La Rivoluzione e il Sillabo

sillabodi Alfonso MARTONE

Introduzione

Obbiettivi. «Il nemico principale di Pio IX e della Chiesa, a partire dal XIX secolo, fu un complesso di dottrine e di tendenze riassunte dal nome “Rivoluzione”»(1). In questo scritto si cerca di analizzare il senso di quest’affermazione, in particolare nei confronti del Sillabo di Pio IX.

Contenuti. Nel primo capitolo si mostra il significato di «Rivoluzione» come categoria per la comprensione della storia. Il secondo capitolo è dedicato al pensiero di Juan Donóso Cortés, che anticipò temi e metodo del Sillabo . Nel terzo capitolo è presente una breve analisi del Sillabo. Nei capitoli successivi si passano in rassegna le condizioni storiche in cui è nato il Sillabo  e le reazioni alla sua pubblicazione. Nel capitolo conclusivo si riportano le conclusioni degli autori citati.

1 La Rivoluzione

Terminologia. È importante premettere che, laddove per «rivoluzione» si può intendere un notevole cambiamento politico-sociale che può anche essere cruento, «Rivoluzione» è definibile come: … un movimento che mira alla distruzione di un potere legittimo o di un ordine legittimo e all’instaurazione al suo posto di uno stato di cose (intenzionalmente non vogliamo dire “ordine di cose”) o di un potere illegittimo(2).

Entrambe le accezioni contengono evidentemente un giudizio ed una indicazione di metodo. Nel primo caso, nell’interrogarsi su significati, cause, effetti, si può ancora parlare di aspetti «positivi» (o almeno non negativi) di un processo rivoluzionario, si può ancora suggerirne una qualche legittimità, si può ancora indicarne la proclamazione e la realizzazione di grandi ideali. Nell’epoca moderna e contemporanea si è però osservato che questi ideali pressoché sempre presuppongono delle necessità ineluttabili puntualmente sfociate nella violenza e nel disordine: la monarchia deve cadere (secondo i giacobini), il capitalismo deve crollare (secondo i marxisti), il potere temporale della Chiesa deve essere eliminato (secondo liberali e massoni), etc.

Dalla seconda accezione invece segue già che la «Rivoluzione» è oggettivamente il male(3), in quanto disordine, ribellione e odio: Se, strappando la maschera alla rivoluzione, le chiedete: «Chi sei tu?». Ella vi dirà: «Io non sono ciò che si crede. Di me parlano molti ed assai pochi mi conoscono. Io non sono né il carbonarismo che cospira nell’ombra, né la sommossa che mugghia nelle contrade, né il cambiamento della monarchia in repubblica, né la sostituzione di una ad un’altra dinastia, né il momentaneo sconvolgimento dell’ordine pubblico. Io non sono né gli urli dei Giacobini, né i furori della Montagna, né i combattimenti delle barricate, né il saccheggio, né le arsioni, né la legge agraria, né la ghigliottina, né gli affogamenti.

Non sono né Marat, né Robespierre, né Babeuf, né Mazzini, né Kossuth. Costoro sono miei figli, ma essi non sono me. Codeste sono opere mie, ma non sono me. Codesti uomini e codeste cose sono fatti transitorii, ed io sono uno stato permanente. Io sono l’odio di ogni ordine religioso e sociale che l’uomo non ha stabilito e nel quale esso non è re e Dio tutt’insieme: io sono la proclamazione dei diritti dell’uomo contro i diritti di Dio; sono la filosofia della ribellione, la politica della ribellione, la religione della ribellione: sono la negazione armata; sono la fondazione dello stato religioso e sociale sulla volontà dell’uomo in luogo della volontà di Dio; in una parola, io sono l’anarchia; perché io sono Dio spodestato, surrogato dall’uomo. Ecco il motivo per cui mi chiamo Rivoluzione, cioè sconvolgimento, perché io colloco in alto chi, secondo le leggi eterne, dovrebbe stare in basso; e metto al basso chi dovrebbe stare in alto»(4).

Lo spirito della Rivoluzione è l’utopistica costruzione di un mondo nuovo, per costruire il quale è necessario prima abbattere a qualsiasi costo ciò che già c’è, senza salvarne nulla. Questa pia credenza, che infuoca gli animi dei rivoluzionari di ogni tempo, presume ingenuamente che ciò che c’è di stabile e di ordinato sia da condannare senza eccezione e senza appello, e con la stessa identica cieca fede presume che ciò che verrà costruito «dopo» sia assolutamente esente da ogni errore e infinitamente migliore di ciò che si sta distruggendo(5).

La chiave di lettura. Per il Corréa de Oliveira il processo generale di crisi dell’uomo occidentale e cristiano degli ultimi secoli è la metamorfosi di un’unico processo, la Rivoluzione, che si manifesta principalmente in tendenze, idee e fatti. Fermo restando che le sue tappe cronologiche non coincidono con la sua profondità, se ne possono comunque identificare le quattro ondate storiche principali nella «pseudo-Riforma»(6) protestante, la rivoluzione «francese»(7), la rivoluzione del socialcomunismo(8) e la rivoluzione nascente nostra contemporanea(9): quantunque a velocità diverse e in tempi e modi diversi, presentano gli stessi tratti di «marcia rapida», di crisi generalizzata, di sconvolgimenti e disordini, di odio e ribellione, e particolarmente nei confronti del mondo cattolico.

Mentre però la scuola di pensiero marxista, pur capace di cogliere storicamente le rivoluzioni, ne postulava la loro necessità, la visione unitaria di Rivoluzione ne fa cogliere l’essenza comune e riesce maggiormente utile, come vedremo, sia alla comprensione storica che all’interpretazione del Magistero.

II liberalismo. Nel XIX secolo la Rivoluzione ha l’aspetto del liberalismo, cioè il porre la libertà individuale(10) come bene ultimo dell’uomo, intesa come una libertà totale, assoluta, esente da ogni norma, fuori da ogni vincolo e ordine – il che implica logicamente e storicamente il conflitto, l’anarchia, il disordine. Questa concezione, evidentemente inconciliabile con la visione cristiana, appare direttamente apparentata al filone di pensiero che presuppone l’uomo estraneo da quel che la Chiesa chiama «peccato originale», per cui, essendo naturalmente buono, per fare il bene gli è sufficiente esserne attratto, senza altro strumento che non sia l’assenza (che si è voluta chiamare «libertà») di qualsiasi vincolo e norma(11).

La condanna del liberalismo riassunta nel Sillabo , e più in generale la condanna del «progresso», era dunque la condanna di ciò che i rivoluzionari intendevano per «progresso»(12) e per «libertà»(13), era la dichiarazione esplicita che certe idee e tendenze sono in netta opposizione all’esperienza cattolica, ed era dunque condanna di quel che sarà il frutto di tali idee; di più, era la difesa della società civile, della civiltà stessa: era la condanna della Rivoluzione, condanna del male in quanto male.

Condanna papale tutt’altro che ingiustificata anche sul piano politico e sociale, a giudicare anche le sole condizioni storiche in cui è avvenuta: generalizzata crisi intellettuale e spirituale, cospirazione delle società segrete (massoneria in primis (14)), soppressione di ordini religiosi, persecuzione amministrativa dei cattolici, invasione dello Stato Pontificio, attacchi da parte della stampa(15), etc, di fronte alle quali si spiegano anche i diversi atteggiamenti della Chiesa oscillanti tra l’aperta ostilità ed i tentativi di limitare i danni, ma mai, nell’ambito del Magistero, l’accettare il compromesso con una mentalità totalmente avversa. Il confronto consiste dunque in una «battaglia delle idee», ossia uno scontro sul piano «metafisico»(16) (come intuirà Donóso Cortés, asserendo che dietro ogni grande errore politico c’è un grande errore teologico(17)), di cui le vicende politiche e sociali sono solo una conseguenza.

2 Donóso Cortés

E in realtà al centro del pensiero di Donoso vi è proprio la distinzione tra civiltà e Stato. La civiltà si fonda sulla religione, quella europea sul Cattolicesimo: perché solo la religione, e specificamente il Cattolicesimo, ha nel medesimo tempo il concetto della realtà del male e della possibilità del bene. La realtà del male è espressa con la categoria cristiana del peccato originale, ma è infine presente in ogni religione.

Ma il pensiero moderno, il «filosofismo» non ha più l’idea del male. […] Ma la possibilità del bene può essere cancellata dalla scelta umana. Ed è quello che secondo Donoso accade in Europa. La modernità, vista come liberalesimo o filosofismo, porta in sé la possibilità di distruzione della libertà umana; la Rivoluzione, che l’anima, vuole la distruzione del Cristianesimo come fondamento della libertà delle persone(18).

Cammilleri vede in Juan Donóso Cortés (1809-1853) il «padre del Sillabo»(19). Questo «cervello cattolico» dalle grandissime intuizioni, di nobile famiglia e avviato alla carriera politica, era originariamente di idee liberali; attraverso una sorprendente quanto lunga e sofferta evoluzione del suo pensiero, prese le distanze da quelle idee denunciandone progressivamente i pericoli della loro applicazione.

La sua ricerca approdò alla conversione al cattolicesimo (del quale non era mai stato fervente) fino alla decisione, negli ultimissimi anni della sua breve vita, di dedicarsi esclusivamente alla contemplazione e alla preghiera(20). Per quel che riguarda il secolo in cui viviamo basta guardarlo per persuadersi che ciò che lo rende tristemente famoso fra tutti i secoli non è tanto l’arroganza nel proclamare teoricamente le sue eresie ed i suoi errori, quanto l’audacia satanica che pone nell’applicazione della società presente delle eresie e degli errori in cui caddero i secoli passati.

Non voglio dire con questo che ciò che è stato condannato una volta non debba esserlo nuovamente; voglio dire soltanto che una condanna speciale, conforme alla speciale trasformazione che gli antichi errori nel secolo presente vanno attraversando, mi sembra sotto ogni punto di vista necessaria; e che in ogni caso, questo aspetto della questione è l’unico per il quale io riconosca di avere un certo genere di competenza.

Scartate così le questioni puramente teologiche, ho fissato la mia attenzione su quelle che, teologiche nella loro origine e nella loro essenza, si sono tuttavia mutate, in virtù di trasformazioni lente e successive, in questioni politiche e sociali. […]

Per gli stessi motivi di occupazioni e di premura mi sono visto nella impossibilità di rileggere i libri degli eresiarchi moderni, per segnalare in essi le proposizioni che devono essere combattute o condannate. Tuttavia, meditando attentamente su questo particolare, sono arrivato a convincermi che ciò era più necessario nei tempi passati che nei presenti, essendoci tra gli uni e gli altri, se si guarda bene, questa notevole differenza: che nel passato gli errori stavano nei libri, in maniera tale che, non cercandoli in essi, non potevano incontrarsi da nessuna parte, mentre ai nostri giorni l’errore non sta solo nei libri, ma anche fuori di essi: sta nei libri, nelle istituzioni, nelle leggi, nei giornali, nei discorsi, nelle conversazioni, nelle aule, nei circoli, nei focolari, nel foro, in ciò che si dice ed in ciò che si tace (21).

Era nel 1852 che Donóso Cortés scriveva queste righe in risposta al cardinal Fornari, incaricato di una sorta di indagine preliminare tra le più notevoli figure di ecclesiastici e laici. Nella lettera, una sorta di summa del proprio pensiero, sono riassunte tutte le sue grandi intuizioni che saranno alla base del Sillabo .

In primo luogo, l’osservazione che prima dei fatti ci sono le idee, e che il suo secolo è «tristemente famoso» per la loro applicazione(22). Idee che vanno condannate in modo speciale, più che «nuovamente» rispetto al passato, poiché sono pericolosamente diventate mentalità diffusa anche all’interno del mondo cattolico: «Tra gli errori contemporanei non ve n’è alcuno che non si risolva in una eresia; e tra le eresie contemporanee non ve n’è alcuna che non si risolva in un’altra, già condannata nel tempo antico dalla Chiesa»(23).

Idee che non sono più confinate nei libri, non sono più confinate nelle discussioni dei dotti, ma sono ovunque, da cui viene implicitamente la necessità di una condanna di affermazioni generali piuttosto che la condanna di ogni singolo libro o autore(24).

Essa [la Chiesa] ha condannato negli errori passati quelli presenti e futuri. Nel Saggio [sul Cattolicesimo, il Liberalismo e il Socialismo] Donoso aveva indicato come da ogni errore teologico scaturisca un errore politico e sociale. Nel secolo XIX gli errori teorici sono diventati conseguenze pratiche che investono la società nella vita di ogni giorno. «Ai nostri giorni l’errore non sta solo nei libri ma anche fuori di essi: sta nei libri, nelle istituzioni, nelle leggi, nei giornali, nei discorsi, nelle conversazioni, nelle aule, nei circoli, nei focolari, nel foro, in ciò che si dice e in ciò che si tace».

Supposta la negazione del peccato originale, si viene a negare l’infermità della volontà umana, il mondo inteso come valle di lacrime, la necessità del dolore liberamente accettato come mezzo di santificazione, il bisogno dell’uomo di santificarsi. Si afferma così che la vita non è valle di lacrime ma può essere radicalmente trasformata dall’uomo, che l’uomo può assurgere alle più alte perfezioni munito del dogma del progresso indefinito, che quel che la ragione non coglie non esiste, che è peccato quel che la ragione dice essere peccato, che la volontà e le passioni sono buone, che si deve ricercare solo il piacere perché il tempo è posseduto dall’uomo per essere goduto.

Se l’uomo non è caduto la Redenzione è stata inutile, anzi, non c’è mai stata, né ha senso l’azione santificante dello Spirito. Negato il Padre, negato il Figlio, negato lo Spirito Santo, il cattolicesimo diventa un’assurdità, laddove per il cattolico il soprannaturale è l’atmosfera del naturale, «vale a dire, ciò che, senza farsi sentire, circonda e a un tempo stesso sorregge il peccatore».

Negata la base del cattolicesimo, la stessa Chiesa diventa un’associazione filantropica, più ingombrante che utile. […] «Se la volontà dell’uomo non è inferma, le basta il fascino del bene per seguirlo senza l’ausilio soprannaturale della grazia. Se l’uomo non ha bisogno di questo aiuto, non ha nemmeno bisogno che i sacramenti e le orazioni glielo procurino; se l’orazione non è necessaria, e oziosa; se e oziosa e tale pure la vita contemplativa; se la vita contemplativa è oziosa e inutile, allora lo sono anche la maggior parte delle comunità religiose.

Questo serve a spiegare perché, dove sono penetrate queste idee, sono state soppresse quelle comunità. Se l’uomo non ha bisogno di sacramenti, non ha bisogno nemmeno di chi glieli amministri; e se non ha bisogno di Dio, non ha bisogno nemmeno dei suoi mediatori. Da qui il disprezzo e la proscrizione del sacerdozio ove queste idee hanno messo radici. Il disprezzo del sacerdozio si risolve ovunque nel disprezzo della Chiesa, e questo nel disprezzo di Dio»(25).

Uno degli aspetti più notevoli del liberalismo è dunque l’ignorare il peccato originale e le conseguenze, che logicamente partono dal considerare inutile la Redenzione, arrivano alla necessità di disprezzare e perseguitare la Chiesa. «Il titolo del primo capitolo dell’Ensayo [Saggio] sarà appunto: Come ogni grande questione politica dipende da una fondamentale questione teologica»(26). Pertanto solo una visione «laica» del liberalismo può affermarne i «valori» e le «conquiste» considerando necessità inevitabili o incidenti di percorso l’altrimenti inspiegabile persecuzione della Chiesa.

Ma Donóso Cortés intuisce anche che il liberalismo, nella scia dell’illuminismo e della rivoluzione francese, è nemico della Chiesa perché è nemico dell’uomo: Libertà, eguaglianza, fraternità: formula contraddittoria. Lasciate all’uomo il libero dispiegarsi della sua attività individuale, e vedrete come appunto muore l’eguaglianza per mano delle gerarchie, e la fraternità per mano della concorrenza. Proclamate l’eguaglianza e vedrete la libertà fuggire nello stesso istante e la fraternità esalare l’ultimo respiro (27).

La lucidità della sua analisi, l’intuizione che alla radice di ogni grande mutamento politico e sociale c’è una distorta teologia(28), ci mostra come ben condivisibile la definizione di «padre del Sillabo » datagli dal Cammilleri, quantunque non sia certo che la sua lettera al cardinal Fornari arrivasse nelle mani del Papa (infatti non è citata in nessuno dei documenti). Per Vannoni il Donóso Cortés è addirittura il vero modello della Contro-Rivoluzione poiché il totalitarismo, che in ultima analisi è di matrice «religiosa», non può essere combattuto con mediazioni politiche e culturali, che o lasciano la Chiesa in stallo tra accettare un potere costituito anche se illegittimo, o relegano la «battaglia delle idee» nell’astrazione dei discorsi di principio:

Sembra che dallo scacco perpetuo si possa uscire soltanto con la ripresa della linea genuinamente contro-rivoluzionaria, rappresentata da un Donoso Cortés, poiché essa sola contiene le premesse per una risposta adeguata alla «nuova politica», superando l’equivoco clericale e riportando il laicato cattolico al livello in cui combatte la Rivoluzione gnostica, cioè al livello dello scontro tra due metafisiche in azione.

Opporre alla enorme carica «religiosa» del totalitarismo la sociologia del Taparelli o del Toniolo, significa entrare in una guerra di archetipi, ingaggiata per la conquista dell’egemonia nella rappresentazione politico-sociale del divino, con una forza d’urto pari a quella di un contingente di boy-scouts(29).

3 Un «parere di un avvocato che cita il Codice»

«Si aspettavano tempi più favorevoli», scrive il [gesuita Giacomo] Martina, «e soprattutto si cercava un modo diverso per raggiungere lo scopo, una forma di intervento meno solenne, che irritasse di meno». Si può cogliere qui l’origine del Sillabo , così come è storicamente conosciuto. Infatti niente è meno solenne di questo elenco di proposizioni apparentemente disparate, non ricondotte ai loro principi, privo di un esplicito contrafforte ortodosso e, soprattutto, privo di censura.

Infatti il Sillabo in quanto tale non condanna niente: è giuridicamente innocuo; non solo non contiene la formula adeguata al caso, ma non contiene nemmeno l’indicazione della autorità che lo promulga. «Tali errori Noi, in virtù della Nostra apostolica autorità, nuovamente condanniamo, solennemente riproviamo, e del tutto rescriviamo. Dato a Roma, l’8 dicembre 1864, anno XIX del Nostro Pontificato. Pio Papa IX»; ecco ciò che manca nel testo del Sillabo. Lungi dall’essere la sentenza del supremo giudice, qualcuno [C. G. Rinaldi, un contemporaneo] ha potuto paragonarlo a «un parere di un avvocato pieno di citazioni del Codice» (30).

Il Sillabo  non è un documento «uniforme» ma una collezione di proposizioni generali in allegato all’enciclica Quanta cura, proposizioni di cui si ricordano le già avvenute condanne in altri documenti pontifici, alcune delle quali sotto l’autorità infallibile (per esempio la proposizione LX, condannata già nell’enciclica Maxima quidem, poiché collegata ad un dato specifico della Rivelazione), altre invece come intervento ordinario (è il caso della XXIII, che gode della damnatio nella Multiplices inter ma si riferisce ad un oggetto specifico, un’opera edita a Lima); inoltre le condanne toccano questioni talvolta passate, talvolta future.

Nel Sillabo non sono pressoché mai utilizzati termini specifici come «civiltà moderna», «progresso», «liberalismo», senza farli precedere da locuzioni del tipo «il cosiddetto» e «ciò che chiamano». Non è fuori luogo la definizione di «parere di un avvocato». Ma la portata è sicuramente magisteriale: Il problema del valore giuridico e dogmatico del Sillabo  e della Quanta cura, non può essere rimosso da chi voglia studiare il legato dottrinale di Pio IX.

Per quanto riguarda il Sillabo un buon numero di autorevoli teologi concorda, sia pure con diverse motivazioni, per la sua infallibilità. Alcuni noti studiosi, come Franzelin, Mazzella, Schrader, Dumas, Scheeben, Pascal lo ritengono definizione ex cathedra, atto personale infallibile del Pontefice; altri fanno derivare la infallibilità dai documenti da cui sono tratte le singole proposizioni, come Rinaldi; altri ancora, come Hurter e Wernz, ritengono che sia divenuto norma infallibile in forza dell’adesione unanime dell’episcopato cattolico.

Una diversa posizione è sostenuta dal gesuita Lucien Choupin, l’autore che forse ha studiato più profondamente la questione. Choupin ritiene che non si possa affermare con certezza che il Sillabo sia una definizione ex cathedra, o garantita in ogni sua parte dalla infallibilità della Chiesa, ma egli sostiene che si tratta, in ogni caso e senza possibilità di contraddizione, di un documento dottrinale emanante direttamente dal Magistero supremo (31) del Sovrano Pontefice a cui ogni cattolico è tenuto a dare l’assenso. I più sicuri teologi ritengono che questa ultima posizione sia il minimo che si possa affermare con certezza sul valore del Sillabo.

Diverso è il discorso della Quanta cura. In questo caso, come hanno affermato pressoché tutti i teologi [anche di parte progressista] […], ci troviamo di fronte a una delle rarissime encicliche da ritenere con tutta evidenza come documenti ex cathedra. La infallibilità della enciclica non può essere, infatti, negata senza contraddire la stessa dottrina della infallibilità pontificia, le cui quattro note qualificanti sono esplicitamente presenti nel documento (32).

Il Sillabo contiene quattro gruppi di proposizioni. Nel primo gruppo, di sette proposizioni, si condannano panteismo, naturalismo e razionalismo assoluto. L’obbiettivo è evidentemente il filone filosofico di deificazione della natura umana, figlio del razionalismo assoluto secondo cui «la ragione umana è l’unico arbitro del vero e del falso, del bene e del male» (proposizione III) e dalla quale «scaturiscono tutte le verità religiose».

Nel secondo gruppo, di sette proposizioni, si condanna il razionalismo moderato, «moderato solo nella forma»(33) a causa della confusione tra natura e ragione, tra ordine naturale e soprannaturale. Il terzo gruppo di errori, quattro proposizioni, condanna il concetto di «tolleranza» verso gli altri culti inteso a ridurre il cristianesimo ad un credo qualsiasi.

Vi si condanna infatti la libertà di scegliersi la propria religione («religione che, col lume della ragione, [si] reputi vera»: proposizione XV), avendo come obbiettivo il relativismo religioso diretta conseguenza della negazione dell’esistenza di una verità oggettiva. Un breve paragrafo ricorda, senza ulteriori citazioni, che sono già condannati i movimenti del socialismo, del comunismo(34), della massoneria e del liberalismo cattolico.

Un quinto paragrafo, di ben venti proposizioni, condanna gli errori relativi alla Chiesa e ai suoi diritti, per esempio i tentativi di negare o di limitare i poteri del Magistero o la giurisdizione della Chiesa. Altri ventuno errori sono condannati negli errori relativi alla società civile, considerata in sé stessa e nei suoi rapporti con la Chiesa.

Nel 1874, Pio IX chiarirà che il liberalismo, specialmente se attecchito in ambiente cattolico, «ha un piede nella verità e un piede nell’errore, un piede nella chiesa e un piede nello spirito del secolo, un piede con me e un piede con i miei avversari»(35).

4 La «cupa scia»

Molti cattolici (qualcuno anche mitrato) considerano il Sillabo una sorta di scheletro nell’armadio, un momento della loro storia di cui vergognarsi e scusarsi. Per mettere in difficoltà un cattolico in una discussione basta a un certo punto scagliargli in faccia un «…e il Sillabo?». In genere, l’effetto che si ottiene è analogo a quello di quando si dà del «fascista» a qualcuno(36).  La parola Sillabo porta ancora con sé, nel nostro mondo postmoderno e postideologico, una cupa scia di risonanze, come le parole «crociata», «inquisizione» e via discorrendo(37).

La lunga e «cupa scia» del Sillabo fino ai giorni nostri dimostra quanto quella breve collezione di proposizioni abbia centrato il bersaglio in un momento davvero difficile per la Chiesa. La pubblicazione del Sillabo avviene infatti negli anni dell’invasione dello Stato Pontificio, della soppressione statale degli ordini religiosi, della confisca dei beni ecclesiastici e della più generale persecuzione amministrativa della Chiesa, della vessazione alla stampa cattolica (che pure era di minoranza), etc:

Le circostanze erano le seguenti: a) il Piemonte aveva appena unificato la penisola e gli artefici del Risorgimento erano tutti scomunicati; b) ovunque, anche tra gli stessi cattolici, si discuteva di «libertà», di «diritti dell’uomo» e di «nazione»; c) tra quegli stessi cattolici, la Vita di Gesù di Renan (il primo testo « demitizzatore» della figura storica di Cristo) si andava diffondendo come un’epidemia (38); d) la «questione romana» era dibattuta in tutte le cancellerie d’Europa e scuoteva le coscienze, nessuna esclusa. E adesso, il papa sembrava dichiarare guerra alla sua epoca (39). Chiusura di seminari e conventi, vescovi incarcerati o impediti a prendere possesso delle diocesi (un terzo delle diocesi senza vescovo), etc, e il Sillabo, scritto in modo che apparisse il meno rumoroso possibile, scatena invece un ulteriore putiferio.

Nel febbraio ’61 furono assunte dal governo una serie di decisioni contro la Chiesa. Fra l’altro fu estesa a tutto il territorio italiano la legge sarda del 19 maggio 1855 sulla soppressione degli ordini religiosi. Ventimila fra monaci e monache furono colpiti dalla legge, al Sud furono confiscati i beni di 1100 conventi. […] Intanto, dall’autunno del ’60 proseguono gli arresti e le deportazioni di vescovi e cardinali macchiatisi semplicemente di reati di opinione.

Dal ’60 al ’64 nove cardinali sono arrestati e arrestati […fra cui anche] Gioacchino Pecci di Perugia (il futuro Leone XII). Nella primavera del 1861 sono quarantanove le diocesi rimaste senza vescovo(40). Seminari e monasteri chiusi, beni espropriati: la Chiesa è allo stremo. In questa situazione, il potere ieri e oggi gli storici rimproverano a Pio IX di non aver voluto cedere sua sponte Roma ai piemontesi quasi aggrappandosi con tutte le forze al potere temporale. In sostanza si sarebbe dovuto fidare della parola del governo sabaudo che s’impegnava a garantire la libertà e l’indipendenza della sua persona e del suo magistero.

Ma l’obiezione che arriva dai documenti vaticani e grave. Un governo che non aveva esitato a stracciare patti, ad aggredire, violentare, rapinare in ogni modo, chiudere conventi, seminari, arrestare e deportare cardinali e vescovi, poteva pretendere la fiducia cieca del papa?

Non era forse gravissimo che uno stato incarcerasse decine di vescovi e cardinali? E poi per motivi che hanno dell’incredibile. Bastava che un vescovo si rifiutasse di cantare il Te Deum in Chiesa per il governo (è il caso del cardinal Corsi). […] Le sedi episcopali, inoltre, rimasero a lungo vacanti perché il governo pretendeva di aver parte nella scelta dei vescovi. Sarebbe questa l’illustrazione del tanto declamato principio «libera Chiesa in libero Stato»(41)?

Un Papa per le società segrete. Dunque il Papa che sembrava «dichiarare guerra» alla sua epoca era in realtà sulla difensiva; gli eventi politici, lo ripetiamo, sono il frutto ultimo delle idee circolanti da molti anni negli ambienti d’élite intellettuali e politici. Come nelle ondate rivoluzionarie precedenti e successive, anche nel secolo dei massoni e dei liberali il primo nemico da abbattere (o almeno da ridurre a entità spirituale, politicamente e socialmente insignificante) è la Chiesa.

Da alcuni documenti sequestrati nelle riunioni mas soniche apprendiamo infatti che era loro scopo principale il «giungere con piccoli mezzi ben graduati, benché mai definiti, al trionfo dell’idea rivoluzionaria per mezzo del Papa», ossia: «Il lavoro al quale ci accingiamo – spiega l’istruzione segreta permanente data ai membri della setta nel 1817 – non è l’opera di un giorno, né di un mese, né di un anno. Può durare molti anni, forse un secolo: ma nelle nostre file, il soldato muore e la guerra continua. (…) Quello che noi dobbiamo cercare ed aspettare come gli ebrei aspettano il Messia, si è un Papa secondo i nostri bisogni. (…) Con questo solo noi andremo più sicuramente all’assalto della Chiesa, che non cogli opuscoletti dei nostri fratelli di Francia e coll’oro stesso dell’Inghilterra. E volete sapere il perché? Perché con questo solo, per stritolare lo scoglio sopra cui Dio ha fabbricato la sua Chiesa, noi non abbiamo più bisogno dell’aceto di Annibale, né della polvere da cannone e nemmeno delle nostre braccia. Noi abbiamo il dito mignolo del successore di Pietro ingaggiato nel complotto, e questo dito mignolo val per questa crociata tutti gli Urbani II e tutti i san Bernardi della Cristianità» (42).

Le società segrete infatti «…si preparavano a erigere “sopra tante ruine” – che avrebbero causato loro, per amor di patria – “un nuovo ordine di cose”»(43). Lo scopo? «Fare tabula rasa dell’antico ordine sociale e politico fondato sul cristianesimo per riaggregare l’umanità in un tutto indistinto, governato, illuministicamente, da un’élite di “saggi”, o esperti, o iniziati. Ritroveremo la secolarizzazione di questo progetto in Lenin e nei suoi “rivoluzionari di professione”, i soli che avranno capito il “senso della storia” e il cui compito sarà quello di farne “prendere coscienza alle masse”»(44): la conferma, come già detto, del trattarsi di una vera e propria «battaglia delle idee», che non ammette mezze misure in nessun caso.

Qualcuno, considerando il lato politico della battaglia piuttosto che il lato «teologico», si è chiesto – fermo restando che la storia non si fa con i «se» e i «ma» – se un minore accanimento da parte degli ambienti massonico-liberali avesse potuto seriamente ridurre l’entità dello scontro:

È la stessa presenza del Santo Padre a Roma ad essere ideologicamente e militarmente attaccata da una dinastia che parlava francese e che a Roma mai aveva messo piede. Così il Regno sabaudo, poi Regno d’Italia, rifiutò pervicacemente ogni possibile accordo, ogni garanzia giuridica sulla libertà del papa. Un riconoscimento minimo di salvaguardia della sua libertà sarebbe bastato probabilmente al Santo Padre per acconsentire anche a rinunciare allo Stato Pontificio. […] Ebbe a dire il segretario di Stato cardinal Antonelli all’ambasciatore austriaco Bach: «Se a Torino non avessero perseguito la Chiesa così appassionatamente, se non avessero ferito Pio IX nella sua coscienza di capo della Chiesa, Dio sa quanto non avrebbe concesso e dove oggi non ci troveremmo»(45).

Si sa quanto possono segnare l’animo di un uomo le illusioni perdute, e il seguito reazionario di Pio IX non trascurò occasione per ravvivare nel suo animo molto impressionabile i ricordi sanguinosi della rivoluzione romana, in particolare l’assassinio da parte dei radicali del primo ministro Pellegrino Rossi, pure fautore di una larga liberalizzazione delle istituzioni.

Ma al di là dei riflessi sul piano psicologico, risultarono rafforzate le convinzioni teoriche di Pio IX, così come la sua diffidenza continua nei confronti dei princìpi le cui conseguenze pericolose si erano manifestate apertamente. Ormai era più che mai persuaso che esistesse un’intima connessione tra i princìpi del 1789 e la distruzione dei valori tradizionali nell’ordine sociale, morale e religioso. Già tutto il contenuto del Sillabo è in germe in questa esperienza …(46)

5 Genesi del Sillabo

La prima idea del Sillabo era venuta al futuro Papa della Rerum novarum, a Leone XIII, quando, ancora arcivescovo di Perugia, nel 1849, aveva proposto, in occasione del concilio provinciale di Spoleto, di chiedere alla Santa Sede un «elenco» degli errori moderni riguardanti la Chiesa, l’autorità, la proprietà e la famiglia. L’idea, per allora, non ebbe seguito; ma di lì a due anni fu ripresa dai gesuiti e la Civiltà Cattolica si incaricò di agitarla, non appena si arrivò alla definizione del dogma dell’Immacolata concezione.

La Civiltà cattolica arrivò a sostenere l’opportunità di includere nella Bolla di definizione del dogma la «condanna esplicita» degli errori del razionalismo e del semirazionalismo. La rivista dei gesuiti era allora ai suoi primissimi anni di vita, ma la sua influenza sugli ambienti della Curia era già grande …(47)

Questa condanna nasce dopo una lunga gestazione e in circostanze storiche tra le più movimentate della storia della Chiesa, sotto pressione da tutti i fronti: La stampa si scatenò. Quella cattolico-liberale, colpita a morte dal documento, lanciò uno slogan rimasto fino ai nostri giorni vessillo del progressismo cattolico: «Perché perdersi dietro quel che divide e non cercare quello che ci unisce?». Altro leitmotiv inaugurato per l’occasione fu quello del papa «in buona fede» ma «mal consigliato» dalla «setta gesuitica».

Sui giornali avversari comparve di tutto, dall’insulto al sarcasmo, dalle lezioni di teologia al pontefice a quelle di storia ai cattolici, dall’indignazione allo sghignazzo(48). Inutilmente da parte cattolica si cercava di far notare che «gli avversari della Chiesa si erano lamentati anche quando essa aveva condannato i 45 articoli di Wycliffe, i 30 di Hus, i 41 di Lutero, le 79 proposizioni di Baio, le 45 del lassismo, le 68 del molinismo, le 101 gianseniste e, ogni volta, sembrava che dovessero seguire apostasie di massa; mentre nessuno ormai si ricordava più di quietisti, giansenisti e compagni»(49).

Il Papa «sembrava» dichiarare guerra alla sua epoca: stando alla definizione di Rivoluzione, e ancora possibile pensare che il Sillabo fosse una mossa politica piuttosto che un atto necessario di Magistero (necessario e urgente, viste le circostanze) da parte del Pastore della Chiesa?

Di li a poco Pio IX incaricherà il cardinale Fornari di «interrogare per lettera i più eminenti arcivescovi e vescovi e alcuni membri autorevoli del laicato cattolico sulla opportunità o meno di procedere alla definizione degli “errori sulla fede e la morale, che serpeggiano nella società”»(50). La lettera di Fornari del maggio 1852 riportava una specie di questionario in 28 punti relativi a panteismo, razionalismo, kantismo, e altre dottrine, che già portava il nome di Syllabus.

L’idea era dunque lanciata. Il vescovo di Perpignano, monsignor Philippe Gerbet, pubblicò nel luglio 1860 una lettera pastorale(51) sugli errori del «protestantesimo sociale», riassumendo in 85 proposizioni gli errori moderni. Pio IX accolse di buon grado l’iniziativa di Gerbet e ne vide il modello del Sillabo tanto che fece stampare a parte le 85 proposizioni condannate perché una commissione ristretta da lui nominata le potesse selezionare, tradurre in latino e generalizzare(52).

Nel giugno 1861 l’elenco fu ridotto a settanta proposizioni, e fu dato in analisi ad una commissione più larga sotto nome di Syllabus propositionum. Dopo numerose riunioni, non senza difficoltà e polemiche, nel febbraio 1862 si arrivò a un elenco di 61 proposizioni, che poche settimane dopo, in occasione della canonizzazione dei martiri giapponesi a Roma, il Papa trasmise ai trecento vescovi convenuti perché pronunciassero il loro parere «sull’opportunità della condanna, sull’eventualità di allargarla o di restringerla, sul peso e sulla misura delle varie censure teologiche… Fu raccomandato a tutti il più rigoroso silenzio». Anche se non all’unanimità, il consenso fu generale(53).

Non si creda che tutto il lavorio della Curia fosse sfuggito al mondo laico e liberale. L’Opinione, più volte, aveva sottolineato che qualcosa si stava macchinando sotto l’ispirazione dei gesuiti, che la Compagnia di Gesù era in azione, che presto la Chiesa avrebbe contrapposto, al progresso e alla moderna civiltà, una «condanna settaria», in tutto degna dell’«oscurantismo» e della «reazione» che si annidavano nel Vaticano. Proprio nel ’61, il Papa aveva rigettato sdegnosamente l’ultima missione di conciliazione Pantaleoni e Passaglia: l’antitesi col nuovo Stato italiano era ormai insanabile(54). […]

Il testo dell’Elenco, oggetto della futura Bolla, era caduto «attraverso una fonte quanto certa altrettanto inattesa», nelle mani del direttore del giornale settimanale Il Mediatore di Torino [cioè proprio il Passaglia], che non aveva esitato ad anticiparne la pubblicazione, suscitando un’enorme impressione in tutto il mondo laico. Le reazioni degli ambienti della cultura, della politica, di certe frazioni del clero, e non solo in Italia, erano state tali e tante, che la Curia decise di rinunciare, per il momento, alla promulgazione della Bolla. […] Il Mediatore, dopo l’enorme colpo giornalistico, non rinunciò a sfruttarne le conseguenze, e nei numeri successivi si dette a chiosare e commentare le proposizioni teologiche illuminando le ragioni per cui non avrebbero dovuto essere mai condannate, perché conciliabili con un «rinnovato cattolicesimo», con una Chiesa liberata dai residui del dispotismo e dell’oppressione(55).

Erano bastati dunque appena quattro mesi per la fuga di notizie: …i vescovi riuniti per la canonizzazione dei martiri giapponesi avevano ricevuto la bozza del documento sub secreto [sotto segreto], ma già il 19 luglio [1862] l’ambasciatore francese La Valette poteva spedirne copia al suo governo. A ottobre lo scritto fu in mano al Mediatore, che ne commentò ogni singola proposizione, «dimostrando» come il «partito gesuita», supposto ispiratore e redattore, avesse torto marcio, su tutti i punti(56).

Il Mediatore era stato fondato nel 1862 da un ex gesuita lucchese, Carlo Passaglia, che lo dirigeva e ne scriveva la maggior parte degli articoli. Costui era uscito dalla Compagnia di Gesù nel 1859 non per dissenso ideologico ma per dissidi interni, tant’è che rimase prete e, anzi, gli venne concessa dal papa una cattedra presso l’Università romana. In breve tempo, però, egli si convertì all’antitemporalismo e creò il suo giornale, allo scopo appunto di “mediare” tra la Chiesa e la «libertà»(57).

La soluzione alternativa fu una Bolla non più secondo lo schema approvato dai teologi, ma un semplice riepilogo delle condanne già pubblicate in precedenti encicliche ed allocuzioni, senza arrivare ad un vero e proprio atto dogmatico, semplicemente presentando, come dalla lettera di presentazione del cardinale Antonelli, un prontuario per orientarsi nei casi di equivoci dottrinali, di contaminazioni filosofiche, di feste politiche. Ed ecco finalmente dopo altri due lunghi anni l’enciclica Quanta cura dell’8 dicembre 1864, con allegato il Syllabus complectens praecipuos nostrae aetatis errores [Sillabo riguardante i principali errori del nostro tempo].

6 Reazioni

Le reazioni non si fecero attendere. Già agli inizi del 1865 il clero di Venezia (ancora provincia austriaca) inviò a Pio IX una «ossequiosissima epistola(58)» per testimoniare l’«adesione più esplicita» al Papa e in particolare alla Quanta cura e al Sillabo. I vescovi francesi, spagnoli e tedeschi: «Io sono vescovo – gridava […] il cardinale Gousset di Reims – e il governo non può impormi il silenzio, quando il mio dovere è di parlare».

Più sdegnata ancora la voce del vescovo di Strasburgo: «Come vescovo e come francese non posso non rompere il silenzio e gettare un grido di dolore e di protesta, davanti al fatto che la parola del Vicario di Cristo, del capo e del padre spirituale di 200 milioni di cattolici, è stata incatenata». E aggiungeva, non senza acutezza, il presule francese: «Tutte le ottanta tesi sono condannate implicitamente da diciotto secoli… il loro divieto da parte del potere politico, è quindi del tutto inutile per ogni cattolico sincero».

Più scaltrito nelle armi della polemica, più sottile nelle insidie della difesa, il vescovo di Nimes arrivava a sostenere, in una lettera al ministro dei Culti, che «né la circolare di V. E., né la decisione del Consiglio di Stato potranno sottrarre i cattolici francesi all’obbligo di sottomettersi alla parola del Papa. Tale principio è incontestabile anche secondo le vecchie regole della Chiesa gallicana».

 […] Nella generosa fantasia dei prelati di Spagna, l’enciclica ed il Sillabo appaiono come un colpo mortale d la serpiente infernale, un faro de luz divina, una via maestra per evitare los pastos venenosos y las aguas mortiferas, l’arma divina per stroncare y rebelion contra el cielo, un grido di guerra per riunire todos los guardianes de la grey del Señor(59). «È la verga del Supremo Pastore – tuona il vescovo di Urgel – che con colpo decisivo sbarbica le erbe cattive, condannando gli errori funesti sì agli individui che alle nazioni, sì alla salvezza eterna degli uomini, sì al governo ed alla conservazione della società».

Per il vescovo di Cadice e di Algesiras, il Sillabo è l’«Indice autorizzato del clero», uno strumento di salvezza che permetterà di vedere in un sol colpo d’occhio «quanto si è bestemmiato e si bestemmia contro Dio e la sua Chiesa». Meno drammatico, ma non meno reciso, il consenso dell’episcopato germanico: l’arcivescovo di Ratisbona, in una sua pastorale del 22 febbraio, parlava senza riserve il linguaggio della sottomissione e dell’obbedienza, quando invitava i suoi fedeli ad accogliere «altamente, pubblicamente, solennemente» il giudizio apostolico, la parola del Pontefice, «incaricato dal Salvatore del mondo di pascere i suoi agnelli e le sue pecorelle e di confermare i fratelli nella fede».

Senza parlare dei vari Sinodi. A Utrecht, nel 1865, a Baltimora nel ’66, a Quebec, nel ’67, a Smirne nel ’69, a Quito, nello stesso anno, i sinodi provinciali aderirono con mozioni vibranti alla proscrizione di quei «pestilenziali errori», alla dannazione di quelle tesi quae a fidelibus vitanda sunt(60). Se da parte della più o meno ferma intransigenza giungevano elogi, da parte del governo e della stampa piovevano critiche e tentativi di censura. Il governo italiano, ad appena una settimana dal provvedimento analogo in Francia, tentò maldestramente di porre un freno alla diffusione del Sillabo.

Con circolare dell’8 gennaio 1865 il governo italiano proibiva la lettura del Sillabo nelle chiese(61), ma, appena un mese dopo […] il ministro dell’Interno [Lanza] autorizzava la divulgazione dell’enciclica e della sua appendice, in vista del fatto che «l’esorbitanza delle proposizioni che sono contrarie ai princìpi delle istituzioni e della legislazione del paese» non era sfuggita «al buon senso delle popolazioni che già videro pubblicati i documenti», «di guisa che non è a temere che ne derivi alcun danno dalla loro promulgazione dal pergamo» (62).

Il ministro guardasigilli, Giuseppe Vacca, interdiceva la pubblicazione dei due documenti ai vescovi che non si fossero muniti di preventiva richiesta di exequatur; exequatur che il ministro si riservava di concedere a sua discrezione, indicando all’occorrenza quali parti pubblicare. Mostrava poi di non avere inteso affatto scherzare condannando il vescovo di Mondovì, Ghilardi, a tre mesi e mezzo di carcere per non avere ottemperato.

[…] Gioacchino Pecci, il futuro Leone XIII, si scagliò (e con lui tutti i cattolici) contro la circolare che, «con ignobile eccezione», imponeva «alla sola Chiesa cattolica servili catene da cui è franca ogni altra confessione religiosa, sia israelitica, sia protestante, sia eterodossa; e perfino le stesse riprovate congreghe antireligiose e antisociali. Ognuna di esse ha la piena facoltà di organizzarsi, ha libere le comunicazioni coi suoi capi, libero il magistero, i suoi convegni; ognuna senza placito e diploma dello Stato riconosce i suoi ministri, i suoi concistori; ai soli cattolici … è riservata questa interdizione». Era vero, ma così erano i tempi(63).

La premura dei governi europei nell’ostacolare la diffusione di un documento che condanna errori di pensiero indica implacabilmente che in quelle proposizioni i governi vi si riconoscevano ampiamente, che in qualche modo avevano bisogno se non dell’approvazione pontificia almeno del suo silenzio, che il mondo cattolico, contrariamente al dogma liberista, era ancora ubbidiente al Papa e per di più rappresentava ancora la maggioranza assoluta della popolazione.

Dunque le reazioni sopra citate non sorprendono, e convergono a indicare quanto le idee liberali siano pericolose, tanto all’esterno quanto all’interno del mondo cattolico. «Il Risorgimento era un fatto anche politico, ma essenzialmente ideologico, un’operazione astratta e artificiale, che senza alterare le certezze della stragrande maggioranza del popolo (che era cattolica) non si sarebbe potuta effettuare»(64).

Se ne occupò [del Sillabo] con due intere pagine, il 7 gennaio, perfino l’inglese The Weekly Chronicle and Register [Il Registro e la Cronaca settimanali], un settimanale di argomento bancario, assicurativo, ferroviario, minerario e commerciale. Secondo il foglio d’affari d’Oltremanica, il papa («povero vecchio») non si rendeva conto che era ormai finito il tempo in cui si andava avanti a forza di fede e con le storielle della bambinaia.

Seguiva l’elenco dei soliti luoghi comuni britannici (e liberali) contro lo Stato pontificio: ignoranza, mancanza di servizi igienici, mendicità. Se qualche cosa buona era giocoforza riconoscere, allora si trattava di «paternalismo» (quel paternalismo di cui i miserabili slums londinesi – vere sentine di prostituzione, alcolismo, tubercolosi e sfruttamento minorile – non potevano, tuttavia, godere. E poi, Galileo, Giordano Bruno, l’Inquisizione… […] I giornali cattolici (che il londinese Guardian definiva the silliest of all possible e the most stupid fanatical [lo sciocchissimo per eccellenza ed il più stupidamente fanatico]) si schierarono compatti in difesa del papa(65).

Le spropositate reazioni della stampa e degli intellettuali laici dimostrano inoltre sia l’essere minoranza sia la chiassosità della corrente liberale, nonché la sua necessità di presentarsi agli occhi della maggioranza cattolica come «purificatrice» del cattolicesimo, di cui doveva contemporaneamente carpirne la benevolenza e costringerla con la violenza entro i suoi schemi: La torinese Opinione definì l’enciclica [Quanta cura] «una befana di stracci e di cartapesta, buffonescamente vestita per ispavetare i fanciulli […] Se i gesuiti non fossero i padroni del papa tanti pubblici scandali non si vedrebbero».

Sempre a Torino, la Gazzetta del Popolo scrisse di «nefandure», e il Diritto […], apertamente: «L’ultimo fine della rivoluzione italiana è la distruzione della Chiesa». Il Campidoglio di Genova suggeriva la strategia: «Minate il pastorale, lo scettro si infrangerà». Il torinese Fischietto si dilungò sulle «magnifiche bestialità del Beatissimo» e sulla «mulaggine, l’asineria, il cretinismo» della curia romana e «specialmente del sullodato papa», la cui «cocciuta mellonaggine» era «veramente piramidale». Lo stile era quello di Garibaldi, che definiva Pio IX «un metro cubo di letame» (66).

L’ultimo Papa-Re. Nel settembre 1864 la Convenzione di Settembre stipulata a Parigi, impegnava la Francia a ritirare gradualmente in due anni le sue truppe da Roma e impegnava l’Italia a non attaccare lo Stato Pontificio (la diplomazia pontificia era stata tenuta all’oscuro delle trattative), il che avverrà puntualmente sei anni dopo.

Del 1866 è la legge della soppressione degli enti ecclesiastici, che sopprime venticinquemila enti devolvendone i beni al pubblico demanio per poi metterli all’asta, a tutto vantaggio della borghesia liberale. Nel 1867 si organizza un tentativo di sollevazione a Roma, per dare pretesto a Garibaldi, di fresca nomina di «Primo Massone d’Italia»(67), di invadere lo Stato Pontificio e rovesciare «il più schifoso dei governi», «il governo di Satana»(68), ottenendone però una dura sconfitta a Mentana.

L’8 dicembre 1869 si apre il Concilio Vaticano I(69). Nei mesi successivi vengono discusse ed approvate la Dei Filius e la Pastor Aeternus. Il 19 luglio, il giorno dopo la definizione del dogma dell’infallibilità papale, scoppia la guerra franco-prussiana, per cui il Concilio verrà sospeso e mai più ripreso, e verrà meno la protezione francese allo Stato Pontificio.

L’11 settembre 1870 Pio IX riceve una lettera di Vittorio Emanuele II che gli offre la sua «protezione» militare; risponde per rifiutare e manifestare la sua amarezza, ma l’esercito italiano, forte di sessantamila uomini, ha già cominciato l’occupazione. Alle 5:15 del 20 set tembre(70) le batterie italiane aprono il fuoco contro Porta Pia, il punto più vulnerabile della città, mentre il Papa celebra Messa tra il rombo delle cannonate(71).

Il potere temporale del Papa è finalmente cancellato: il 9 ottobre Roma e il suo territorio vengono annessi al Regno d’Italia per decreto reale. Nell’enciclica Respicientes del l’ novembre, il Papa commina la scomunica maggiore a tutti i responsabili dell’occupazione dello Stato Pontificio.

7 Conclusione

Pio IX, l’ultimo Papa-Re, era dunque stata la figura – sempre più netta e chiusa, simile al disco del sole declinante – per mezzo della quale tutto un mondo aveva annunciato il suo congedo? Il mondo di Costantino, di Aquisgrana e di Chartres, dei labari di Saxa Rubra e degli stendardi di Lepanto, il mondo sacrale e organico in cui trono e altare si sostenevano a vicenda, e la gerarchia ecclesiastica benediva le opere di una gerarchia civile che, in ordine con la sua vocazione specifica, perseguiva autonomamente quel fine, da Sant’Ignazio definito «principio e fondamento» di ogni creatura umana: la gloria della Maestà Divina.

Dopo Pio IX il corpo ecclesiastico non concepisce più questa complementare armonia. La salvezza delle anime, che prima discendeva come effetto da un agire per la gloria di Dio, assurge a fine primario dell’azione dei cattolici militanti. A tale riduzione utilitaristica della visione tradizionale fa riscontro una riduzione della distanza tra sacerdozio e laicato; si polverizza il criterio castale e si affaccia un individualismo che giunge fino alle soglie protestantiche del sacerdozio dei fedeli; la casta laicale è quella che patisce il maggiore insulto, poiché perde totalmente la sua identità, cancellandosi perfino l’idea di una nobiltà cristiana; ma la casta sacerdotale viene anch’essa sfigurata e avvilita: il «santificatore del Nome», colui che nel sacrificio della Messa e nella preghiera monastica celebra la gloria di Dio, scompare sotto la caterva dei «rossi curati divenuti negozianti di concime, assicuratori, mutualisti, campioni di calcio, e che saranno domani professori di biliardo o ostetrici» [G. Bernanos, La grande paura dei benpensanti].

Nel 1839 monsignor Fornari, che fu tra i promotori del Sillabo, scriveva al cardinal Lambruschini, segretario di stato della Santa Sede: «Siamo disgraziatamente ad un’epoca in cui tutti credonsi chiamati all’apostolato». Con Leone XIII la proposizione si capovolge: si entra nell’epoca in cui tutti debbono essere chiamati all’apostolato.

Non si riconosce più al laicato l’onore di fare la gloria di Dio instaurando sulla terra una polis che sia modellata sull’ordine e sullo splendore gerarchico della corte celeste; lo si vuole aggregare al clero in funzione di cooperatore parrocchiale, di docile esecutore di una politica che, ossequiando il potere costituito in quanto tale, qualunque sia la sua forma e la sua rispondenza a un archetipo celeste, assicuri la libera esplicazione delle attività sacerdotali(72).

Pio IX non fu «l’ultimo Papa» come si sperava negli ambienti liberali, ma fu certamente «l’ultimo Papa-re», e con lui – secondo l’appena citato giudizio di Vannoni – tramonta quella cristianità, quel «mondo sacrale e organico in cui trono e altare si sostenevano a vicenda», quel cattolicesimo che è anima del mondo, e che si riduce ora ad una parte del mondo, perennemente costretta ad adeguarvisi nelle idee e nei costumi e a faticare per dimostrare la propria esistenza(73). Da questo punto di vista il Sillabo è una sorta di “canto del cigno”, tanto profetico quanto inoffensivo nei confronti del liberalismo, dacché quest’ultimo e la sua evoluzione successiva non hanno mai incontrato veri ostacoli.

 Un fenomeno che fu all’epoca elitario, del tutto intellettuale, senza seguito popolare e privo di reale incidenza, e che oggi è rimasto elitario, del tutto intellettuale, con scarso seguito popolare, ma con notevole incidenza tra il clero cattolico […]: quel che, allora, era chiamato «cattolicesimo liberale» e oggi (dopo essere passato attraverso la fase del «modernismo») è noto come «progressismo cattolico»(74).

In fisica, per definire un campo, se ne identificano le «linee di forza», che non sono propriamente qualcosa di reale, ma un modello che con maggior chiarezza ne indica la tendenza. Le «linee di forza» della storia degli ultimi secoli (e della storia della Chiesa) sono ben riassunte nella categoria di «Rivoluzione» che, come abbiamo visto, permette davvero una comprensione unitaria delle correnti di pensiero del periodo moderno e contemporaneo, verificandone l’effettiva uniformità e permettendo senza azzardi paragoni come questo appena citato.

La libertà di coscienza non può essere assoggettata allo Stato, in quanto è più grande di esso; la Chiesa, da parte sua, quando interviene nelle vicende politiche, non lo fa per esprimere valutazioni di carattere politico, bensì per difendere una concezione religiosa e morale che la vita politica ha messo in discussione.

Anche oggi, nella nostra società, quando l’autorità ecclesiale si rivolge ai cattolici per formarne la coscienza, viene per questo accusata di ingerenza nella vita dello Stato; sopravvive una concezione assolutistica secondo cui lo Stato, in ultima istanza, deve formare le coscienze. Questa convinzione si cala dentro orientamenti di pensiero che sembrano i più radicalmente diversi, da quello comunista a quello fascista e ne costituisce, al di là delle differenze, un elemento unitario.

Da questo punto di vista essi sono, in sostanza, diverse sfaccettature di un unico fenomeno. La stessa famosa formulazione di Cavour, che non aveva la tempra del dittatore, «Libera Chiesa in libero Stato», indica che la libertà della Chiesa è assicurata dal suo essere “in”, “dentro lo Stato”(75).

Non può essere dunque esagerato o trionfalistico qualificare «profetico» Pio IX anche nei confronti della nostra epoca; nel Sillabo si è evidentemente prevista la deriva ideologica statalista, la confusione della società con lo stato, la riduzione della fede a intimismo spiritualista insignificante(76), etc, e le condanne ivi espresse meriterebbero una riflessione storica più approfondita che recentemente solo Cammilleri sembra aver osato.

Al nostro fianco vivono generazioni mute, che non possono dire se stesse: è questo l’esito dell’azione omologante e pianificante del Potere, di un Potere che si concepisce senza confini. «Lo Stato in quanto origine e fonte di tutti i diritti, gode del privilegio di un diritto senza confini».

Questa proposizione (XXXIX) condannata dal Sillabo – il «famigerato» documento della Chiesa, famigerato per la cultura dominante – è la definizione dello stato moderno: di tutti gli stati moderni, di qualunque specie. È questo l’esito dell’illuminismo, cioè dell’uomo che diviene «misura delle cose». La condanna del Sillabo non è formulata per demonizzare lo stato in sé – il potere in sé non è una cosa cattiva […] – ma per smascherare e accusare la pretesa dello stato moderno.

Perché se «lo stato gode di un diritto senza confini» avrà anche il diritto di determinare quanti figli devo avere e come debbano essere; e potrà anche stabilire fino a quando io posso vivere e che cosa significa essere felici (77).

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