Scristianizzazione della società nel pensiero, da Lutero a Marx e Engels (1)

IL MARXISMO IDEOLOGIA DELLA RIVOLUZIONE
Marx e Engels

di Fernando Ocàriz, Ares 1975

(prima parte)

Nonostante che la storia della cultura e della filosofia occidentali degli ultimi secoli sia assai complessa, occorre segnalare un fattore comune, che mostra una notevole unità di fondo in mezzo a una grande diversità di sfumature. Questo fattore comune è l’eliminazione dapprima di tipo agnostico, poi come affermazione ‘critica’ – di tutto ciò che supera l’uomo, di tutto ciò di cui l’uomo non è causa.

1. Le origini della ‘modernità’

a) L’origine religiosa: Lutero

Ludwig Feuerbach – filosofo tedesco, di cui in seguito parleremo – concepiva come missione dei tempi moderni la realizzazione fino in fondo della “umanizzazione di Dio”, il recupero cioè da parte dell’uomo di tutto ciò di cui l’uomo stesso si sarebbe spogliato per attribuirlo a un Dio trascendente.

Questa “umanizzazione di Dio” Feuerbach la vedeva realizzarsi in diversi modi, e dirà espressamente che “il modo religioso o pratico di questa umanizzazione fu il Protestantesimo” (cit. in Cottier, L’atheisme du jeune Marx, Vrin, 1969, p. 139).

Già prima, Hegel aveva qualificato Lutero come “promotore della vera libertà“. Più interessante ancora è però la testimonianza dello stesso Marx, che considera la Riforma protestante come una fase, anche se insufficiente e incompleta, della Rivoluzione totale. “Lutero ha spezzato la fede nell’autorità, ( … ) ha trasformato i preti in laici, ( … ) ha liberato l’uomo, dalla religiosità esteriore, ( … ) ha emancipato il corpo dalle catene, ponendo in catene il cuore. Ma se ( … ) non fu la vera soluzione, fu tuttavia la vera impostazione del problema” (Filosofia del diritto, Editori Riuniti 1971, p. 102).

Non è questo il luogo per trattenerci sulla persona e sulla vita di Martin Lutero (1483-1546), e per esporre seppur brevemente le sue dottrine. Interessa, invece, mostrare alcuni elementi che fanno della sua concezione religiosa un primo anello della lunga e tortuosa evoluzione del pensiero e della cultura occidentali che ha condotto al marxismo.

In primo luogo Lutero operò una “soggettivizzazione” religiosa: la verità oggettiva della Rivelazione è ridotta al suo significato per me. Si tratta di una profonda inversione, conduce direttamente a considerare Dio funzione dell’uomo, invece di considerare l’uomo in funzione (dipendenza, ordine, ecc.) di Dio.

Ne consegue che la fede viene subito ridotta a fiducia (“fede fiduciale”) nella salvezza, senza un contenuto di verità. Tutto questo, unito alla tesi luterana della corruzione totale della natura umana ad opera del peccato originale, determina la separazione o completa rottura fra fede e ragione: la esagerazione della trascendenza divina (che secondo lui sarebbe inaccessibile alla mente umana corrotta) rinchiude l’uomo nel cerchio della sua soggettività; e la negazione della libertà (altra supposta conseguenza del peccato originale) elimina in fondo l’idea stessa di peccato (giacché dire che tutto è peccato equivale in realtà a dire che nulla è peccato).

In secondo luogo, e in conseguenza di quanto sopra, tutto il soprannaturale verrà poi implacabilmente negato: spariscono la realtà ontologica della grazia, la grazia causata realmente dai sacramenti (considerati semplici stimoli e manifestazioni della fede fiduciale), la verità della Rivelazione (ridotta al suo significato di redenzione dell’uomo) e, passando per l’arbitrarietà del libero esame della Sacra Scrittura, viene negata ogni autorità esteriore, ecc. Non è inutile – per provare l’influenza decisiva di Lutero su molti filosofi posteriori – segnalare che in grande maggioranza i “filosofi moderni” sono protestanti (Kant, Fichte, Hegel, Feuerbach, lo stesso Engels prima di cadere nell’ateismo, ecc.), studiarono teologia protestante, e alcuni dei più rappresentativi furono perfino educati per essere pastori.

b) L’origine filosofica: Descartes

E’ nozione comune indicare l’inizio filosofico di tale “pensiero” moderno, che Feuerbach vedeva teso a “umanizzare Dio”, nel francese René Descartes (1596-1650), per quanto sarebbe forse necessario anticiparlo fino al Rinascimento. Hegel, per esempio, dirà di Descartes che “è il vero promotore della filosofia moderna. Ha incominciato interamente le cose da un principio“.

Descartes, cattolico, alunno dei gesuiti nel collegio di La Flèche dal 1604 al 1612, disincantato dalla formazione filosofica ricevuta, si sentì chiamato alla missione di unificare tutte le scienze con il metodo matematico, ritenendolo però estendibile a tutti i campi del sapere. Espose per la prima volta codesto metodo nel 1637, con la pubblicazione della sua opera Discorso del metodo.

Limitiamoci a esporre brevemente solo alcune delle idee cartesiane, quelle di maggior interesse ai fini di questo capitolo.

Descartes decise, come regola prima del suo metodo, di tenere per vero esclusivamente ciò di cui non si possa dubitare, gli oggetti cioè di intuizione intellettuale o “idee chiare e distinte”. Da ciò consegue che il primo passo fare sia dubitare di tutto, fino a incontrare la cosa che sia assolutamente indubitabile, dalla quale, per deduzione, si possa razionalmente ottenere tutta la scienza.

Conviene notare che, sotto l’apparenza del rigore scientifico, questo punto di partenza (il cosiddetto “dubbio metodico“) presuppone l’inizio di una costruzione filosofica radicalmente anti-umana e – in apparente paradosso – antropocentrica. Non che Descartes trovasse nell’esperienza sensibile un motivo per dubitare dell’esistenza del mondo esterno, ma, poiché aveva stabilito di ricostruire tutto mediante la sola ragione, il primo passo doveva consistere nel negare la veracità, l’evidenza immediata della conoscenza sensibile. E qui sta il suo carattere anti-umano, perché nell’uomo non c’è nessuna possibile conoscenza né, pertanto, alcuna possibile certezza che non abbia origine dalla conoscenza sensibile (cfr S. Tommaso, Somma Teologica, I, q. 84, a. 7).

Nel respingere come falso tutto ciò di cui si possa dubitare, il dubbio raggiunge tutto ciò che sta fuori del pensiero, e potrà salvarsi da questo dubbio soltanto ciò di cui si raggiunga – dopo l’inizio assoluto – un’idea chiara e distinta: e qui il filosofare cartesiano ci si manifesta antropocentrico, giacché costituisce la ragione umana come centro, regola e misura della verità; e, in fondo, come qualcosa di più ancora, come produttrice della verità delle cose.

Ma in questo modo il risultato sarà una “verità ideata“, sarà una “verità ridotta a semplice condizione di possibilità“, cioè di non contraddizione logica; non la verità dell’essere, della realtà del mondo, che non è rinchiudibile né abbracciabile in modo totale dalla mente umana. Così “la scienza cartesiana preferisce una spiegazione di qualcosa che non esiste, piuttosto che l’esistenza di qualcosa che non comprende” (Cardona, René Descartes: “Discorso sul metodo”, Japadre 1975).

Descartes credette di trovare l’inizio assoluto che cercava nella intuizione immediata del proprio pensiero. L’espressione tipica di questa prima verità, dalla quale dovrebbe esser derivata ogni altra verità, è cogito, ergo sum (“Penso dunque esisto“), che nonostante la forma del ragionamento pretende di essere una intuizione immediata, completamente reversibile: SUM, quia cogito (“Sono, perché penso“). Sarebbe l’apprensione dello ‘spirito’, il cui “essere è pensare“.

Fuori dello spirito ci sarà la materia, la quale, per essere inquadrata in una idea chiara e distinta, è ridotta da Descartes a “estensione“: delle cose materiali, dice Descartes, abbiamo una idea chiara e distinta solo in quanto sono estensione geometrica.

Da qui prende l’avvio l’errore di considerare la materia e lo spirito come opposti, come “due mondi” che nulla hanno in comune, invece di vederli come due gradi diversi di partecipazione dell’essere. Da ciò ebbe origine un dualismo ontologico: si è perso di vista ciò che di comune vi è in tutto: l’essere.

Di fronte a questo falso dualismo spirito-materia e alla innegabile unità del mondo come totalità (non ci sono due universi incomunicabili, quello materiale e quello spirituale) si potrebbe pensare o che la materia non è altro che modo dello spirito, o che lo spirito è un modo della materia. Descartes evitò entrambe le idee e soluzioni ricorrendo a Dio, come garante della realtà del mondo materiale che si scosta dallo spirito, e al tempo stesso come tutore dello spirito.

Prima di terminare queste brevi indicazioni circa il razionalismo cartesiano, appare interessante osservare di nuovo la radice più profonda del suo errore: la perdita o dimenticanza dell’essere, dell’atto di essere che è esercitato da tutte le cose, che è il fondamento della loro verità, e della loro presenza dinanzi alla intelligenza umana. Atto di essere che è il fondamento di ogni altro atto (modo di essere, di agire, ecc.).

Una volta perso l’essere perché non è afferrabile in una idea chiara e distinta come le essenze – il dualismo spirito-materia non si salva con il ricorso a un Dio ugualmente dominato dalla ragione, ma condurrà a tutte le diverse forme di immanentismo (pretesa ‘giustificazione‘ del mondo da se stesso). E ciò, vuoi come immanentismo idealista (considerando la materia come un prodotto dello spirito), vuoi come immanentismo materialista (considerando lo spirito come un prodotto della materia). E’ significativo che già Descartes fosse accusato di occulto ateismo.

2. Dal razionalismo al materialismo

Non è possibile, senza troppo semplificare, esporre una evoluzione lineare da Descartes al materialismo posteriore. E però interessante il riassunto che Marx ed Engels ne fanno ne La sacra famiglia che, nonostante sia piuttosto semplicista, ne offre nondimeno un’idea approssimata.

Secondo Marx, Descartes, «nella sua fisica, aveva dato alla materia forza autocreatrice e aveva concepito il movimento meccanico come il suo atto vitale. Egli aveva separato completamente la sua fisica dalla sua metafisica. Nell’ambito della sua fisica, la materia è la sostanza unica, il fondamento unico dell’essere e del conoscere» (La Sacra famiglia, in K. Marx – F. Engels, Opere complete, vol. IV, Editori Riuniti 1972, p. 140).

Marx sembra chiamare ‘fisica’ la teoria sulla materia, e ‘metafisica’ la teoria sullo spirito, il che è già una semplificazione inadeguata del pensiero di Descartes. Mette però in rilievo il ‘dualismo’ che veramente recava nel suo seno un immanentismo materialista. Intendendo ciò nel senso di riduzione del pensiero a materia, è certo che «il materialismo meccanico francese ha accolto la fisica di Descartes in opposizione alla sua metafisica» (ibid.).

Il materialismo meccanicista francese ebbe il suo principale rappresentante in J. O. de la Mettrie (1709-1751), con la sua teoria dell’ “uomo-macchina” per cui l’uomo sarebbe una macchina semplicemente materiale e sufficiente a se stessa.

Ma fu soprattutto a un razionalista francese precedente, P. Bayle (1647-1706), che Marx riconobbe il ‘merito’ di aver privato di ‘ogni potere’ la metafisica di Descartes, e, secondo lui, «sua arma era lo scetticismo» (ibid., 141). Per Marx, lo scetticismo di Bayle bastava a fugare i residui metafisici di Descartes, con la semplice domanda: «Perché supporre Dio, se si può vivere senza di lui?». «Con la dimostrazione che può esistere una società di puri, che un ateo può essere un uomo onorevole, che l’uomo si degrada non con l’ateismo, ma con la superstizione e l’idolatria, egli ha lanciato la società atea che doveva presto cominciare ad esistere» (ibid., 141 s.).

Nel trionfo parziale del materialismo sullo spiritualismo nell’Europa del Settecento giocò un ruolo importante anche l’empirismo inglese: in particolare, Thomas Hobbes (1588-1679). Secondo Marx, «Hobbes aveva sistemato Bacone, ma non aveva fondato in modo più preciso il suo principio fondamentale, l’origine delle conoscenze e delle idee dal mondo sensibile» (ibid., 143).

F. Bacon fu un filosofo inglese precedente (1561-1626), in cui si riconobbe un “materialismo implicito”.

Influenza maggiore, nella formazione del materialismo, ebbe un altro empirista inglese, John Locke (1632-1704), in quanto, secondo Marx, apportò quanto era mancato a Hobbes: la spiegazione delle idee come semplici combinazioni di sensazioni (cfr. Sacra famiglia, 144). Effettivamente, Locke, con la sua teoria che le idee universali sono solo un nome che noi diamo a un complesso di sensazioni, nega completamene la distinzione tra il conoscere intellettuale e la semplice sensibilità, annullando la differenza tra spirito e materia. E Marx non poteva omettere di vedere in ciò “un gran passo avanti”, nonostante che, in realtà, Locke non avesse dimostrato la sua teoria.

Questo “sensismo” empirista di Locke ebbe effettivamente molta influenza sul materialismo francese, attraverso autori come Voltaire (1694-1778), che lo introdusse in Francia dopo i1 suo primo soggiorno in Inghilterra. Con questa ‘spiegazione’ delle idee offerta da Locke, il materialismo si fece sempre più esplicitamente ateo e con una marcata tendenza al socialismo. Marx fa notare che già Condillac si accorse che perciò che l’uomo è “dipendente dall’educazione e alle circostanze esterne” (Sacra famiglia, 44).

Questa connessione fra materialismo e socialismo Marx la vede ancora più chiara nell’opera di C. A. Helvétius (m. 1771). Secondo questo autore l’uomo sarebbe opera della natura, che è in movimento da sola, e tutto si riduce sensazioni. Secondo Helvétius tutto si riduce a piacere e dolore (invece che bene e male); non ci sono né libertà né immortalità. Al posto delle religioni riferite a Dio propone una “religione” riferita alla “Umanità”. E’ curioso che siano tanto vecchie certe idee che, secoli dopo, si presentano come la “modernità”.

Si capisce che Marx vedesse come in Helvétius «il materialismo… (fosse concepito) in relazione ala vita sociale» (Sacra famiglia, 144), e che affermasse come, in generale, non avesse «l’acutezza per cogliere la connessione seria del materialismo con il comunismo e il socialismo» (Sacra famiglia, 145).

Ma il libro fondamentale del materialismo del Settecento è il Sistema della natura del Barone di Holbach (m. 1789), cui il marxismo dà una giustificata importanza, perché considera che in questo mondo di materia in movimento, la legge che dà a tutto significato è l “amor proprio” con il conseguente antagonismo contro il resto. La tattica marxista pone, infatti, come motore della storia, la lotta e l’opposizione di contrasti.

Lo stesso Marx criticherà, a volte duramente, tutti questi materialismi, ma considerandoli una tappa costruttiva che doveva esser superata. Sarebbe inutile una critica minuta del materialismo del Settecento, in quanto l’errore radicale sta nel suo punto di partenza, non dimostrato e falso. E’ importante far notare che nessun materialista (e neppure il marxismo, dopo) dimostra che esista soltanto la materia: lo danno semplicemente come presupposto, a partire dall’accettazione del dualismo cartesiano fra materia e spirito, e dall’aver poi captato quanto sia assurdo codesto dualismo di due universi (spirituale e materiale) che risulterebbero opposti e incomunicabili, non essendo convincenti gli argomenti di Descartes per stabilire la “comunicazione” fra loro.

Partendo da qui, senza risalire all’inizio cartesiano, che è la radice dell’errore (la perdita dell’essere, di cui abbiamo già detto), optano per la materia contro lo spirito, “inventando” diverse elucubrazioni che permettessero di ‘pensare’ che ciò che chiamavano spirituale (conoscenza intellettuale, ecc.) non è altro che un prodotto della materia.

3. Dal razíonalismo all’idealismo precedente a Hegel

L’altra possibilità di superare il dualismo cartesiano, senza risalire al suo inizio, alla radice dell’errore, era – come già abbiamo avvertito – ridurre tutto a spirito: “pensare” la materia come manifestazione o prodotto dello spirito. Questa possibilità ha originato lo sviluppo verso l’idealismo, nel quale troviamo pensatori di indiscutibile maggior densità speculativa rispetto ai materialisti, con costruzioni più coerenti, nella loro astratta complessità, e di difficile divulgazione.

Baruch Spinoza (1632-1677)

L’importanza che viene riconosciuta a questo filosofo ebraico nel successivo sviluppo idealista (e, pertanto, anche in quello marxista), si può riassumere nella nota affermazione di Hegel: «Essere spinoziano è l’inizio di ogni filosofare». E, in effetti, la connessione del futuro idealismo con Descartes si realizzò soprattutto attraverso Spinoza.

Se Descartes, dopo la supposta intuizione innata dello spirito (pensiero del pensiero, ergo sum), per garantire sia lo spirito che la materia, ebbe bisogno di ricorrere all’idea di Dio, Spinoza radicalizzò questa “connessione” fra spirito e materia ponendo direttamente come inizio assoluto della filosofia l’unione immediata di Dio: «sostanza unica e causa di se stessa“, “quello la cui essenza rinde l’esistenza“» quello che è di per sé e si recepisce senza relazione ad altra cosa. Questa è la presupposta intuizione fondamentale che non si dimostra; il punto di partenza e di arrivo al tempo stesso, il compendio e l’essenza del sistema spinoziano.

Invece di affermare fra Dio e il mondo una relazione di causalità, Spinoza afferma una relazione di “pertinenza” del mondo a Dio: il mondo è manifestazione o esteriorizzazione dell’unica sostanza divina, in infiniti “modi” o determinazioni finite, che per essere tali sono negazioni dell’infinità della sostanza: «ogni determinazione è negazione». Ma questi modi li conosciamo raggruppati in due tipi, a seconda che siano determinazioni della materia o del pensiero, che sono gli “attributi” che conosciamo della Sostanza divina.

Abbiamo pertanto in Spinoza un “monismo” (affermazione di un’unica sostanza), nel cui seno tuttavia sopravvive ancora la dualità cartesiana di materia e pensiero. Siamo di fronte già a un precursore del marxismo più immediato di Descartes, che è superato (nella coerenza del pensiero astratto) senza però rinunziare all’inizio dell’errore: la negazione dell’ “ente” (ciò che è), che ci è dato di conoscere a partire dai sensi, come primo dato di conoscenza intellettuale e come ciò in cui si fonda ogni altra conoscenza: «Quanto di immediato e di evidentissimo sappiamo delle cose è che sono. La nozione di ente è la prima che la nostra intelligenza coglie (cfr. San Tommaso, In I Sent., d. 8, q. 1, a. 3); ed esplicita la sua verità in questo primo giudizio radicale e originario: ‘Ciò è‘. Senza questa prima conoscenza nulla conosceremmo; e in essa si risolve – come in ciò che è più evidente – qualsiasi conoscenza successiva» (Cardona, Metafìsica de la opción intelectual, Rialp 1973, p. 28).

Immanuel Kant (1724-1804)

Non è possibile esporre qui lo schema di tutta la costruzione kantiana, e ci limiteremo a ricordare alcuni punti di particolare interesse. Secondo Kant, benché ogni conoscenza cominci con l’esperienza, questa non può essere fondamento di conoscenze (giudizi) universali e necessari, in quanto offre solo fatti particolari e contingenti. Con questo presupposto, derivato da Wolff e in parte dall’empirismo scettico di David Hume (1711-1776), Kant – invece di criticarlo – si vede spinto a cercare nella sola coscienza la base e il fondamento di ogni vera conoscenza. Egli cercherà di scoprire le ‘condizioni di possibilità’ a priori di ogni conoscenza universale nell’interno della coscienza; di trovare le “forme a priori”, che costituiscono la sensibilità e l’intelligenza, indipendenti dalla realtà esterna, e che rendono ‘possibili’ i giudizi universali a partire dai fenomeni particolari che il mondo esterno ci offre.

Questa concezione porta necessariamente al completo “agnosticismo” rispetto a ogni realtà delle cose in se stesse. Kant, dopo aver affermato che esistono cose esterne al pensiero, dirà che «gli oggetti ci sono dati, oggetti esterni ai nostri sensi ed esterni a noi; però non sappiamo nulla di ciò che possano essere in sé stessi: non conosciamo altro che i fenomeni, le rappresentazioni che (gli oggetti) producono in noi affettando i nostri sensi» (cit. in Cottier, 313).

Kant pertanto identifica l’essere conosciuto con l’essere prodotto dalla coscienza, lasciando ‘l’essere reale’ inaccessibile ad ogni scienza o conoscenza.

Una volta assunto l’essere nell’essere pensato, il “dover essere” umano (oggetto dell’etica) non rientra nell’ambito della “ragion pura”. La coscienza stessa dà però testimonianza del “fatto morale” o etico, che per Kant non può esser fondato sul bene (che a sua volta si fonda sull’essere), ma il suo fondamento altro non può essere che l’intenzione del soggetto, oggetto della “ragion pratica”. Il “dovere” è, secondo Kant, una legge a priori che impone se stessa a ogni soggetto come “imperativo categorico”. I postulati della ragion pratica vengono affermati come un atto di fede: il dovere e la coscienza morale, dice Kant, obbligano ogni uomo a credere nell’immortalità, nella libertà e nell’esistenza di Dio.

La patente debolezza speculativa della morale kantiana fece sì che presto il kantismo posteriore arrivasse ad essere ateo. Così il poeta tedesco H. Heine (1797-1856), che soprattutto dopo aver conosciuto Marx a Parigi nel 1843 sviluppò le sue idee rivoluzionarie, fece notare che Kant, con la sua posizione agnostica, aveva preparato le basi dell’ateismo successivo.

L’idealismo pre-hegeliano: Fichte e Schelling

Il sistema di Kant fu criticato, fra gli altri, da F. H. Jacobi (1743-1819), che mostrò la contraddizione interna di affermare l’esistenza delle cose in sé stesse e di negare che si conosca qualcosa di esse: se non si conosce nulla, non se ne conosce neppure l’esistenza. Nella critica a Kant ebbero maggior importanza, per lo sviluppo che conduce al marxismo, gli “idealisti critici”. L’idealismo, nelle sue diverse forme, è la “riduzione” del “dualismo” cartesiano materia-spirito al “monismo”, con cui s’afferma che la materia è manifestazione, prodotto, ecc., dello spirito.

G. Fichte (1762-1814), criticò in Kant l’aver ammesso solo una “coscienza empirica” incapace di raggiungere le cose in se stesse. Fichte, per superarlo, afferma che le cose in se stesse altro non sono che la stessa coscienza, che allora è una coscienza assoluta: l’ “Io puro”, colto immediatamente da se stesso, dimodoché l’inizio radicale del filosofare sarebbe l’intuizione immediata: “Io sono io”; il «cogito, ergo sum» di Descartes, secondo Fichte, non sarebbe altro che un aspetto della formula più generale: sum ergo sum (sono, pertanto sono).

Abbiamo pertanto in Fichte un “monismo” (affermazione di un’unica realtà), ma “soggettivo”: è come uno spinozismo al rovescio, perché questa unica realtà o Assoluto, invece di essere Sostanza (Oggetto), è Soggetto: ‘Io’ o ‘Azione’. Secondo Fichte, perché l’ “Io” abbia autocoscienza – ce l’ha nell’uomo – deve opporre a se stesso un “non io” o oggetto in generale. Questa “dialettica” soggettiva è la “prassi”: «L’Io pone il non io come limitato dall’io».

L’io finito come attività, è infinito come tendenza o sforzo per cui l’io finito va identificandosi con l’Assoluto. In poche parole, ciò significa che, secondo Fichte, l’Assoluto (Dio) si realizza o si costruisce attraverso lo sforzo dell’uomo.

Per la concezione fichtiana del soggetto come azione che va identificandosi praticamente con il Tutto o Assoluto, si comprende come Fichte sia stato considerato uno dei precursori del socialismo tedesco.

G. W. Schelling (1775-1854), anche se di pochi anni più giovane di Hegel – di cui fu amico – può esser considerato come una tappa precedente a questi nel processo dell’idealismo. Schelling criticò Kant perché affermava l’esistenza della “cosa in sé” (per quanto sconosciuta), giacché dovrebbe essere immensa ed eterna (fuori dallo spazio e dal tempo), in quanto spazio e tempo erano per Kant “forme a priori” della sensibilità del soggetto, e non qualcosa pertinente alle cose in se stesse. Allora, dice Schelling, “la cosa in sé” sarebbe Dio (immenso ed eterno).

Schelling critica poi Fichte perché nella di lui teoria l’ “io” non è autosufficiente, dato che ha bisogno di un “non io”. Per superare questo scoglio Schelling cerca di stabilire il recupero dell’unità fra I’ “io” e il “non io”, in un io superiore che è “in sé” e ‘”per sé”: e questo sarebbe, secondo lui, la libertà pura. Allora la natura non sarebbe, come in Fichte, un semplice “non io”, ma al tempo stesso soggetto ed oggetto, spirito e materia in opposizione dialettica: e la identità del soggetto e dell’oggetto, al di sopra di ogni distinzione, è l’Assoluto.

Nonostante che tutto ciò, soprattutto a chi non sia già avvezzo a questa complessa terminologia, risulti alquanto incomprensibile, è interessante rilevare come si sia sempre di fronte a una formazione di una concezione del mondo come ‘processo’, come un’unica realtà dinamica, che passa dapprima per lo stato di semplice natura e poi per quello di storia. Questa concezione, che sarà completamente elaborata da Hegel, passerà come elemento fondamentale al marxismo, attraverso il decomporsi dell’hegelismo successivo.

4. Il culmine dell’idealismo: Hegel

Con Giorgio Guglielmo Federico Hegel (1770- 1831), l’idealismo si costituisce in ‘sistema’ finito e completo. Oltre all’idealismo precedente, di Fichte e di Schelling, le fonti principali di Hegel sono, soprattutto, la concezione luterana della fede (separata dalla ragione), Spinoza e Kant. Conviene pure segnalare l’influsso che Hegel ricevette dal pensatore rinascimentale J. Bóhrne (1575-1624), cui si ispirò per concepire la dialettica come processo di sintesi degli opposti (ne parleremo più avanti), superando la forma di dialettica che già era in Kant, in Fichte e, specialmente, in Schelling.

Non è possibile esporre con semplicità, e meno ancora in modo breve, tutto il pensiero hegeliano. Ciò nonostante, tenendo presenti le indicazioni fatte circa alcuni filosofi precedenti, è possibile ottenere una certa comprensione di alcune tesi hegeliane importanti come fonti dirette del marxismo, nonostante non si riesca a fornire il loro inquadramento nel complesso ‘sistema’ costruito da Hegel (di cui sarebbe inutile dare qui la struttura generale) e nonostante non si veda – con queste sole indicazioni – la coerenza di alcune tesi con le altre. Del resto, non tutto è coerenza – neppure formale o astratta – in Hegel, e le fratture e le ambiguità che il suo sistema presentava dettero subito origine alla disgregazione dell’hegelismo.

Storia e dialettica in Hegel

Hegel riprende il tema dell’Assoluto, caratteristico dell’idealismo precedente, ma non lo considera come una “sostanza” e neppure semplicemente come coscienza soggettiva, bensì come ‘processo’. Questo Assoluto (che chiama Dio) è ‘immanente’ alla natura e allo spirito (non trascendente o diverso dal mondo); ogni oggetto e ogni pensiero ne costituiscono lo sviluppo.

La “realtà”, pertanto, non sono le cose, quanto la “Storia”, e questo processo (o storia) è la “Ragione”. «Tutto ciò che è reale è razionale, e tutto ciò che è razionale è reale» afferma Hegel: la storia è un processo rigorosamente razionale, logico. Cioè, l’identità fra “reale” e “razionale” significa che il processo dello spirito costitutivo della realtà, della storia, è un processo “necessario”, in cui nulla vi è di contingente o di accidentale, anche se soggettivamente può sembrare il contrario.

La fase in cui appare la libertà è precisamente, dice Hegel, quella in cui si produce la ‘autocoscienza della necessità. Questa Ragione è dialettica: il processo cioè non è qualcosa di continuo, ma procede “a salti”; ogni momento (tesi) è superato per mezzo della sua negazione (antitesi), dando origine a un altro momento superiore (sintesi), che a sua volta è tesi per una nuova antitesi, ecc. Questa dialettica della “negatività”, in cui ogni momento genera il suo contrario e si compenetra in esso (la contraddizione sarebbe il motore della storia), è il “metodo” che si applica a tutto: alla storia nelle sue diverse epoche, alla conoscenza immediata (opposizione soggetto-oggetto) e al suo superamento nella conoscenza mediata, ecc.

Precisiamo un po’ di più. La negazione di un momento del processo da parte del suo contrario non ha per risultato il nulla, perché ogni momento è finito e in quanto tale negativo (secondo il principio di Spinoza che ogni determinazione finita è una negazione): viene di qui che la sintesi sia negazione di una negazione e, pertanto, sia positiva (nonostante che, rispetto all’Infinito o Assoluto, sia a sua volta negazione, determinazione, che sarà a sua volta negata, ecc.).

L’ateismo occulto di questa concezione sotto forma di panteismo – è evidente. «Se l’essenza divina non fosse l’essenza dell’uomo e della natura, sarebbe certamente un’essenza che non sarebbe nulla» (Hegel, Filosofia della Storia). Di fatto Hegel considerava la religione come un “momento” dello Spirito Assoluto in processo, che in quanto tale doveva esser superato in una fase o momento superiore, che sarebbe la filosofia.

Con quanto si è finora detto, è forse già facile vedere che nel sistema di Hegel la persona umana viene completamente disciolta nella totalità: è un “momento” del processo. Questa concezione totalitaria passerà anche al marxismo.

Alienazione e superamento

Per completare queste frammentarie notizie sul pensiero hegeliano è interessante – per la sua influenza sul marxismo – segnalare brevemente il significato di due nozioni chiave:”alienazione” e “superamento”.

L’idea di ‘alienazione’ non è da Hegel del tutto precisata. Si designa con questo termine un momento o fase della dialettica: il generare l’opposto (l’oggetto), l’uscire fuori da se stessi o oggettivare. In Hegel pertanto il termine alienazione non ha un senso peggiorativo – come succederà nel marxismo – benché certamente raffiguri qualcosa che deve esser superato.

Secondo Hegel è, per esempio, alienazione la derivazione della natura a partire dalla “Idea in sé e per sé”, dimodoché la natura incosciente è lo “spirito alienato” o “alienazione dello spirito”; è alienazione anche il lavoro umano, in quanto oggettivazione (produzione di oggetti), ecc. Come si vede il termine alienazione è abbastanza vasto e alquanto inafferrabile in una definizione precisa.

Semplificando un po’ si potrebbe dire che l’alienazione è la generazione dell’antitesi da parte della tesi; che l’antitesi è la tesi alienata. Maggior importanza avrà per il marxismo la nozione hegeliana di ‘superamento’. Il termine tedesco, Aufhebung, non si può tradurre semplicemente in quanto indica sia il “sopprimere” che il “conservare”.

Hegel si rallegrò di aver trovato nella sua lingua una parola così “speculativa” che gli serviva per esprimere l’idea principale della sua dialettica: il superamento per mezzo di una soppressione che conserva il soppresso. Questa nozione, intesa così, esprime molto bene l’essenza della dialettica hegeliana, in quanto indica che ogni momento del processo dialettico ‘contiene e supera’ quello precedente assorbendo il suo opposto, con il che il processo risulta sempre ascendente, progressivo.

Questa acuta costruzione filosofica pagherà, però, un gran prezzo: la ‘impossibilità teorica’ di risalire all’errore iniziale, giacché crede di giustificare la propria filosofia criticando la tappa precedente, pensando che con ciò si è criticata “tutta” la filosofia precedente. Come vedremo, il marxismo cade in pieno in questo laccio dialettico, dimodoché, criticando l’idealismo di Hegel, crederà di aver criticato tutta la filosofia precedente.

Considerazione critica sull’idealismo hegeliano

Nonostante che, come si è detto prima, non tutto sia coerenza – neppure formale o astratta – nel pensiero di Hegel, non è affatto facile realizzare una critica interna (una volta cioè presupposto il suo punto di partenza, che in fondo continua ad essere quello di Descartes, sia pur radicalizzato e depurato attraverso, soprattutto, Kant e Fichte).

E’ però abbastanza facile comprendere che l’idealismo hegeliano deforma lo stesso punto di partenza di ogni autentica speculazione filosofica. La coscienza umana, in effetti, si costituisce per un’esperienza bipolare evidente, costituita da una doppia presenza (quella del mondo e quella dell’ “io”), e da un doppio contenuto (la natura e la coscienza). L’idealismo, dopo che Descartes ha concepito questa polarità come “dualismo”, sopprime uno dei poli: fa della natura un modo, una manifestazione dell’io universale.

Al contrario, la presenza del mondo e dell’io esige un fondamento, che è l’essere, come atto fondamentale che fa possibile il pensiero.

L’idealismo – come il razionalismo, di cui è massima radicalizzazione – “dimentica” che la coscienza può avvertire la presenza di se stessa soltanto se è attuata da qualcosa di diverso da lei, e se avverte che il suo essere – in atto di avvertire il mondo – è diverso dall’essere del mondo.

L’atto di coscienza, come semplice atto, ha bisogno di un fondamento; è per questo che l’idealismo non può fare a meno del ricorso “teologico” all’Assoluto, che assicura “alle spalle” la strada che conduce dalla coscienza come possibilità alla coscienza come atto. In fondo, questo ricorso all’Assoluto è una prova “interna” che il semplice “pensiero del pensiero” (o “coscienza pura” o «cogito, ergo sum» di Descartes) non comincia realmente nulla, non è il vero inizio, perché non c’è neppure pensiero se non c’è l’essere.

5. La dissoluzione dell’hegelísmo

La destra e la sinistra hegeliana L’inizio del “giovane hegelismo” si fa generalmente risalire alla pubblicazione, nel 1835, de La vita di Gesù, di D. F. Strauss, che distingueva nei seguaci di Hegel tre linee differenti – destra, centro e sinistra – a seconda della loro diversa opinione circa la storicità dei Vangeli. Questa classificazione, ispirata terminologicamente alla divisione del Parlamento francese, si ridusse subito a destra e sinistra, col dissolversi del centro all’interno della destra. A parte questa origine “teologica”, la divisione fra destre e sinistre fu molto profonda, e segnale del germe di decomposizione che albergava nel sistema hegeliano.

La “destra”, formata principalmente da discepoli diretti da Hegel, manteneva un atteggiamento conservatore dei valori ‘tradizionali’ (protestantesimo, Stato prussiano, ecc.).

La “sinistra” (“giovani hegeliani”) prese man mano il primato nell’ “eredità” dell’hegelismo, soprattutto dal 1838-1839. La sinistra, anche se si formò con certe divergenze interne, coincideva sull’opposizione al protestantesimo e allo Stato prussiano. All’interno delle sue file si formarono alcune correnti maggiormente differenziate: una di tipo nazionalista (il poeta H. Heine, prima menzionato, e soprattutto Moyses Hess); un’altra di tipo individualista-anarchico (i fratelli Bauer, soprattutto Bruno, e Max Stirner), e una terza radicale (Strauss, Feuerbach). Marx ed Engels si posero nella lìnea di Feuerbach e, in parte, di Stirner, sia pure criticandoli duramente, soprattutto a partire dal 1844.

Se si può dire, semplificando, che la destra hegeliana aveva optato per il “sistema” (finito, statico), la sinistra optò per il “metodo” (la dialettica); se la destra era conservatrice, la sinistra era rivoluzionaria; se la destra pretendeva di essere “teologica”, la sinistra aveva scoperto che il “segreto” che dava coerenza a Hegel era l’ateismo.

Ludwig Feuerbach (1804-1872)

Dopo aver studiato teologia protestante ad Heidelberg fu entusiasta discepolo di Hegel a Berlino. La sua filosofia può esser definita “umanesimo materialista e ateo”, ed egli stesso descrive la propria evoluzione personale con queste parole: «Il mio primo pensiero fu Dio; il secondo, la ragione; il terzo e ultimo, l’uomo».

Oltre che all’idealismo hegeliano Feuerbach s’ispirò specialmente al materialismo illuministico dei secoli XVII e XVIII (Spinoza, Lamettrie, d’Holbach, Diderot)” (C. Fabro, Feuerbach, Marx, Engels. Materialismo dialettico e materialismo storico, La Scuola 1973, XXXVPI).

Feuerbach rappresenta, pertanto, un tentativo di sintesi fra il materialismo e l’idealismo nati dal razionalismo. Si comprende allora facilmente che fu un precursore immediato del marxismo.

Secondo l’interpretazione fornita da Marx, «solo Feuerbach, che ha completato e criticato Hegel dal punto di vista hegeliano (…) ha portato a compimento la critica della religione, tracciando nello stesso tempo i grandi e magistrali lineamenti per una critica della speculazione hegeliana e quindi di ogni metafisica» (Sacra famiglia, 155). E’ interessante osservare come Marx, come abbiamo prima fatto notare a proposito della nozione hegeliana di “superamento”, sia prigioniero dell’errore di considerare superata “ogni” metafisica con la semplice critica alla “speculazione hegeliana”.

L’operazione feuerbachiana fu, in effetti, quella di svelare il “segreto” di Hegel: «Feuerbach scopre facilmente che tutto ciò che Hegel afferma di Dio, corrisponde in realtà all’uomo, al genere umano, o all’autocoscienza che questo genere umano va prendendo di se stesso» (Cardona, Opción intelectual, 205).

Secondo Feuerbach, Dio altro non sarebbe che la proiezione psicologica che l’uomo fa della sua essenza al di fuori di sé; sarebbe la “personificazione” dell’infinità della propria essenza, come l “essenza generica” (umanità, non singola persona). Ne consegue la necessità dell’ateismo per giungere ad affermare – dice Feuerbach ne L’essenza del cristianesimo – che «l’uomo è per l’uomo l’essenza suprema».

In luogo della dialettica hegeliana della negatività Feuerbach ripropone una versione della dialettica soggettiva “io – tu” (di taglio fichtiano), nella quale il motore non è la lotta dei contrari, bensì l’amore (un “amore” materialista, che Freud poi ridurrà all’attrazione sessuale). Marx ed Engels, come poi vedremo, criticarono duramente questo aspetto del pensiero di Feuerbach.

La nozione feuerbachiana di materia è ambigua: vedendola nel suo insieme sembra una specie di simbiosi fra Berkeley (che considerava la materia come semplice complesso di sensazioni) e Fichte (che la considerava come prodotto dell’ “Io puro”).

Questa mancanza di precisione, questa ambiguità nella nozione stessa di materia, è molto interessante, soprattutto in colui che può esser considerato il padre del materialismo umanista! L’ambiguità perdurerà, come poi vedremo, nel materialismo marxista.

Sarebbe questo il momento di esporre brevemente alcuni cenni della vita e delle opere di Marx e di Engels, dato che non giunsero alla filosofia partendo dal socialismo, bensì al socialismo partendo dalla filosofia. Dice infatti Engels: «Quasi nessuno (di noi) è giunto al comunismo senza passare attraverso la dissoluzione della speculazione hegeliana compiuta da Feuerbach. Le reali condizioni di vita del proletariato sono così poco conosciute tra noi, ecc.» (La situazione della classe operaia in Inghilterra, in Marx-Engels, Opere complete, cit., vol. IV, pref. 240). Ciò nondimeno, per evitare ripetizioni, tratteremo prima dei movimenti socialisti, e in essi includeremo alcuni dati sintetici della vita e dell’opera dei fondatori del marxismo.

6. I movimenti socialisti in Francia e in Inghilterra

Assieme allo sviluppo della filosofia dal razionalismo al materialismo e all’idealismo, e con mutue dipendenze e interazioni, si sviluppò in Europa il socialismo. Diversi fattori culturali e filosofici influirono sulla formazione delle idee socialiste; si ricordi, per esempio, quanto già segnalato circa il materialismo francese di Helvétius e l’idealismo di Fichte, quali precursori del socialismo.

Precedenti storici del socialismo

Un personaggio oscuro, che esercitò un discreto influsso sul sorgere dei primi movimenti socialisti, fu il sacerdote francese Jean Meslier (1692-1729). Meslier durante la sua vita non pubblicò nulla, ma alla sua morte lasciò un documento, conosciuto col nome di Testamento, nel quale, dopo una rabbiosa dichiarazione di ateismo, affermava che per porre fine alle disgrazie dell’uomo, occorreva prima di tutto farla finita con la religione e con la monarchia, che indistintamente qualificava quali invenzioni delle classi dominanti per continuare a detenere il potere assoluto.

Meslier, anticipando Marx, affermava altresì che il matrimonio, la famiglia, la proprietà privata e la divisione delle classi avevano la loro origine nello sfruttamento esercitato dai potenti, e concludeva con un appello all’unione degli oppressi.

Di poco posteriore a Meslier è il frate benedettino Dom Deschamps (1716-1774), che costituisce in un certo senso un annuncio del socialismo dialettico. Deschamps patì l’influsso di Rousseau e di Helvétius e il suo sistema filosofico, che parte dall’ateismo, può venire considerato un precedente della sinistra hegeliana.

Un altro dei principali precursori del socialismo è F. N. Babeuf (1760-1797). Anche se la sua influenza teorica fu scarsa, si caratterizzò per il tentativo di mettere in pratica le idee che propugnava, creando una specie di partito il ‘babeufismo’ – allo scopo di lottare per porre termine alla proprietà privata.

A proposito di Dom Deschamps si è fatto parola dell’influsso di Rousseau. E, in effetti, J. J. Rousseau, con la sua concezione della bontà naturale e dell’uguaglianza di tutti gli uomini, propugnava la negazione di ogni autorità di alcuni uomini sugli altri, e con la sua teoria del “contratto sociale” come fondamento della società propugnava di «trovare una forma di associazione… con la quale ciascuno, unendosi a tutti, non ubbidisca ad altri che a se stesso». Influì pure sulla formazione del socialismo, per la sua teoria della “volontà generale” della società, che non sarebbe la somma delle volontà individuali, bensì la volontà dell’ “Io comune”, generato dal sacrificio di tutti sull’ “altare dello Stato”.

Fu pure importante l’influsso del marchese di Condorcet (1741-1794), con le sue teorie circa il ‘progresso’ eterno dell’umanità fino all’eliminazione di ogni disuguaglianza fra gli uomini e fra le nazioni. Questa credenza nel mito del progresso è stata una costante della cultura occidentale a partire dal Settecento, costante che sopravvive, in forme diverse, fino ai giorni nostri.

Ma fu nell’Ottocento che i movimenti socialisti presero uno slancio maggiore, ad opera della filosofia che aveva affermato, soprattutto con Hegel, la “unità’ di tutto l’universo in un’ unica realtà, e inoltre il processo di continuo progresso di costruzione di codesta unità.

Il socialismo “utopistico”

Con il nome spregiativo di “socialisti utopisti” Marx ed Engels solevano qualificare i principali iniziatori del socialismo, alla fine del Settecento e agli inizi dell’Ottocento (cfr. Il Manifesto del partito comunista, Einaudi 1970, pp. 231-232; L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, Editori Riuniti 1971, p. 67 ss.), in particolare il conte di Saint-Simon (C. H. de Rouvray), Charles Fourier, Robert Owen ed Etienne Cabet.

Saint-Simon (1760-1825) era un tipico rappresentante del razionalismo francese della fine del Settecento. Professava un culto entusiasta per la scienza; da buon cartesiano sosteneva che questa doveva fornire una morale nuova e una conoscenza certa del mondo che avrebbero rimpiazzato la religione. Difendeva un collettivismo sotto certi aspetti simile al marxismo.

Charles Fourier (1771-1837). Proponeva un comunismo consistente in un nuovo tipo di comunità (i “falansteri”) basate sull’associazione volontaria del capitale. La nuova cellula sociale sarebbe la “falange” (Fourier aveva un odio violento per l’istituto famigliare), nella quale la libertà sessuale verrebbe garantita da una combinazione “scientifica” delle passioni, sicché lo stesso lavoro si trasformerebbe in un piacere. Marx vide nelle teorie dì Fourier un umanesimo ,compiuto perché il punto di partenza della sua filosofia era l’ateismo.

Robert Owen (1771-1858). Presenta una specie di comunismo nel quale – al pari di Fourier – è l’ateismo il punto di partenza, in accordo col clima intellettuale dominante in molti settori europei, ispirato dalla sinistra hegeliana. Per Owen l’uomo non è veramente libero, ma la sua condotta dipende dalle condizioni materiali e dall’educazione.

Sicché, per arrivare a una nuova società, sarebbe necessario che l’uomo ricevesse un’educazione egualitaria, senza sanzioni, e nella quale siano abolite le idee di gerarchia, di proprietà e di disciplina sessuale. Con queste idee Owen fondò una colonia negli Stati Uniti (nell’Indiana), che presto degenerò nell’anarchia e nel caos totale, in tutti i sensi. Ritornato in Inghilterra, ripeté il tentativo, ma il risultato caotico si verificò di nuovo. Come si vede, la pretesa “liberazione sessuale”, di cui si parla oggi, non è affatto originale.

Etienne Cabet (1788-1856) espose le sue idee socialiste nella sua opera Voyage en Icarie; propugnava la comunità dei beni, conservando però il matrimonio e l’obbligo del lavoro. Fece anch’egli un tentativo di colonia socialista negli Stati Uniti, che chiamò Icarie.

II socialismo “democratico”

Con questo nome si è soliti designare un altro tipo di socialismo, di origine francese, che ebbe i suoi principali rappresentanti in Leroux, Considerante, specialmente, in Proudhon.

Pierre Leroux (1797-187 1) centrò i suoi sforzi nella elaborazione di una “religione” del socialismo. Leroux, di ispirazione hegeliana, dissolveva l’uomo nell’Umanità e difendeva una strana specie di panteismo che cerca di spiegare la realtà per mezzo di un sistema di triadi (a immagine della Santissima Trinità), e la sostituzione della carità con quella che egli chiamava “solidarietà”, basata sull’amore di ciascuno per se stesso.

Victor Considerant (1808-1893) fu discepolo di Fourier. Il suo influsso è interessante per il fatto che si propose di “convertire al cristianesimo” le dottrine del suo maestro. Speculativamente non apportò gran che, propugnando, invece dell’eliminazione della proprietà privata, la sua moltiplicazione in modo che divenisse un diritto di tutti.

Pierre J. Proudhon (1809-1865) è forse il più importante di tutti i teorici socialisti precedenti e contemporanei al marxismo. Di formazione filosofica hegeliana, mostra nelle sue opere un ateismo violento, e fu considerato il leader del socialismo francese, al punto che Marx si recò a Parigi per conoscerlo.

Nella sua opera Che cos’è la proprietà? Proudhon, dopo aver affermato che essa è un furto, cerca la sintesi fra comunità (tesi) e proprietà privata (antitesi), credendo di trovarla in ciò che chiama “possesso”: concessione gratuita di alcuni beni ai singoli, tenendo conto dell’equilibrio delle forze economiche della società in ogni momento.

Quando conobbe queste teorie Marx si oppose a Proudhon, accusandolo di non avere «se non le parole» della dialettica hegeliana e dedicandogli l’appellativo di «socialismo conservatore o borghese» (Manifesto, 217), e altre volte di «piccolo borghese». Proudhon, da parte sua, qualificava “utopistica” la dottrina marxista perché, secondo lui, «ogni giornaliero aspira ad essere impresario; ogni ufficiale, ad essere maestro; i sogni del lavoratore sono di avere la carrozza, come prima quelli del plebeo erano di arrivare ad esser nobile; e perfino le donne aspirano a sposarsi per essere sovrane di un piccolo Stato che esse chiamano la loro casa».

Si deve osservare che questa critica di Proudhon al marxismo, basata sulla semplice esperienza delle “aspirazioni borghesi” degli uomini, il marxismo in Russia se la trovò fatta realtà e cercò, come vedremo, di schiacciarla con la forza.

Si deve infine segnalare che Proudhon fu il primo, fra i moderni, a parlare della “anarchia” come futura formula di governo sociale.

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