cosa fu la Grande Guerra, dobbiamo tenere conto di questi aspetti ma, prima di tutto, vederla nell’orizzonte completo del secolo XX. In questa prospettiva non si può non scorgere come questo scontro titanico di potenze, idee, masse, apparati bellico-industriali «apra» in maniera grandiosa quello che è stato chiamato non solo il «secolo delle ideologie»., ma il «secolo dei genocidi» e «dei martiri».

E, in una dimensione meno temporale ma ben più «globale», gli enormi «calvari» della Grande Guerra si possono leggere come una tappa di una straordinario e non breve castigo – e, allo stesso tempo, occasione di redenzione – nella storia per un’umanità sempre più ebbra di orgoglio auto-referenziale, intenzionata a far a meno di Dio e sorda alla parola di Cristo e della sua Chiesa, come la Vergine dirà a Fatima, in Portogallo, nel 1917, nel cuore, appunto, dell’«inutile strage».

Bibliografia

Ernst Nolte,Nazionalsocialismo e bolscevismo. La guerra civile europea 1917-1945, trad. it., Sansoni 1988.

George Lachmann Mosse, La nazionalizzazione delle masse, trad. it., il Mulino 1975.

Zygmunt Bauman, Modernità e Olocausto, trad. it., il Mulino 1992.

Benedetto XV, Esortazione Dès le début, dell’1 agosto 1917. In Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emanati dal 1740, vol. VIII: Benedetto XV (1914-1922), a cura di Ugo Bellocchi, Libreria Editrice Vaticana, 2000, pp. 182-184.

Marco Invernizzi, Fatima, chiave di lettura del Novecento, in Annali Italiani. Rivista di studi storici, 3/2003, pp. 97-1 10.