Comunisti e nazisti un atroce legame

Hitler_StalinArticolo pubblicato da Il Giornale il 27 maggio 1999

di Paolo Guzzanti

L’uomo che avevo di fronte a me il 2 maggio scorso si chiamava Andrej Brzeski. Un forte accento polacco dal suo americano forbito da storico dell’Università di California. Sono andato ad incontrarlo assieme ad altri storici che verranno a Roma per il primo congresso sulla fine del comunismo, a dieci anni dalla caduta del Muro di Berlino e mi trovavo in presenza di un uomo mite. Mite ma allo stesso tempo duro.

Aveva 18 anni quando i russi decisero di spedirlo in un gulag. E prima di andare nel gulag il giovane Andrej era stato in un campo di concentramento nazista: «Con i russi era tutto diverso» mi disse: «niente forche, niente gas, niente crematori. Soltanto baracche, fame, fatica, gelo. Nessuno veniva ad ammazzarti. Nulla di così metodico e volgare, con i russi. Il risultato alla fine del primo anno di gulag era però competitivo con le strutture naziste: un quarto degli internati era morto. Duemilacinquecento su diecimila.

Cinque anni al gelo e alla fame cercando di sopravvivere. Quando mi lamentavo con una vecchia contadina russa – noi eravamo schiavi in un’azienda agricola sovietica – quella mi rispondeva di che ti lamenti, Andrej? Hai acqua potabile e una fetta di pane tutti i giorni. E due cucchiai di zucchero alla settimana. Noi non abbiamo neanche quello».

Andrej mi disse: «Capii a partire da quel momento che tanto il comunismo come l’Unione Sovietica erano creature del male, mostri da abbattere in nome della dignità umana. Senza esitazione». Brzeski era perseguitato dai russi perché la sua famiglia aveva mantenuto collegamenti con il governo polacco in esilio a Londra, un governo nato per resistere all’aggressione e all’invasione sovietico-tedesca, o meglio Stalin-hitleriana.

Questo racconto udito dalla viva voce di un uomo cordiale, sentimentale, dotato di senso dell’umorismo, mi è tornato alla mente leggendo la notizia della censura che la casa editrice Einaudi, la casa in pratica creata da Palmiro Togliatti come un fiore all’occhiello dell’intellettualità di sinistra e che fu affidata al figlio del primo presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, campione dei liberali italiani, ha applicato ad una lunga intervista concessa da Gustaw Herling, genero di Benedetto Croce, uno dei pochi tedeschi che abbiano resistito al nazismo pagandone prezzi terribili.

L’intervista era stata data a Piero Sinatti e Anna Raffetto. L’intervista era stata progettata dallo stesso Giulio Einaudi, come corredo e premessa alla vasta raccolta degli scritti di Varlam Shalamov, il più grande e meno conosciuto scrittore russo di campi di concentramento dopo Solgenitsin. Perché la casa editrice Einaudi ha operato una censura su questa intervista affinché non possa essere letta per i suoi tipi? Noi non ne siamo certi anche perché gli stessi curatori einaudiani negano e si aggrappano ad una questione di collane editoriali che poi si è rivelata del tutto falsa (come ha dimostrato Paolo Mieli su La Stampa di domenica scorsa), ma una risposta siamo in grado di immaginarla.

La domanda vale la pena porsela: certamente non sono i racconti crudi delle peggiori efferatezze nei lager staliniani ad avere impressionato i nostri post comunisti. No, si trattava certamente d’altro. Il motivo va cercato nell’unico e solo elemento di vero scandalo che può ancora oggi far scattare quella censura. E cioè nel fatto indicibile e orribile che in qualsiasi casa comunista o post comunista dabbene viene tuttora mantenuto sotto spirito in cantina, nascosto dietro ai copertoni dei camion, e negato a qualsiasi perquisizione.

Questo motivo e mostro consiste nelle documentazioni che in qualche modo rendano visibile la perfetta integrazione e l’alleanza tutt’altro che occasionale e tutt’altro che tattica fra il nazismo e il comunismo sovietico, di cui il patto militare Ribbentrop-Molotov è soltanto l’elemento più noto e tutto sommato meno indecente. Il fatto, il fatto veramente tremendo, è che c’è dell’altro. Diceva tra l’altro Herling nell’intervista censurata: «La differenza tra i due regimi riguarda i metodi di uccisione.

E’ chiaro che nei campi sovietici non si mandavano le vittime nelle camere a gas, ma lo sterminio avveniva tramite il lavoro massacrante, il freddo, la fame, le percosse. Il risultato era lo stesso. Shalamov ha fatto chiaramente capire che avrebbe preferito morire piuttosto che soffrire per tanti anni nella Kolyma, non a caso definita “il crematorio bianco”»

Credo che in questa espressione, crematorio bianco, sia contenuto tutto il senso dell’atroce astuzia del comunismo russo, e poi polacco, e poi tedesco orientale, ceko, jugoslavo e, per quel poco che si poté vedere con la Volante Rossa e il triangolo della morte di Reggio Emilia, anche italiano. Credo personalmente di essere stato molto fortunato: vedendo Brzeski, e provando una forte commozione di fronte al suo racconto di persona viva, ho potuto rendermi conto del fatto che l’enormità, la viltà, l’ingiuria delle sue vicende non apparteneva ad un passato «storico», decrepito e ingiallito nelle pagine dei libri, affidato ormai alla cura da becchini dei ricercatori di biblioteche.

Macché, si tratta di carne della nostra carne, di uomini del nostro mondo, testimoni della nostra epoca. E sono felice di avere conosciuto Brzeski, Pipes e tanti altri prima del loro arrivo al congresso che si svolgerà a Roma nei primi giorni di giugno, e di cui dirò tra poco. Sono contento perché li ho conosciuti per quel che sono: testimoni e protagonisti, gente che il gulag lo ha visto davvero e che ha sofferto e creduto di morire per molti anni della propria vita.

Gente che ha sofferto più per le menzogne e l’astuto imbarazzo censorio con cui il loro sacrificio è stato murato vivo con la calce del silenzio, che per i cinque, i dieci, i diciassette anni di inferno al «crematorio bianco» sofferti da Shalamov e dai suoi disgraziati compagni. Ciò che conta è vedere, capire, mostrare, senza jattanza ma anche senza ipocrisia l’enorme e insuperabile indecenza del comunismo e chiedersi che fine abbia fatto.

Che fine hanno fatto i Vopos che dieci anni fa ancora pattugliavano con il mitra il tetro Muro. E se il comunismo è veramente morto. Oppure se è viceversa soltanto momentaneamente assente, senza dimenticare la sua perdurante e multiforme vitalità nella Corea del Nord, in Vietnam e nella patria del turismo-leninismo, la Cuba che offre ai post comunisti italiani organizzati nelle agenzie di viaggio anch’esse post comuniste, le sue figlie affinché ramazzino dollari per le casse dello Stato di Fidel, feroce nemico dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma non di quello dell’uomo sulla donna.

L’idea del convegno nasce da una fondazione europea «Europe Liberté» presieduta da Eugenio Belloni, che ha chiamato a raccolta moltissime altre fondazioni europee e americane. Lo scopo del convegno non è quello di celebrare fra le polveri delle testimonianze d’antiquariato la «caduta del Muro di Berlino».

Ma piuttosto di tentare di rispondere a una domanda fondamentale: quale Europa andremo a costruire se accoglieremo nell’Unione, alla spicciolata o in massa, tutti quei Paesi che per quattro decenni sono stati abbandonati e tenuti lontani non soltanto e non tanto dalla democrazia (parola vasta e in fondo innocua visto che esistono anche molte democrazie autoritarie) ma dalla «liberaldemocrazia» che è una cosa piuttosto lontana anche dal genoma italiano.

E’ lontana dal nostro Paese perché l’Italia, come terra di frontiera ha costituito una sorta di territorio ibrido fra l’Est e l’Ovest ed è stata allevata per oltre quarant’anni attraverso una pedagogia illiberale, figlia dei comunisti, degli azionisti, e dei socialisti legati ai comunisti, senza dimenticare un certo tipo di tetro cattolicesimo di un tempo, secondo cui la democrazia è un luogo del tutto fittizio nel quale però il Papa e Stalin si incontrano per contarsi reciprocamente le divisioni corazzate.

Le democrazie liberali sono figlie dell’idea del libero mercato che, contrariamente a quanto ci è stato dato a bere dalla grande centrale socialista-fascista-comunista (sempre senza dimenticare una robusta dose di integralismo cattolico) non è affatto la terra degli infedeli capitalisti arraffoni e disumani, dediti ad ammucchiare denaro soltanto per farci il bagno come Paperon de’ Paperoni.

No, la differenza che separa l’Europa dell’Unione a cui apparteniamo e quella di domani cui potremmo appartenere, è la distanza che separa le democrazie autoritarie dalle liberaldemocrazie in cui il rispetto della persona singola è sacro, la libertà privata è sacra (con i limiti delle regole collettive le quali esistono in quanto servono per meglio tutelare i singoli individui), e si conviene che queste libertà individuali, compresa la libertà di produrre cultura, scienza, tecnologia, poesia, letteratura, musica, sono una conseguenza a cascata delle liberà grazie alle quali è possibile fabbricare la ricchezza da portare sui mercati, di cui una quota importante finisce nella difesa dei più deboli e in quella per il rispetto delle leggi nazionali e internazionali.

Sembra una cosa da nulla, ma non lo è. Tant’è vero che la Germania, che sta appena riprendendosi dal collasso subito per il tentativo di inghiottire in un sol boccone avvelenato l’indigesto malloppo della ex Repubblica Democratica Tedesca, ha preoccupazioni diverse da quelle che abbiamo noi italiani: per i tedeschi non esiste il problema politico interno, oltre a quello storico e morale, in materia di verità dei fatti sul comunismo. I tedeschi conoscono la verità molto bene per averla vissuta in casa, ne conoscono la storia per filo e per segno sia quelli che hanno subito la grande ingiuria, sia quelli che erano costretti ad assistere impotenti dall’altra parte dell’infame Muro.

Uno dei partecipanti al convegno, Paul Goble, che è un viaggiatore dei Balcani e un esperto degli Stati baltici, mi ha fatto notare durante il nostro incontro a Washington che i diversi Paesi hanno resistito in maniera diversa al comunismo a seconda delle forze interne di tipo culturale o nazionale che avevano o viceversa di cui mancavano. Paesi come la Lettonia o la Polonia o la Croazia hanno potuto resistere grazie ad una forte identità nazionale o religiosa e hanno superato con danni ridotti la buia notte del comunismo. Ma quelli più deboli, nazionalmente meno consistenti, hanno subito invece una sorta di spappolamento della identità civile e umana.

Personalmente, quando nel 1990 intrapresi un viaggio nell’Europa appena liberata dal comunismo andai a Praga pensando ai giorni della liberazione alla fine della guerra, alla liberazione dalla dittatura fascista. E immaginavo di trovare in Boemia una nazione che si accingeva a risorgere. Ma fui deluso: benché restassi nella capitale per oltre un mese, tutto quello che riuscii a rintracciare negli esseri umani e anche nei pochi scrittori che avevano seguitato a produrre, era depressione malumore smarrimento e rancore: rancore per i russi, rancore per i ricchi occidentali, rancore per la vita rovinata, per l’incapacità di rigenerarsi.

Quest’esperienza fu poi rafforzata da una visita nella Romania di Iliescu, cioè il capo dei comunisti che aveva fatto fuori a colpi di mitra il grottesco Ceausescu e sua moglie. Il regime rumeno era stato immediatamente salutato in Italia e dai sui comunisti come una meravigliosa e rinascente democrazia, mentre era in realtà una falsa e grossolana imitazione della democrazia che conservava tali e quali tutti gli elementi della più feroce dittatura a cominciare dalla polizia segreta e dagli squadroni della morte reclutati tra i minatori armati che decapitavano gli studenti ribelli con la piccozza sotto le finestre del nostro albergo.

A quell’epoca mi trovai in una situazione di grandissimo imbarazzo e di feroce attrito con il gruppo centrale dei giornalisti comunisti che guidavano la messa in pagina del giornale per il quale a quel tempo lavoravo e che attaccarono pesantemente le mie corrispondenze censurandole e sostituendole con notizie di agenzie redatte da giornalisti non sempre limpidi.

Cito questi elementi disparati e persino disperati, per poter meglio spiegare l’opportunità, anzi la necessità e la moralità di un convegno che cerchi oggi di raccogliere almeno i primi elementi istruttori da poter usare successivamente per un processo storico e morale al comunismo e ai comunisti. Né penso bisogna farsi terrorizzare dai cliché ben rodati con cui l’anticomunismo viene criminalizzato, o trattato come un episodio di demenza, invariabilmente deriso attraverso la nota formula secondo cui «i comunisti non mangiano più i bambini».

Uno dei miei interlocutori in queste settimane, Andrej Beichman, uno storico newyorkese di origine ebraico-ucraina, mi ha detto di avere scritto un saggio sull’anticomunismo. E cioè ha cercato e rintracciato le radici odiose, viscerali, menzognere e velenose di coloro che odiano e insegnano a odiare con profondo rancore gli anticomunisti: vale a dire tutti coloro che semplicemente conoscono e riconoscono quella parte della verità dei fatti che si è riusciti ad afferrare finora ma che gradirebbero molto conoscere anche la grande parte sommersa. E a questo scopo che il convegno di Roma viene indetto.

Un altro prestigioso partecipante, Richard Pipes, ha scritto molti libri di storia dell’Est fra cui uno recente appena tradotto per la Mondadori di grande qualità letteraria. Pipes è un uomo alto e magrissimo, fuggito dalla Polonia con un candelabro ebraico nascosto in un mucchio di stracci. Dopo aver insegnato a lungo oggi vive da pensionato in una casa di legno vicino all’Università di Harvard, decorosa ma certamente non ricca: «I miei libri hanno successo in America e in Inghilterra, mi hanno detto. E anche in Polonia e nella Repubblica Ceca. Ma pochissimo in Francia e per nulla in Italia». Come mai? Supponiamo per gli stessi motivi per i quali la gente che cura la casa editrice Einaudi ha deciso di eliminare l’intervista a Herling su Shalamov.

Il motivo sta infatti nella messa a nudo dell’autentica indecenza nascosta: e cioè la strettissima connessione fra teoria e pratica del comunismo, del fascismo e del nazismo, della loro cuginanza prossima al gemellaggio, spezzata soltanto nel momento in cui il socialista nazionale Aadolf Hitler (quello che i prigionieri politici li faceva ordinatamente gasare e cremare anziché affidarli al disordine del gelo e della fame) decise di pugnalare alla schiena il socialista sovietico Josif Giugasvili detto Stalin, con il quale aveva combinato già alcune marachelle armate ai danni dell’Europa.

Robert Conquest, storico e poeta, metterà a nudo questi elementi dello stalinismo mentre Pipes ha scritto un capitolo fondamentale della sua opera, di cui darà conto nel corso della sua realizzazione, documento dopo documento, omicidio dopo omicidio, della crescita simultanea e contigua di tre dittature che si sono distinte prevalentemente in questo: che quando due delle tre sono state distrutte militarmente la terza ha avuto la licenza di manipolare la storia in modo tale da poter far credere, scrivere e far scrivere che mai nel modo più assoluto essa fu contigua e organica alle altre due. Eppure, c’è un elemento visibile al di la di ogni imbarazzo che dice esattamente il contrario: e cioè l’odio feroce e irreversibile, comune a tutte e tre le dittature, per la borghesia, per l’Occidente, per il capitalismo, per i valori semplici della libertà.

E poi, capitolo fondamentale per la comprensione del comunismo e per consentire una risposta sensata alla domanda se esso sia ancora vivo o sia viceversa morto, il congresso affronterà, attraverso il panel dedicato all’Italia e con il contributo importante di Massimo Caprara che i lettori del Giornale ben conoscono, la questione della egemonia gramsciana. E cioè la geniale teoria elaborata da Antonio Gramsci e poi applicata nell’ordine da Mussolini, Lenin, Stalin, Hitler e in una misura diversa e in una qualità più raffinata Togliatti, consistente nel governare non attraverso l’occupazione delle strutture fondamentali dello Stato, come potrebbero essere la Rai, la magistratura o le università, ma grazie ad una linea di comando articolata attraverso persone che non sono legate al partito, ma la cui carriera e la cui sorte è tuttavia determinata dal partito.

La casa editrice Einaudi, benemerita e stimata, ma tuttavia selettiva e organica, fu una delle creature eccellenti dell’egemonismo praticato da quel raffinato politico che fu Palmiro Togliatti, il quale tuttavia si lamentava spesso e con fastidio degli zelanti. Oggi Togliatti è morto e anche l’editore Giulio Einaudi è morto. Ed è forse giunta l’ora degli zelanti allo stato puro. Tocca a loro forse dare dimostrazione con un atto di censura del fatto che il comunismo è vivo e lotta con noi. Anzi, contro.