Pci, mezzo secolo di finta opposizione

consociativismoInserto pubblicato su L’Italia Settimanale

Democrazia Cristiana e Partito Comunista hanno governato insieme, con ruoli diversi, ma con la stessa politica: quella della compensazione degli interessi. Del resto Aldo Moro lo aveva detto chiaramente nell’estate del ’74: «La funzione del Pci nel nostro sistema politico è quella di aiutare la Dc al governo stando all’opposizione»

di Carlo Cerbone

Palmiro Togliatti dovette trarre un gran sospiro di sollievo quando nell’aprile del ’48, due giorni dopo la chiusura dei seggi, si conobbero i risultati delle elezioni: 13 milioni circa di voti alla Dc, “solo” 8 al fronte popolare. Per quanto amara, la sconfitta toglieva il Pci da un impiccio serio: andare al potere, in piena guerra fredda, in un Paese che apparteneva alla sfera di influenza americana; la forte affermazione elettorale, d’altra parte, dava al Pci la possibilità di condizionare il governo e costituiva un’ottima base per la scalata dell’esecutivo quando le circostanze l’avessero resa possibile. la vittoria del fronte popolare, invece, avrebbe avuto conseguenze drammatiche sul piano internazionale e su quello interno: ciò che Togliatti temeva sopra ogni cosa era la “prospettiva greca”, ossia un intervento militare esterno che stroncasse il partito e lo costringesse alla clandestinità.

Timore non infondato. Gli Stati Uniti avevano promesso aiuto militare al governo italiano se la libertà fosse stata minacciata, e per rendere tangibile l’impegno avevano inviato navi da guerra a incrociare nelle nostre acque. Erano stati gli stessi comunisti a fornire agli americani lo spunto per prospettare un intervento. Scoccimarro, già ministro delle Finanze e capo della delegazione del Pci nel secondo governo tripartito, alla vigilia dello sciopero generale a oltranza dell’11 dicembre ’47 – il 157° in sei mesi a Roma – aveva proclamato il 1948 anno decisivo «in cui la parola sarebbe passata alle armi».

E armi si erano viste in tutte le manifestazioni di piazza, sia quando il Pci faceva ancora parte del governo, sia dopo la sua estromissione; armi si erano viste nell’assalto alla prefettura di Milano e alla stessa sede della Presidenza del Consiglio; armi erano state usate proprio nella regione dove il Pci era al potere: l’Emilia Romagna.

No, quello non era davvero il momento di prendere il potere (legalmente o con la forza delle armi poco importa) in un Paese di frontiera come l’Italia. Lo stesso Stalin riteneva finito il periodo della coalizione antifascista, e alla riunione di fondazione del Cominform (settembre ’47) i partiti comunisti italiano e francese erano stati messi pesantemente sotto accusa per essersi condotti in modo troppo conciliante con i “partiti borghesi”, e “solo” per restare al governo.

Senza rinunciare alla strategia basata sulla ricerca di coalizioni politiche e di alleanze di classe, con particolare attenzione al mondo cattolico, Togliatti sia pure controvoglia si era adeguato alle nuove direttive di Mosca, alla mutata realtà, e aveva puntato tutto sulla penetrazione del partito nella società civile, sull’acquisizione di potere in ogni settore a ogni livello, sull’affermazione elettorale come base di ogni politica, accompagnata dalla minaccia della piazza, da continue richieste – meglio se non accoglibili – che dovevano alimentare un perenne stato di agitazione.

Obiettivo: il dissesto dello Stato e dell’economia, attraverso la deformazione e la paralisi delle strutture democratiche-liberali e del mercato. Obiettivo che l’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, James Dunn, aveva colto bene: «I comunisti, che sono rappresentati nel gabinetto da un gruppo di uomini di secondo piano – aveva scritto al segretario di Stato Gorge Marshall -, fanno tutto il possibile, al di dentro e al di fuori del governo, per provocare l’inflazione e il caos economico».

La sconfitta elettorale dell’aprile ’48, per quanto frustrante, consentiva al Pci di uscire dalla “prospettiva greca” e di portare avanti la tattica della penetrazione-dissoluzione anche se, ormai solo dall’esterno del governo. Tattica dai tempi lunghi, ma con ottime possibilità di successo, già sperimentata in altre circostanze e nella stessa Italia al tempo dell’ultimo tripartito, standola governo ma comportandosi da opposizione, e rispondente per di più alla politica di Stalin verso l’Europa occidentale in quel periodo: tenerla in uno stadio di incertezza e di fluidità per ritardarne al massimo la ripresa economica allo scopo di facilitare un eventuale rilancio del moto espansionistico sovietico.

I calcoli di Togliatti non diedero però frutti a breve termine. De Gasperi aveva compreso benissimo questa politica e fece tutto il possibile per contrastarla, appoggiato dalla Chiesa, dagli industriali e da Washington. Il Pci, con i socialisti al seguito, si trovò in poco tempo quasi interamente isolato e perdette terreno persino nel mondo del lavoro. Conservò un solo vero punto di forza: il potere locale in Emilia Romagna e in alcuni importanti centri del Piemonte, della Liguria e della Toscana.

Le cose cominciarono a cambiare con l’insuccesso elettorale della Dc del ’53, che non fece scattare il premio di maggioranza, e con la conseguente uscita di scena di De Gasperi. I mutamenti di uomini e di politiche nello scudocrociato aprirono alla tattica del Pci varchi nella società, nell’economia, nei poteri pubblici; varchi che si faranno sempre più ampi.

La Dc peraltro non aveva mai avuto interesse a piegare l’avversario oltre un certo punto: lo spauracchio del comunismo le serviva per tenere legate al proprio carro le forze laiche,per ottenere un più sicuro appoggio dalle gerarchie cattoliche e dalla grande industria, per continuare a ricevere sostegno politico e aiuti economici dagli Statu Uniti. La Dc aveva bisogno del Pci.

Tutto questo i comunisti lo sapevano, e il vantaggio che essi – con il semplice esserci – rappresentavano per la Dc se lo fecero ripagare «con larghe tolleranze e dissimulati favori», dirà Giuseppe Maranini. Da questa coincidenza di interessi fra i due partiti protagonisti della lotta politica nacque quella che lo stesso Maranini chiamerà «solidarietà antidemocratica» la quale «spiega l’immobilismo non privo di sostanziali sfumature reazionarie, evidente in tutto il primo ventennio repubblicano, e anche la mancanza di ogni genuina dialettica fra i due antagonisti-protagonisti».

Una solidarietà che è tra le cause principali del disastro italiano. la cogestione Dc-Pci del potere ha una base teorica, giuridico-istituzionale, e gliela danno i comunisti con l’interpretazione della Costituzione come fondamento di una “democrazia progressiva”. La nostra carta fondamentale, sostengono, respinge la classica formula anglosassone dell’alternanza nel tempo tra maggioranza e opposizione, in favore dell’equilibrio sincronico tra le forze politiche basato sul frazionamento delle funzioni di decisione e di controllo nel Parlamento e nelle altre arene politiche.

Per propugnare questa interpretazione consociativa della Costituzione i comunisti fanno leva proprio su quegli elementi di garantismo in essa contenuti che avevano fortemente avversato nel periodo della Costituente, quando stavano al governo. Il modello costituzionale sincronico, osserva Giuseppe Di Palma, «comportava la partecipazione di tutte le forze politiche alle decisioni a differenti livelli e secondo alleanze variabili, e rompeva la tradizionale contrapposizione tra maggioranza e opposizione, accordando a quest’ultimo l’opportunità di partecipare a compiti di governo e alla formazione delle istituzioni garantiste».

La Dc prima subisce questa visione assembleare del governo, poi la fa propria. Uno dei frutti politici della convergenza dei due partiti sono i nuovi regolamenti parlamentari del 1971, che favoriscono una legislazione frazionata, incoerente, scoordinata, invadente, particolaristica. Tutto viene regolato per legge, anche le cose più minute, ma sempre fuori da una visione globale e quindi senza guardare agli interessi collettivi, anzi talvolta calpestandoli. il parlamento ormai agisce, nota il repubblicano Adolfo Battaglia, «non per operare sintesi politiche ma per giungere a mediazioni di interessi». Di questo modo di legiferare, governare e intendere la politica, Tangentopoli sarà il frutto inevitabile.

La collaborazione legislativa di Dc e Pci comincia nelle commissioni parlamentari deliberanti, là dove non giunge l’occhio del pubblico e spesso le votazioni avvengono senza numero legale. E’ nelle commissioni che si produce gran parte della normativa settoriale: le cosiddette “leggine”, alle quali si devono i maggiori guasti nel sistema normativo e, almeno in parte, la crescita del debito pubblico.

E’ con le “leggine” che trovano soddisfazione gran parte degli interessi corporativi e sezionali; con esse il governo viene posto continuamente di fronte a nuovi fatti compiuti e a nuovi impegni di spesa, che fanno “saltare i conti” e rendono lento e incoerente il processo legislativo. Non è un caso se Pietro Ingrao, presidente della Camera, difende le “leggine”. il Pci, rileva Nicol Matteucci, «ha favorito un sistema che rallenta le grandi riforme, dà spazio agli interessi corporativi, indebolisce il potere esecutivo, senza la forza del quale è inutile parlare di grandi riforme».

Nel ventennio 1948-1968 il parlamento approva 8.010 leggi. Un numero enorme. Il voto del Pci è stato favorevole al 62,8 per cento dei provvedimenti nella prima legislatura, al 77,3 nella seconda, all’88,6 nella terza, al 71,4 nella quarta. Le leggi di iniziativa parlamentare approvate provengono per più di un terzo dall’estrema sinistra.

«L’azione del Pci – osserva Di Palma – influenza anche le leggi presentate dal governo. Gli emendamenti del Partito comunista ai disegni di legge governativi sono più numerosi e vengono approvati più sovente di quelli di qualsiasi altro raggruppamento di opposizione negli altri parlamenti europei»: durante le prime cinque legislature, su tre progetti di legge governativi, due sono stati approvati con i voti comunisti. «Il Parlamento – dice Alberto Predieri – rivela l’esistenza di una maggioranza di gestione ben più ampia della maggioranza espressa dal voto di fiducia».

Con gli anni Settanta, e specialmente alla fine di essi, al tempo della “Solidarietà nazionale”, la cooperazione fra maggioranza e opposizione di sinistra si estende dalle questioni sezionali, clientelari alle grandi scelte, tanto che diventa difficile stabilire se e dove si debba tracciare la linea di demarcazione tra maggioranza e opposizione. Non è più nemmeno chiara la paternità ultima di alcune delle più importanti proposte legislative del governo: infatti, l’opposizione ne rinnega spesso la paternità dopo averne alterato il contenuto, dando alla fine voto contrario o astenendosi.

Il risultato è una legislazione che riflette una convergenza temporanea di gruppi di interesse ed è quindi aperta a continue rinegoziazioni. La logica della clientelizzazione e della frammentazione delle risorse viene portata alle estreme conseguenze: il metodo di comprare il consenso attraverso ricompense viene utilizzato su scala più ampia, e il suo costo per la collettività si fa più alto.

Dc e Pci governano insieme, con ruoli diversi, ma con la stessa politica: quella della compensazione degli interessi. la presenza dei due partiti negli stessi gruppi sociali organizzati, e il loro stesso modulo di organizzazione, secondo Adolfo Battaglia, li spinge «a una sostanziale convergenza di metodo e di prassi».

D’altra parte, la politica di non -programmazione e di non scelta che seguono entrambi questi partiti consente loro chiari vantaggi di ordine politico: permette cioè alla Dc «di distribuire reddito in ogni aggregato sociale attraverso gli strumenti di potere da essa controllati», e permette al Pci, come partito di opposizione, «di continuare ad avere presenza in quello stesso aggregato, dichiarandosi il vero motore della distribuzione di reddito intervenuta, attaccando la Dc per averne impedita una maggiore».

Parallelamente, il Pci usa il potere locale e il sindacato per condizionare la politica del governo e le scelte del Parlamento. Lo fa da posizioni di forza crescente , almeno fino agli inizi degli anni ’80. Dopo le elezioni del ’70 i comunisti amministrano, da soli o in alleanza con i socialisti, 530 comuni superiori ai 5.000 abitanti, una ventina di province e 3 regioni.

Dopo le elezioni del ’75 controllano 888 comuni tra medi e grandi, 48 province, 6 regioni. «Il risultato del doppio processo di crescita del potere dell’opposizione e di crescita delle competenze degli organi locali – ricorda battaglia – è stato quello di dare all’opposizione di sinistra un ruolo non solo nell’applicazione ma nella elaborazione stessa delle politiche di governo». potere locale, potere sindacale, controllo dei movimenti di protesta sono i principali strumenti con cui il Pci applica, sin dal tempo delle “coalizioni antifasciste”, la tattica del «massimalismo sapiente», come la chiama Luciano Cafagna, rimasta come «retaggio non ancora ricusato» al Pds.

Il “massimalismo sapiente” è una tattica che consiste nell’usare in modo oculato la minaccia e la rinuncia. In breve, essa è finalizzata allo scambio: io posso farti del male, rinuncio a fartelo se tu in cambio mi dai questo… Naturalmente, lo scambio sarà tanto più vantaggioso quanto maggiore sarà lo spessore della minaccia, il quale è dato dalla forza di chi minaccia e dalla sua capacità di alimentare una cultura agitazionista con richieste sempre nuove e sempre più esose.

Con la forza parlamentare, il controllo degli enti locali, del sindacato e dei movimenti di protesta, il Pci-Pds si è procurato un potere di veto con il quale ora ha impedito l’assunzione dei decisioni governative non gradite, ora ha costretto il governo e le forze della maggioranza a prendere decisioni diverse da quelle che avrebbe voluto. La Dc e i suoi alleati avrebbero potuto far fallire agevolmente questo gioco, semplicemente andando a vedere quanto fosse consistente la minaccia comunista.

Non lo hanno mai fatto, però. secondo Cafagna, perché era più facile e dava vantaggi più sicuri. Tra questi, la possibilità di usare l’oppositore-incendiario come pompiere nei momenti davvero cruciali, come quelli della crisi economica. La partita, in sostanza, si è giocata in questi cinquant’anni – dice Cafagna – «in termini perversi, a spese di un terzo: il futuro».

Il consociativismo all’italiana è stato, in sostanza, prima di tutto, «corresponsabilità fra maggioranza e opposizione sulle modalità del pagamento del prezzo degli accordi politici e sociali». Pagamento che veniva richiesto a un terzo – lo Stato – il quale non imputava il costo immediatamente a nessuna categoria. E quando sembra che nessuno paghi, è perché pagano tutti: con l’inflazione e/o il debito pubblico.

Aldo Moro lo aveva detto, nell’estate del ’74: la funzione del Pci nel nostro sistema politico è quello di aiutare la Dc al governo stando all’opposizione.

La stampella della Dc

Dalla metà degli anni ’70 i comunisti partecipano a pieno titolo allo spoil-sistem, cioè alla lottizzazione, al clientelismo di Stato che alimenta la logica inflazionistica e che proprio in quegli anni mostra di portare il Paese alla bancarotta. A quanti da sinistra lamentano che il Pci, lungi dal «liberare lo Stato democratico dai vincoli oppressivi e parassitari», si lascia coinvolgere nella pratica del malgoverno democristiano, da Botteghe Oscure si risponde con argomentazioni così speciose da non risultare buone nemmeno per il direttore di Repubblica, Eugenio Scalfari.

Innanzitutto, dice il Pci, l’appartenenza ad un partito non deve costituire di per sé un elemento favorevole o contrario a un particolare candidato ad un posto pubblico; in secondo luogo la spartizione continuerebbe ad esserci anche senza la partecipazione del Pci ad essa. Scalari ricorda che queste giustificazioni sono le stesse portate dai socialisti quindici anni prima, e osserva che non si vede «perché i comunisti dovrebbero uscire indenni dalle paludi nelle quali affondarono i socialisti».

Ma quel che conta di più non è l’aspetto morale – pur rilevante – bensì quello politico. All’inizio degli anni ’70 la Dc cominciò ad ammettere il Pci nel proprio sistema di potere perché c’era stato il collasso di tutte le formule politiche usate dal ’48 in poi, perché il clientelismo di Stato marciava verso la bancarotta e la crisi economica (dovuta in gran parte ad esso) e obbligava a chiedere sacrifici ai lavoratori per tenere in piedi il sistema. La Dc insomma aveva bisogno del Pci come stampella del proprio potere.

I comunisti avrebbero potuto approfittare dello stato di necessità in cui si trovava la Dc per imporre una svolta nel sistema di governo e di gestione della cosa pubblica. Invece, tolsero le castagne dal fuoco allo scudocrociato (specialmente, con Luciano Lama, quelle che scottavano di più) e in cambio «si accontentarono» di partecipare alla divisione delle spoglie. Col risultato di aggravare la situazione e di portare il Paese alla bancarotta.

La partitocrazia è targata Pci

Se la prima Repubblica è stata assembleare e partitocratrica (lo strapotere del Parlamento inteso come strapotere dei partiti) lo dobbiamo in gran parte ai social-comunisti, che nella Costituente erano più numerosi dei democristiani. La Costituzione, si sa, è il frutto di un compromesso strumentale tra la filosofia e gli interessi delle forze marxiste, democristiane, laiche; gli elementi garantisti che essa contiene sono dovuti proprio a questo compromesso e all’esigenza di ciascuna forza di garantirsi, appunto, nei confronti delle altre. Compromesso necessariamente incerto, peraltro, perché le forze principali partivano da presupposti molto lontani.

La filosofia costituzionale del Pci era decisamente giacobina e centralizzatrice e lasciava poco spazio alle autonomie dei corpi intermedi. Tiepida era la posizione del partito sulla questione del regionalismo, chiara e ferma l’opposizione a un genuino bicameralismo; esplicito il sospetto per la Corte Costituzionale e per l’istituto del referendum: la prima era considerata da Togliatti una bizzarria, il secondo un ostacolo, un limite al potere del Parlamento.

La Dc invece alla Costituente era andata con un progetto costituzionale assai vicino al modello garantista di dispersione dei poteri: presidente della Repubblica dotato di poteri effettivi nella formazione del governo e nello scioglimento delle Camere, magistratura indipendente e autoregolantesi, Corte Costituzionale concepita come un organo al quale ogni cittadino potesse appellarsi, ampie autonomie regionali, possibilità per il popolo di esprimersi direttamente con il referendum, un bicameralismo non solo di facciata, con il senato concepito come rappresentante degli interessi corporativo-territoriali.

Il risultato del compromesso fra queste due concezioni difficilmente conciliabili fu un ibrido. Le limitazioni più significative di poteri riguardano gli istituti che avrebbero potuto costituire un freno al potere dei partiti: referendum: Corte Costituzionale, Presidenza della repubblica, governo, magistratura.

Il garantismo, avversato dal Pci quando si era trovato al potere nei governi tripartiti, fu riscoperto e valorizzato dopo la sconfitta del fronte popolare nell’aprile 1948.

I comunisti chiesero però che venisse affidata al parlamento – e quindi ai partiti – la scelta degli organi garantisti: in tutto, quella della Corte Costituzionale, in parte quella del Csm. La risposta democristiana all’offensiva garantista del Pci fu il congelamento della Costituzione per un lungo periodo: non vennero attuati alcuni degli istituti più importanti previsti dalla Carta. Per la Corte Costituzionale si dovette attendere il 1956; per l’attuazione del Cnel il ’57, per Csm il ’58, per la possibilità di indire referendum e per le regioni il ’70.

* * *

Vollero il finanziamento dei partiti

di Alessandra Papalia

Il Pci è stato il più accanito difensore del finanziamento pubblico dei partiti e del “diritto” degli stessi di sottrarsi ad ogni controllo. Su L’Unità, esattamente 20 anni fa, Armando Cossutta dichiarava che i comunisti non avrebbero mai accettato un controllo «burocratico, fiscale, poliziesco» sulla vita del loro partito. Il modello di bilancio predisposto nell’82 dal presidente della Camera, Nilde Iotti, lo ha reso possibile: un mezzo per legalizzare i furti, lo ha definito Massimo Deodori su L’Indipendente. Ne abbiamo parlato con il radicale Peppino Calderisi, che fu tra i pochi a denunciare i rischi del “modello Iotti”.

Una illegalità legalizzata, dunque. ma qual è esattamente il meccanismo che l’ha resa possibile?

«Il modello di bilancio predisposto dalla Iotti è semplicemente un rendiconto finanziario e non un conto economico e uno stato patrimoniale. Con un meccanismo del genere è possibile non iscrivere nei conti pubblici le proprietà immobiliari, le partecipazioni a società, i debiti e i crediti, è possibile eludere la realtà della propria organizzazione agli occhi dell’opinione pubblica. Abbiamo protestato più volte per questo, e dall’on. Iotti ci è venuta una risposta stupefacente: un modello con lo stato patrimoniale (cito testualmente dalla sua lettera) avrebbe potuto mettere in imbarazzo alcuni partiti nei confronti dell’opinione pubblica».

Ma il “modello Iotti” interpretava la legge sul finanziamento pubblico…

«No, assolutamente. La legge prevedeva un modello di bilancio. E’ stata una scelta autonoma del presidente della Camera predisporre quello schema con il semplice rendiconto di cassa. La legge sul finanziamento pubblico non solo non voleva questo, ma ha affidato al presidente della Camera compiti di verifica, di accertamento, di controllo che non sono mai stati esercitati, anche quando ci sono state in tribunale (come nell’84-’85) ammissioni di finanziamenti illeciti. Non sono mai stati sospesi i finanziamenti pubblici ai partiti resisi responsabili di violazione della legge, come noi abbiamo chiesto e come la legge prevede».

Ma non le sembra che le preoccupazioni di Nilde Iotti avessero qualche fondamento? I partiti di opposizione spesso sono stati presi di mira dall’apparato dello Stato…

«Diciamo che c’è stata da parte di quasi tutte le forze di opposizione una complicità nel sistema partitocratrico. In tutti questi anni quasi il 90 per cento delle leggi sono state approvate con il concorso del Pci, anche quelle sulla contabilità, sugli appalti. Sono le leggi che hanno prodotto 2 milioni di miliardi di debito pubblico. Vuole avere un’idea del clima di questi anni? Nella relazione della Giunta per le autorizzazioni a procedere per il caso Italcasse si può leggere che quando la legge sul finanziamento pubblico non viene violata per motivi personali ma nell’interesse del partito, non c’è reato. Anzi, secondo il relatore, De Cinque,bisogna vedere se non ricorrano gli estremi di attività addirittura “meritevole di giustificazione in termini di valutazione politica”!»