Olocausto americano con vittime tedesche

powArticolo pubblicato su L’Italia settimanale del 5 maggio 1993

Nessuno lo ricorda ma 800 mila tedeschi morirono nei campi di concentramento USA. Intervista esclusiva allo storico canadese James Bacque

di Daniela Cavallari

Other Losses, ovvero quanto è difficile per uno storico fare accettare una verità non ufficiale. Quella che non si trova sui libri di storia. Criticato aspramente negli Stati Uniti e in Francia, oggetto di pesanti accuse anche a livello accademico, James Bacque non si è perso d’animo. Il suo Other Losses, best-seller in Canada, tradotto in francese, in tedesco e presto in italiano (Gli altri lager, i prigionieri tedeschi nei paesi alleati, Mursia) ha scatenato un putiferio.

Bacque è stato accusato di revisionismo da Stephen Ambrose, professore all’università di New Orleans, di nazismo o di apologia del nazismo da più di un giornalista. In particolare negli Stati Uniti «Il New York Times ha detto molte bugie sul mio libro. E sui prigionieri di guerra continua a mentire da oltre 45 anni», dice Bacque in un’intervista esclusiva a L’Italia settimanale, lamentando il fatto che il quotidiano non abbia voluto pubblicare nessuna delle lettere di precisazione da lui inviate.

Ma cosa ha detto Jamer Bacque di tanto blasfemo? Che nei campi di prigionieri tedeschi nelle mani degli americani e dei francesi si stava male, anzi malissimo. Che le condizioni di vita lì non erano molto diverse da quelle dei Gulag e dei Lager nazisti. Che tra il 1945 e il 1946 almeno ottocentomila soldati tedeschi (ma non solo soldati e non solo tedeschi, ci tiene a precisare Bacque: in mezzo c’erano anche italiani) morirono di fame, sete, malattie.

A Mosca, negli archivi del Nkvd (il predecessore del Kgb), Bacque ha trovato conferma di quanto sostiene. La sua tesi è stata “ampiamente accettata e condivisa” in Germania. In Gran Bretagna le reazioni sono state ambivalenti. Dopo un iniziale interessamento, un editore giapponese ha deciso i sospendere la pubblicazione.

E’ stato prontamente sostituito da un’altra casa editrice. A chi lo accusa di aver esagerato l’entità delle “altre perdite”, Bacque risponde «andate a leggere gli archivi dell’Nkvd. Le memorie scomparse degli archivi i Stato di Washington, Parigi e Londra, li ci sono tutte. Anche se i russi non erano certo teneri nei confronti dei tedeschi: il loro obiettivo era quello di trasformare i tedeschi in schiavi».

Schiavi? E perché? L’autore non ha dubbi: «Perché i russi erano stupidi».

Ma si può parlare di tentativo di genocidio del popolo tedesco, così come ci fu un tentativo di genocidio per gli ebrei? Bacque pensa di si: «Dopo la guerra ci fu un tentativo di stremare la popolazione tedesca, impedendo i convogli di cibo, “per punire” la Germania. L’atteggiamento vendicativo fu soprattutto degli americani e dei francesi, i più duri anche durante la guerra».

Di chi le responsabilità? Dei militari, di chi dirigeva i campi di prigionia, o anche del corpo politico? Qui scoppia la “bomba” di Bacque. De Gaulle sapeva. Ma soprattutto Eisenhower, comandante dello Shaef (Supreme Headquarters Allied Expeditionary Forces, Supremo Quartier Generale delle Forze di Spedizione Alleate), poi dell’Usfet (United State Forces European Theatre, Forze americane sulla scena europea), e futuro presidente degli Stati Uniti, sapeva.

Non solo sapeva: appoggiava, e stimolava azioni contro i tedeschi. «Il tedesco è una bestia», diceva Eisenhower. «Sterminatelo». L’idea aveva un precedente storico nel “Piano Morgenthau” varato a Washington dopo lo sbarco in Normandia, e sottoscritto da Roosevelt, Stalin e Churchill: la Germania andava ridotta allo Stato agricolo, con lo smantellamento di tutti gli impianti industriali. Il progetto doveva rimanere segreto, ma la stampa lo rivelò subito, provocando una forte reazione di sdegno nell’opinione pubblica.

Ma la scoperta dei lager nazisti desto naturalmente un’impressione maggiore. E così gli Stati Uniti si sentirono legittimati a non rispettare, per esempio, la convenzione internazionale di Ginevra sui prigionieri di guerra tedeschi, trasformando con un artifizio giuridico la categoria “Pows” (prigionieri di guerra, come definiti dalla Convenzione) in “Def” (Disarmed Enemy Forces, Forze nemiche disarmate). I “Def” non godevano della protezione stabilita dal trattato ginevrino, e quindi potevano essere diffamati, maltrattati, esposti a malattie mortali.

Non solo Eisenhower sapeva: Ike mentì : «Mentre i prigionieri di guerra in mano degli americani morivano di fame e di stenti – dice Bacque – a Parigi egli dichiarò, nel febbraio del ’45, che “gli Stati Uniti rispettano pienamente la Convenzione di Ginevra, come è sempre stato nella tradizione militare americana”.

Eisenhower andò anche oltre: impedì ai “buoni americani”, mossi a pietà, di aiutare i tedeschi dopo la guerra». Bacque ricorda in proposito i tentativi di alcune comunità di “quaccheri” di inviare cibo, falliti per l’intervento del futuro presidente. Lo sdegno per gli orrori dei lager nazisti, insomma, portò con sé astio, rancore e sentimenti di vendetta che avvelenarono gli animi degli americani e dei francesi. Non altrettanto, sostiene Bacque, quelli dei britannici e dei russi.

Tra poco Other Losses sarà disponibile anche in Italia. Nel frattempo il dibattito continua, e Bacque è di nuovo all’opera. Il suo prossimo libro si chiamerà War crimes of all allies since 1945, e sarà dedicato alle sopraffazioni americane (ma non solo) dalla fine della guerra in poi: Vietnam, Iraq, Afghanistan… E si parlerà non solo di sopraffazioni, ma di veri e propri crimini di guerra. Quelli che fino ad oggi sono stati attribuiti quasi esclusivamente ai nazisti. La verità storica che Bacque cerca di ristabilire è di portata molto più ampia: «Il Bene e il Male, nella Seconda Guerra Mondiale come oggi, non stanno da una parte sola, ma nella mente e nel cuore dell’uomo».

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Prigionieri italiani in Usa: nemici o alleati?

Tra i prigionieri di guerra degli Americani c’erano anche 50 mila italiani, catturati sulle coste nord-africane e in Sicilia e trasferiti negli Stati Uniti tra il 1941 e il 1943. La maggior parte fu catturata dagli inglesi. I racconti di questi soldati, marinai e avieri, rivelano non solo l’orrore della guerra, ma le condizioni disperate nelle quali anche i più valorosi furono costretti ad arrendersi.

Louis Keefer, nell’esercito americano tra il ’43 e il ’46 e pubblicista nel settore bellico dopo la Seconda guerra mondiale, ha dedicato a questo argomento Italian prisoners of War in America, 1942-1946 Captives or Allies (dicembre 1992, Praeger Publishers – New York) basandosi sulle testimonianze di ex prigionieri di guerra italiani, Keefer ha ricostruito l’odissea dei nostri connazionali in viaggio coatto verso le coste americane, e la loro esperienza diretta come prigionieri.

Secondo Keefer la maggior parte del personale dell’esercito Usa addetto ai “Pows” rispettava scrupolosamente, almeno in un primo momento, le regole fissate dalla Convenzione di Ginevra: tra le altre il trasferimento immediato dalle zone di combattimento, un adeguato sostentamento e un’adeguata assistenza sanitaria, la possibilità di inviare e ricevere posta. Ma, ciononostante, si verificarono molti “incidenti”, tra cui l’uccisione di prigionieri italiani e tedeschi che cercavano sollievo dalle infezioni intestinali dovute al terribile clima del deserto africano “liberandosi” in prossimità di trincee vicine al filo spinato.

Keefer, come Bacque, solleva inoltre pesanti dubbi sull’affidabilità del coverage della vita dei prigionieri di guerra da parte di quotidiani come il New York Times. In particolare quest’ultimo, sostiene infatti Keefer, verso la fine del ’43 cominciò a descrivere gli italiani prigionieri a Pine Camp, nei pressi di New York, come «gente disciplinata, pulita, energica, cooperativa e timorata di Dio». L’unica differenza tra gli italiani e i soldati americani (i “G.I.”, “Government Issues”) era «quel piccolo crocifisso al collo». Dal quadretto idilliaco che dipingeva il New York Times, insomma, gli italiani emergevano come gente allegra, vitale, alla mano, tutto sommato contenta si stare lì.

Beati loro… una storia molto diversa è quella raccontata da chi nei campi di prigionia in America c’è stato sul serio. Nella primavera del 1945 il ministero della Guerra ridusse drasticamente l’ammontare giornaliero di calorie destinato ai prigionieri italiani. Le motivazioni addotte avevano un carattere di rappresaglia: alcuni soldati americani erano tornati dai campi di prigionia tedeschi ed avevano detto di essere stati malnutriti. Molti italiani prigionieri in America furono inoltre assegnati a lavori rischiosi, in alcuni casi fatali, e comunque ben al di là dei limiti fissati dalla Convenzione di Ginevra.

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