Il numero complessivo delle vittime in Cina

rivoluzione culturale© L’esperimento comunista, Ed. Ares, Milano 1991, pp. 85-96

di Eugenio Corti

Gli eventi storici successivi

Contro ogni previsione, la prevalenza di Lin Piao fu soltanto temporanea. Nel 1971 egli venne infatti privato del potere dal gruppo moderato, che aveva per capo non tanto il primo ministro Ciu En-lai, quanto il deposto ex segretario generale del partito Teng Hsiao-ping. In altre parole l’organizzazione del partito ha finito col prevalere su quella dell’esercito.

Nel settembre 1971 Lin Piao perì durante un oscuro tentativo di fuga in aereo; dopo di che il cadente Mao si prestò senza eccepire fino all’anno della sua morte (1976) a fare da patrono ora agli estremisti, ora ai moderati, a seconda di chi prevaleva. Scomparso Mao, gli esponenti degli estremisti (la cosidetta ‘banda dei quattro’, che includeva la vedova di Mao) vennero imprigionati (ottobre 1976) e processati, non però giustiziati.

La prevalenza definitiva dei moderati fu sanzionala nel dicembre ’78, dal Terzo Plenum dell’XIComitato centrale, che segnò la fine dell’epoca maoista e l’inizio delle riforme liberaleggianti; nel 1981 (in occasione del Sesto Plenum dell’XI Comitato centrale) la rivoluzione culturale venne ufficialmente definita “la grande catastrofe nazionale”.Ci limiteremo al margine delle complesse vicende cinesi, a due constatazioni.

La prima: a differenza che in Russia, in Cina l’impegno dei capi comunisti a non assassinarsi tra loro, ha in complesso tenuto. Ci terna in mente il cosidetto ‘giuramento’ tra i dirigenti russi: “Fino al 1935”, scrive il biografo di Stalin Isaac Deutscher, “si raccontava ancora tra i bolscevichi che i loro capi, all’inizio della lotta per la successione, avevano pronunciato un giuramento segreto e solenne di non ghigliottinarsi a vicenda. Vera o non vera questa storta, è certo che Stalin meditò a lungo sul terribile precedente francese, il quale per qualche anno lo dissuase dal ricorrere ai più drastici mezzi di repressione.

Più d’una volta Stalin si espresse pubblicamente in questo senso. Ecco per esempio la risposta che egli diede a Zinoviev e Kamenev allorché i due triumviri invocarono rappresaglie contro Trotsky: ‘Non ci siamo trovati d’accordo con Zinoviev e Kamenev, perché abbiamo imparato che una politica di decapitazioni è gravida di grandi pericoli.. Il metodo delle decapitazioni e dei salassi – ed essi hanno chiesto del sangue – è pericoloso e contagioso. Si taglia una testa oggi, un’altra domani, un’altra ancora dopodomani; che cosa resterà infine del partito’? “. (1)

Più tardi però, come sappiamo, Stalin fece uccidere la maggior parte degli esponenti del partito (e tra essi Zinoviev e Kamenev, nonché, all’estero, Trotsky). Successivamente, nel primo dopoguerra, anche nelle repubbliche ‘socialiste’ dell’Europa orientale ci furono i noti processi ai capi, conclusisi puntualmente con la loro eliminazione fisica. (Così in Cecoslovacchia nel 1952 il processo al vertice si conclude con undici impiccati su quattordici imputati.)

È forse a causa ditali terrorizzanti precedenti, che i massimi esponenti cinesi hanno, con puntiglio, evitato d’assassinarsi a vicenda. Bisogna però ammettere che, proprio in seguito a questo fatto, quelli di loro che erano stati in un primo tempo travolti nella lotta per il potere, hanno più tardi potuto riprendere il sopravvento.

Seconda constatazione: con la scomparsa di Lin Piao sembra sia venuto meno per l’umanità intera (la quale ne è tuttora inconscia) un enorme pericolo. A quel che si riesce a capire, sarebbe infatti stato lui (parlando a nome del debilitato Mao) a fare a Nichita Crusciov la famosa, pazzesca proposta (della quale più volte Crusciov si è lamentato in pubblico) di scatenare, con l’aiuto ‘convenzionale’ dei cinesi, la guerra atomica contro gli Stati Uniti; Lin Piao asseriva che anche nel caso limite di un reciproco annientamento dei due contendenti principali, cioè degli americani e dei russi, nonché di una meta dei cinesi, sarebbero sempre rimasti in vita almeno 300 milioni di cinesi, quanti sarebbero bastati per far trionfare, senza più ostacoli, il comunismo nel mondo intero. A rendere l’estremismo folle dell’uomo, gioverà inoltre ricordare che i feroci quadri dei Khmer rossi cambogiani hanno effettuata la loro preparazione in Cina, appunto negli anni del suo predominio.

Ma proseguiamo negli eventi storici. Dal 1978 al 1989 ci furono in campo economico riforme particolarmente incisive, con grande sollievo della popolazione (tra l’altro nell’ottobre ’84 – ancor prima dunque dell’avvento di Gorbaciov in Russia – vennero abolite le Comuni rurali). Si ebbe anche un principio di libertà in campo religioso. Nell’ambito delle libertà politiche invece, nonostante i ripetuti tentativi di Teng Xiao-ping (effettuati in particolare nell’agosto ’80, al Tredicesimo Congresso nel 1987, e nel febbraio ’88) le riforme non riuscirono a decollare.

Dopo avere suscitato enormi e puntualmente vanificate speranze, il partito comunista andò perdendo di credito agli occhi della popolazione, fino a precipitare in un discredito pressoché totale, e i giovani, sopratutto gli studenti, cominciarono a dar segni di insofferenza. Nell’aprile 1989 – in occasione di una visita di Gorbaciov a Pechino, si ebbero Le note, clamorose dimostrazioni spontanee degli studenti nella piazza Tien An Men, con la richiesta di maggior democrazia, e la loro sanguinosa repressione, che provocò circa 3.000 vittime.

Da allora si può dire che la politica cinese proceda a tentoni, con un’alternanza e quasi mescolanza di duri provvedimenti polizieschi e di incerte riprese di liberalizzazione, le quali ultime spesso sembrano avere sopratutto lo scopo di recuperare la benevolenza dell’Occidente.

Il numero complessivo delle vittime

Disponiamo al riguardo d’informazioni molto meno dettagliate, e di gran lunga meno documentate che per la Russia; non siamo perciò in grado di parlarne con lo stesso rigore. Ci limiteremo quindi a esporre – molto in sintesi – tra i dati di cui disponiamo a volte fra loro discordanti) quelli di fonte più competente ed affidabile.

Prima fase (1949-1965)

Anzitutto, per il decennio che va dal 1949 (anno della vittoria dei comunisti e della proclamazione della repubblica popolare) al 1958 (anno d’inizio del ‘Grande balzo in avanti’), riportiamo ciò che scrive l’ex ambasciatore d’Italia a Mosca Luca Pietromarchi,nella sua opera già da noi citata: (2) “In Cina… il comunismo ha causato la perdita, dal 1949 al 1958, di 50 milioni di vite umane… Inoltre 30 milioni di contadini furono inviati in campo di concentramento”.

Dopo di queste, negli anni del ‘Grande balzo in avanti’ (1958-1960) e subito successivi, si ebbero le perdite più terrificanti, dovute alla carestia artificiale prodotta dall’espropriazione dei contadini. Secondo il famoso sinologo Lazlo Ladany (che fu per decenni redattore a Hong Kong del notiziario China News Analisys, da cui attingevano materia prima praticamente tutti i sinologhi) i morti di fame tra il ’59 e il ’62 sarebbero stati 50 milioni, pari dunque all’intera popolazione italiana. (3)

Durante questi stessi anni e in quelli successivi fino al 1966 (anno d’inizio della ‘Grande rivoluzione culturale’), si ebbe inoltre lo stillicidio sistematico delle vittime nei ‘campi di rieducazione attraverso il lavoro’ che in Cina, stando all’agenzia sovielica Tass (25.6.’67) erano diventati “campi della morte” (l’espressione richiama la frase di Solgenitsin: “Il lager, ricordiamolo, è per la morte”).

Se dobbiamo credere a una testimonianza di radio Mosca del 30.5.’67, (4) tali campi o lager erano intorno a diecimila, alcuni visibili dal confine sovietico (in effetti uno, enorme, è stato visto e segnalato anche da cronisti italiani nell’entroterra di Vladivostock); secondo R.L. Walker (per il quale si vediì più avanti) ed altri sinologhi, il numero dei deportati oscillava allora tra i 18 e i 20 milioni; il che – volendo supporre, con ottimismo, una mortalità nei lager cinesi analoga a quella sovietica, cioè del 7-8% annua – comporterebbe un milione e mezzo circa di morti all’anno, dunque una dozzina di milioni per il periodo 1958-1965.

L’unico studio sistematico a nostra conoscenza, relativo all’intera prima fase che va dal 1949 al 1965, è quello effettuato da Richard L. Walker per conto del Senato americano (5): studio che dà – ripartendole per categorie – da un minimo di 34.300.000 a un massimo di 63.784.000 vittime, a seconda delle fonti. (Vi mancano però, quasi del lutto, i dati relativi al ‘Grande balzo in avanti’.)

Seconda fase (1966-1976)

Nel periodo successivo, cioè negli anni dal 1966 (inizio rivoluzione culturale), al ’76 (morte di Mao), si ebbero sopratutto le vittime prodotte dalla rivoluzione culturale. Per le quali abbiamo stime molto diverse e discordanti, che vanno da un minimo di 10 milioni (rivista Mondo e missione del maggio 199053 a un massimo di 70 milioni (Irving Shelton su L’homme Nouveau, Parigi 6.11.’83). Tra queste vittime è da supporre rientrino tutti gliirrecuperabili (pazzi (6), lebbrosi, sciancati gravi, ciechi, drogati all’ultimo stadio, ecc) la cui improvvisa scomparsa venne nel 1971 ripetu;araente segnalata anche da tecnici italianiche lavoravano in Cina. (7)

In totale

Cos’hanno detto finora, in merito al numero delle vittime, i capi comunisti cinesi? A tutt’oggi, allo stesso modo di quelli russi, essi hanno reso pubblico soltanto qualche dato frammentario.

Già abbiamo accennato alla dichiarazione del Comitato centrale relativa a 20 milioni di morti nel corso del ‘Grande balzo in avanti’. Più tardi, l’8 ottobre 1971, in occasione di un ricevimento per l’allora imperatore d’Etiopia Hailé Selassié in visita a Pechino, Mao Tse-tung richiesto dall’ospite quale fosse stato in Cina il costo in vite umane “delle vittorie del socialismo dopo il 1949”, rispose: “Cinquanta milioni di morti”.

Turbato, Hailé Seiassié (che da lì a poco non dimentichiamolo – sarebbe stato a sua volta ucciso dai comunisti etiopi) “fece notare che questa cifra rappresentava il doppio della popolazione dell’Etiopia; ma soltanto una percentuale di quella della Cina, precisò Mao” (C. e J. Broyelle, op. cit., pag. 67).

Si tratta in ogni caso di dichiarazioni non documentate, e dunque semplicemente indiziarie. Un quadro assai più fondato – in quanto fondato scientificamente – del numero complessivo delle vittime fatte dal comunismo in Cina, potrebbe essere invece suggerito dallo studio statistico di Paul Paillat e Alfred Sauvy, pubblicato nel 1974 sull’autorevole rivista parigina Population (n. 3, pag. 535). Da esso emerge che la popolazione cinese era in quell’anno inferiore di circa 150 milioni di persone a quella che avrebbe dovuto essere statisticamente, cioè in base al suo tasso di crescita pur calcolato in modo prudenziale. (8)

Dieci anni dopo un’altra fonte parigina pure molto autorevole, l’Istituto Nazionale di Studi Demografici, prendendo in esame il censimento generale effettuato dal governo cinese nel luglio ’82, ha evidenziato tra che i nati dal 1958 al 1962 sono circa 40 milioni meno di quanti dovrebbero essere. Ciò risulta chiaramente dalla piramide delle età, che qui riportiamo. (9)

Da questo prospetto emerge che in quei quattro anni (della terribile carestia artificiale provocata dall’espropriazione dei contadini) sarebbero complessivamente morti intorno a 40 milioni di neonati e lattanti. Ripetiamo: di soli infanti, senza contare tutti gli altri. Allo stato attuale delle conoscenze, possiamo in ogni caso ritenere con sufficiente fondamento che le vittime fatte dal comunismo in Cina sono state più del doppio di quelle fatte dal comunismo in Russia.

In Occidente, mentre si susseguivano in Cina queste immense stragi – le più terribili che la storia dell’umanità conosca – i grandi mezzi della comunicazione sociale, a cominciare dai giornali, hanno in linea di massima taciuto. Proprio come, a suo tempo, durante le stragi di Lenin e di Stalin in Russia.

Solo in seguito alla rottura tra la Russia e la Cina, dovendo prendere posizione per una delle due parti, e dovendo sostenerne le argomentazioni e le accuse all’altra parte, giornali e televisioni si sono trovati costretti a parlarne. Più tardi alcuni dei maggiori quotidiani hanno pronunciato (in Italia con più fatica che altrove) qualche blando mea culpa.

Così il 3 febbraio 1978 il Corriere della sera, in un articolo a firma Flores d’Arcais, ha reso noto che “il miglior studio occidentale sulla rivoluzione culturale in Cina, del francese Simon Leys” non era stato fino allora tradotto in italiano di proposito: “Si è trattato, semplicemente, di censura. Di quel sottile conformismo che.., per alcuni anni ha reso temerario il parlar male, cioè il parlare criticamente, della Cina di Mao”. (10)

Nell’articolo – uscito come s’è detto nel 1978 – il Corriere riassumeva brevemente lo studio di Leys, apparso nel ’72: tale studio dava degli eventi cinesi un resoconto e una interpretazione molto simili a quelli da noi dati nel novembre ’68 e nell’ottobre ’69 (cioè quattro e tre anni prima di Leys) nei due saggi riportati (tolta qualche ripetizione) qui avanti. “Grazie allo studio di Leys dieci anni di storia cinese cessano d’essere un enigma, anche se” precisava dolente il Corriere “il mito di Mao va in pezzi”. (Ricordiamo che anche in Francia, dopo apparso, lo studio di Leys fu comunque tenacemente tenuto il più possibile emarginato per anni da quasi tutta la grande stampa e dalla televisione.)

Note

(1) Isaac Deutscher, Stalin, Longanesi, Milano, p. 444.

(2) Luca Pietromarchi, il mondo sovietico, pp. 661-662.

(3) C. e J. Bioyelle, op. cit., p. 71. – Anche nell’opera citata di Pietromarchi (a p. 651) si parla di questa spaventosa carestia: “Nei 1960… il raccolto mancò in circa 60 sui 105 milioni di ettari messi a cultura”. – Il dissidente Wei Jing-Sheng valuta i morti di fame intorno a 40 milioni. – Un documento del Comitato centrale cinese parla invece di 20 milioni, ma con che attendibilità?

(4) Va tenuto presente che, starte l’accesa polemica tra la Russia e la Cina, i dati russi sono da prendere con riserva. Per esempio i russi hanno parlato più volte di 100 milioni di forzati chiusi nei lager cinesi (vedasi tra l’altro in A. Marcenko, i confortevoli lager dei compagno Breznev, Rusconi, Milano 1970, pp. 425 e 426): in quell’erorme numero tuttavia sono certamente compresi gli operai mobilitati per il lavoro obbligatorio (draft labor) i quali però non erano forzati veri e propri, come specifica dettagliatamente Walker nell’opera citata qui sotto.

(5) Richard L. Walker, The uman cost of comrnunism in China, U.S. Governement Printing Office, Washington 1971, p. 16.

(6) Appena un anno prima era uscito in Argentina (Editorial Jorge Alvarez, Buenos Aires 1970), e nel 1972 era stato tranquillamente edito anche in Italia (con titolo La salute mentale in Cina medicina e politica nella rivoluzione cinese, da Giulio Einaudi, Torino) un libro di Gregorio Bermann, che esaltava le generose cure prodigate dalla società cinese ai malati di mente.

L’autore ne era così entusiasta da farsi con esaltazione propalatore di tutte le scempiaggini che la propaganda cinese gli aveva propinato; si veda per es. a p. 316: “I medici… assieme all’ammalato studiarono i tre articoli di Mao… Per tanti anni, nonostante gli fossero state somminnistrate medicine e farmaci, non era guarito, ma migliorò attraverso l’approfondimento del pensiero di Mao. Una volta guarito (l’ex pazzo) scrisse un articolo in cui raccontava quanto gli era successo durante il trattamento. Fu dimesso in buone condizioni…”

Ragione per cui “nell’ospedale psichiatrico di Shangai  il programma attuale è dedicato all’applicazione in psichiatria del pensiero di Mao” (p. 319). Ci sarebbe da ridere davanti a simili idiozie, e allo spettacolo dell’editore Einaudi che serio serio le ha avallate, certo confidando di far presa sui lettori italiani più immaturi; ci sarebbe da ridere, se non si pensasse alla tragica fine che nella realtà hanno fatto, proprio in quegli anni, gli infelici malati di mente cinesi.

(7) Il direttore della rivista Mondo e missione, Pietro Gheddo, si è prontamente recato sul posto per cercar di far luce sull’oscuro episodio, e in effetti durante un viaggio di sedici giorni attraverso la Cina, non gli è riuscito d’incontrare irrecuperabili: “relitti umani di cui il paese offriva in passato un ampio campionario” com’egli scrive. Che tutti quegli infelici siano stati eliminati al tempo di Lin Piao, è stata per molti anni opinione corrente anche nei paesi confinanti con la Cina, come la Birmania e il Bangladesh. (Per cui in Birmania quando succedeva che avanzassero i guerriglieri comunisti, i lebbrosi abbandonavano precipitosamente i lebbrosari, e fuggivano per il timore di essere da loro bruciati, come hanno riferito più d’una volta i nostri missionari.) – Attualmente in Cina si vedono di nuovo in giro non pochi relitti umani, specie fuori delle ‘rotte turistiche’.

(8) Vedasi in merito anche J.F. Revel nella sua opera La tentation totalitaire, Laffont, Parigi 1977, pp. 100 e 101. Nel luglio 1990 il p. Giancarlo Politi (redattore di Asia News a Hong Kong, e oggi tra i maggiori specialisti italiani di cose cinesi) da noi ìnterpellato in merito, ci ha risposto che la cifra di circa 150 milioni di vittime complessive gli sembrava corrispondente alla realtà; ma che per la scarsità di documenti, non è possibile darne dimostrazione. A nostra richiesta il p. Politi ha poi sottoposta la questione al famoso studioso p. Ladany (allora ancora in vita, e pure rlsiedente a Hong Kong) il quale si è a sua volta espresso in modo analogo.

(9) Dal “Bulletin Mensuel d’Informations, Mai 1984, Numéro 180′ dell’ ‘Institut National d’Etudes Démographiques’ di Parigi: 

(10) Durante tale periodo di censura delle poche voci serie e informate, s’era scatenato in tutto l’Occidente un immenso chiasso giornalistico, televisivo, radiofonico, librario ecc. insomma di tutti i mass media, inteso a esaltare la rivoluzione culturale cinese. Per quanto concerne i libri usciti in Italia, ci limiteremo a ricordare come emblematici La rivoluzione culturale in Cina, ovvero il convitato di pietra del maoista (!) Alberto Moravia (edizione Bompiani 1967, poi edizione tascabile Garzanti 1973) e Dalla Cina dl M. Antonietta Macciocchi (ed. Feltrinelli 1971); il successo questa seconda opera – caratterizzata, al pari della precedente, da una incredibile cecità – fu, come riferisce la presentazione della sua quarta edizione, “fulmineo” tanto in Italia che dovunque venne tradotta: cioè in Francia, Inghilterra, America e altrove, perfino in Egitto.

Gli effetti della rivoluzione culturale cinese si fecero presto pesantemente sentire anche nella vita quotidiana occidentale: esaltati dall’immenso chiasso e dalle notizie manipolate che giungevano la Cina, gli studenti infatti (già in agitazione sull’esempio di quelli americani, impegnati a lottare contro la guerra in Indocina) scesero dovunque in piazza e, convinti di imitare le ‘guardie rosse’ cinesi, pretendevano imperiosamente cambiamenti radicali, all’insegna dello slogan “La fantasia al potere”. In qualche facoltà, come Architettura a Milano, non si tennero vere lezioni per anni di seguito.

Gli avversari marxisti e promarxisti dell’azione americana in Viet Nam, che soffiavano sul fuoco, ebbero fin da principio le masse studentesche dalla loro parte. I governi e i parlamenti finirono un po’ dovunque con l’accusare qualche difficoltà; il governo americano si ritrovò ancora più paralizzato nella sua lotta al comunismo in Indocina; in Italia lo spazio proprio dei politici venne in parte occupato dai sindacalisti, che una certa presa sulla piazza la conservavano.

A causa di ciò i moti studenteschi finirono col comportare una crescente, scervellata domanda di aumenti salariali e di spese sociali, che condussero, non solo da noi, a un preoccupante incremento del debito pubblico e a una pesante inflazione, i cui effetti si sarebbero fatti sentire per molti anni (in Italia si fanno sentire ancora nel 1991).