Uno dei grandi errori del secolo XVIII, che li professò tutti

costituzione_Franciahttp://www.totustuus.biz/users/pvalori/index.html

Conte Joseph De Maistre (1753-1821)

I. Uno dei grandi errori di un secolo che li professò tutti, fu di credere che una costituzione politica potesse essere scritta e creata a priori, mentre ragione ed esperienza si uniscono per dimostrare che una costituzione è un’opera divina e che proprio ciò che vi è di più fondamentale e di più essenzialmente costituzionale nelle leggi di una nazione non potrebbe mai essere scritto.

II. Si è spesso creduto di fare dello spirito di ottima lega domandando ai francesi in che libro fosse scritta la legge salica; ma Jéróme Bignon (1) rispondeva molto a tono, e forse senza neanche immaginare fino a che punto avesse ragione, che essa era scritta nei cuori dei francesi.

Supponiamo infatti che una legge di tale importanza esista solo perché è stata scritta; è evidente che l’autorità qualsiasi che l’ha promulgata avrà anche il diritto di cancellarla; la legge non avrà dunque quel carattere di santità e di immutabilità che contraddistingue le leggi veramente costituzionali. L’essenza di una legge fondamentale sta nel fatto che nessuno ha il diritto di abrogarla; ma come potrà una legge essere al di sopra di tutti, se qualcuno l’ha fatta?

Il consenso del popolo è impossibile; e, anche se fosse diversamente, il consenso non è affatto una legge e non obbliga nessuno, a meno che non vi sia un’autorità superiore che se ne renda garante. Locke ha cercato il carattere della legge nell’espressione delle volontà riunite; bisogna proprio essere fortunati, per trovare cosi il carattere che esclude precisamente l’idea di legge.

L’unione delle volontà da luogo infatti al regolamento, e non alla legge, che presuppone necessariamente ed evidentemente una volontà superiore che si faccia obbedire.(2) “Nel sistema di Hobbes” (lo stesso che ha avuto tanta fortuna nel nostro secolo grazie alla penna di Locke) “la forza delle leggi civili non riposa che su una convenzione; ma se manca una legge naturale che ordini di eseguire le leggi che si sono fatte, a che servono queste? Le promesse, i fatti, i giuramenti, non sono che parole: rompere tale frivolo legame è agevole quanto il formarlo. Senza il dogma di un Dio legislatore, ogni obbligazione morale è chimerica. Forza da una parte, impotenza dall’altra; ecco tutto il legame delle società umane“. (3)

Ciò che un saggio e profondo teologo (4) ha detto qui sull’obbligazione morale si applica, con uguale verità, all’obbligazione politica o civile. La legge non è propriamente legge e non possiede un’autentica sanzione, se non la si suppone emanata da una volontà superiore; cosi che il suo carattere essenziale è di non essere la volontà di tutti.

Diversamente le leggi non sarebbero, come si è appena detto, che regolamenti; e come dice ancora l’autore appena citato: “Quelli che hanno avuto la libertà di fare queste convenzioni, non hanno tolto a sé stessi il potere di revocarle; ancora meno sono tenuti a osservarle i loro discendenti, che non vi hanno avuto parte alcuna“.(5) Per questo il buon senso primitivo, fortunatamente anteriore ai sofismi, ha cercato da tutti i lati la sanzione delle leggi in una potenza superiore all’uomo, sia riconoscendo che la sovranità viene da Dio, sia rispettando, come emanate da Lui, certe leggi non scritte.

III. I redattori delle leggi romane hanno gettato senza pretesa, nel capitolo primo della loro collezione, un frammento di giurisprudenza greca grandemente degno di nota. “Tra le leggi che ci governano – dice questo passo – alcune sono scritte, altre no“. Niente di più semplice e niente di più profondo. Si conosce forse qualche legge turca che permetta espressamente al sovrano di mandare immediatamente un uomo a morte, senza la decisione intermedia di un tribunale? E si conosce qualche legge scritta, anche religiosa, che proibisca una cosa del genere ai sovrani dell’Europa cristiana? (6)

Eppure il turco, nel vedere il suo sovrano mandare a morte un uomo, non si stupisce più che di vederlo andare alla moschea. Crede infatti, come tutta l’Asia e anche come tutta l’antichità, che l’esercizio immediato del diritto di morte sia una legittima prerogativa della sovranità. Ma i nostri prìncipi inorridirebbero alla sola idea di condannare un uomo a morte, perché, secondo la nostra mentalità, tale condanna sarebbe un abominevole assassinio. E tuttavia non credo che sarebbe stato possibile proibirlo loro con una legge fondamentale scritta, senza provocare mali maggiori di quelli che si sarebbero voluti prevenire.

IV. Domandate alla storia romana quale fosse esattamente il potere del senato: essa resterà muta, almeno quanto ai limiti precisi di tale potere. Si vede bene, in generale, che il potere del popolo e quello del senato si sbilanciavano reciprocamente, e che essi non cessavano di combattersi; si vede bene che il patriottismo o la stanchezza, la debolezza o la violenza ponevano fine a queste lotte funeste; ma non riusciamo a saperne di più (7).

Assistendo a queste grandi scene della storia, ci sentiamo talvolta tentati di credere che le cose sarebbero andate molto meglio se ci fossero state leggi precise, per delimitare i poteri; ma sarebbe un grave errore: simili leggi, sempre compromesse da casi imprevisti e da forzate eccezioni, non sarebbero durate sei mesi, o avrebbero abbattuto la repubblica.

V. La costituzione inglese è un esempio più vicino a noi, e di conseguenza colpisce maggiormente. La si esamini con attenzione: si vedrà che essa funziona solo nella misura in cui non funziona (se è consentito il gioco di parole). Essa non si regge che sulle eccezioni. L’habeas corpus, per esempio, è stato sospeso così spesso e cosi a lungo, che si è potuto sospettare che l’eccezione fosse divenuta la regola. Supponiamo per un istante che gli autori di tale famoso atto avessero avuto la pretesa di fissare i casi in cui potesse essere sospeso: l’avrebbero con ciò stesso ridotto a nulla.

VI. Nella seduta della Camera dei Comuni del 26 giugno 1807, un lord citò l’autorità di un eminente uomo di Stato per affermare che il re non ha il diritto di sciogliere il parlamento durante la sessione; ma quest’opinione fu contraddetta. Dov’è la legge? Provate a farla voi e a fissare esclusivamente per iscritto i casi in cui il re ha questo diritto: provocherete una rivoluzione. Il re – disse allora uno dei membri – ha questo diritto quando l’occasione è importante; ma quando si può definire importante un’occasione? Provate a stabilire anche questo per iscritto.

VII. Ma ecco qualcosa di ancora più singolare. Tutti ricordano la grande questione agitata con tanto calore in Inghilterra nel 1806. Si trattava di sapere se il cumulo di un impiego giudiziario con quello di membro del Consiglio privato si accordasse o meno con i princìpi della costituzione inglese. Nella seduta del 3 marzo della Camera, dei Comuni, un membro osservò che l’Inghilterra è governata da un corpo (il Consiglio privato) ignorato dalla costituzione.(8) Essa – aggiunse – si limita a lasciarlo fare. (9)

Ecco dunque, in questa saggia e giustamente famosa Inghilterra, un corpo che governa e in realtà fa tutto, ma è ignorato dalla costituzione. Delolme (10) ha dimenticato questo particolare, cui potrei aggiungerne molti altri.

Dopo questo, si venga pure a parlarci di una costituzione scritta e di leggi costituzionali fatte a priori. Non si capisce come un uomo di buon senso possa sognare la possibilità di una simile chimera. Se in Inghilterra ci si permettesse di fare una legge per dare esistenza costituzionale al Consiglio privato, e poi per regolare e circoscrivere rigorosamente i suoi privilegi e le sue attribuzioni, con le precauzioni necessarie per limitare il suo potere e impedirgli di abusarne, si abbatterebbe lo Stato.

La vera costituzione inglese è quello spirito pubblico mirabile, unico, infallibile, superiore a ogni elogio, che tutto conduce, tutto salva, tutto conserva. Ciò che è scritto è nulla. (11)

VIII. Sul finire del secolo scorso si levarono alte grida contro un ministro (12) che aveva concepito il progetto di introdurre questa stessa costituzione inglese (o ciò che veniva chiamato con questo nome) in un regno in convulsione che ne domandava con una specie di furore una qualsiasi. Egli ebbe torto, se si vuole; almeno quanto si può avere torto quando si è in buona fede, cosa che ci è ben permesso supporre, e che io credo con tutto il cuore. Ma chi mai aveva il diritto di condannarlo? Vel duo, vel nemo.

Egli dichiarava di non voler distruggere nulla di testa sua; voleva soltanto, diceva, sostituire qualcosa che gli sembrava ragionevole a qualcos’altro che veniva rifiutato e che, di fatto, non esisteva più. Se ammettiamo (come d’altra parte era ammessa) la fondatezza del principio per cui l’uomo può creare una costituzione, questo ministro (che indubbiamente era un uomo) aveva, al pari di un altro e più di un altro, il diritto di fare la sua. C’era forse incertezza dottrinale su questo punto?

Non si riteneva forse unanimemente che una costituzione è un’opera dello spirito, come un’ode o una tragedia? Thomas Payne (13) non aveva forse dichiarato, con una profondità che rapiva le università, che una costituzione non esiste finché non la si può mettere in tasca? Il secolo diciottesimo, che di nulla si rese conto, non dubitò di nulla: è la regola; e non credo che esso abbia prodotto un solo giovincello di qualche talento che, uscendo di collegio, non abbia fatto tre cose: una neopedia, una costituzione e un mondo.

Se dunque un uomo nella maturità dell’età e dell’ingegno, profondamente versato nelle scienze economiche e nella filosofia del tempo, si fosse limitato a intraprendere la seconda di queste cose, io l’avrei giudicato fin troppo moderato; ma confesso che mi sembra addirittura un prodigio di saggezza e di modestia quando lo vedo mettere (almeno cosi credeva) l’esperienza al posto delle folli teorie e domandare rispettosamente una costituzione agli inglesi, invece di farla lui stesso. Mi si dirà che neppure questo era possibile. Io lo so, ma egli non lo sapeva; e come avrebbe potuto saperlo? Mi si nomini chi glielo avrebbe detto.

IX. Più si esaminerà il gioco dell’azione umana nella formazione delle costituzioni politiche, più ci si convincerà che essa non vi entra che in maniera infinitamente subordinata, o come semplice strumento; e non credo che resti il più piccolo dubbio sulla incontestabile verità delle proposizioni che seguono:

1. Le radici delle costituzioni politiche esistono prima di ogni legge scritta.

2. Una legge costituzionale non è e non può essere che lo sviluppo o la sanzione di un diritto preesistente e non scritto.

3.Ciò che vi è di più essenziale, di più intrinsecamente costituzionale e di veramente fondamentale non è mai scritto, e neppure potrebbe esserlo, senza esporre a pericolo lo Stato.

4. La debolezza e la fragilità di una costituzione sono direttamente proporzionali proprio alla molteplicità degli articoli costituzionali scritti. (14)

X. Veniamo ingannati su questo punto da un sofisma cosi naturale da sfuggire interamente alla nostra attenzione. L’uomo, poiché agisce, crede di agire da solo; e poiché ha la coscienza della sua libertà, dimentica la sua dipendenza. Nell’ordine fisico intende ragione, e sebbene possa, per esempio, piantare una ghianda, innaffiarla, ecc., è capace tuttavia di convenire che non è lui a fare le querce, poiché vede l’albero crescere e perfezionarsi senza che il potere umano vi abbia parte, e poiché, d’altra parte, non è stato lui a fare la ghianda; ma nell’ordine sociale, in cui è presente e operante, si mette a credere di essere realmente l’autore diretto di tutto ciò che si fa per suo mezzo: in un certo senso, è la cazzuola che si crede architetto.

L’uomo è intelligente, è libero, è sublime, senza dubbio; ma non per questo cessa di essere un utensile di Dio, secondo la felice espressione di Plutarco in un bel passo che viene da sé stesso a collocarsi qui. “Non c’è da meravigliarsi – egli dice – se le più belle e le più grandi cose del mondo si fanno per volontà e provvidenza di Dio, posto che in tutte le più grandi e principali parti del mondo c’è un’anima; perché l’organo e l’utensile dell’anima è il corpo; e l’anima è l’utensile di dio. E come il corpo ha di suo molti movimenti, e la maggior parte di questi, anche i più nobili, gli vengono dall’anima, ugualmente l’anima non ha ne più ne meno nessuna delle sue operazioni essendo mossa da sé medesima; ossia, ella si lascia maneggiare, dirigere e volgere a Dio, come a lui piace, essendo il più bell’organo e il più destro utensile che possa esservi: sarebbe infatti cosa strana che il vento, l’acqua, le nubi e le piogge fossero strumenti di Dio, coi quali egli nutre e conserva molte creature, e anche ne perde e ne sfa molte altre, e che non dovesse poi servirsi in nulla degli animati per fare neppure una delle sue opere. Cosi, posto che essi dipendono totalmente dalla potenza di Dio, è molto più verosimile che servano a tutti i movimenti e secondino tutte le volontà di Dio, meglio di quanto gli archi non siano docili agli Sciti e le lire e i flauti ai Greci“.(15)

Non si potrebbe dire meglio; e io credo che queste belle riflessioni non trovino in nessun luogo applicazione più esatta che nella formazione delle costituzioni politiche, dove si può dire con uguale verità che l’uomo fa tutto e non fa nulla.

XI. Se c’è qualcosa di universalmente noto è il paragone di Cicerone a proposito del sistema di Epicuro, che voleva costruire un mondo con gli atomi che cadono a caso nel vuoto. Crederei più facilmente – diceva il grande oratore – che un pugno di lettere, gettate in aria, cadendo possano disporsi in modo da formare un poema.

Migliaia di bocche hanno ripetuto e celebrato questo pensiero, ma non vedo tuttavia nessuno che abbia pensato a dargli il compimento che gli manca. Supponiamo che un pugno di caratteri tipografici, gettati a piene mani dall’alto di una torre, vengano a formare, caduti al suolo, l’Athalie di Racine. Che ne risulterà? Che un’intelligenza ha presieduto alla caduta e alla disposizione dei caratteri. Il buon senso non concluderà mai diversamente.

XII. Consideriamo ora una qualsiasi costituzione politica, per esempio quella dell’Inghilterra. Certamente essa non è stata fatta a priori. Non è mai accaduto che uomini di Stato si siano riuniti e abbiano detto: Creiamo tre poteri, bilanciamoli in questo modo, ecc. Nessuno ha mai pensato a una cosa del genere. La costituzione è l’opera delle circostanze, e il numero di queste circostanze è infinito.

Le leggi romane, le leggi ecclesiastiche, le leggi feudali, i costumi sassoni, normanni e danesi; i privilegi, i pregiudizi e le pretese di tutti gli ordini sociali; le guerre, le rivolte, le rivoluzioni, la conquista, le crociate; tutte le virtù, tutti i vizi, tutte le conoscenze, tutti gli errori, tutte le passioni; tutti questi elementi, insomma, agendo insieme e formando attraverso la loro mescolanza e la loro azione reciproca combinazioni moltiplicate per miriadi di milioni, hanno prodotto infine, dopo molti secoli, l’unità più complicata e il più bell’equilibrio di forze politiche che si sia mai visto al mondo (16)

(…)

XIII. Ora, poiché questi elementi, cosi proiettati nello spazio, si sono disposti in cosi bell’ordine, senza che, tra quella folla innumerevole di uomini che hanno operato in questo vasto campo, uno solo abbia mai saputo quello che faceva in rapporto al tutto ne abbia mai previsto ciò che doveva accadere, ne consegue che questi elementi erano guidati nella loro caduta da una mano infallibile superiore all’uomo. La maggiore follia, forse, del secolo delle follie fu quella di credere che le leggi fondamentali potessero essere scritte a priori; mentre sono evidentemente l’opera di una forza superiore all’uomo; e la stessa scrittura, assai posteriore, è per esse il maggiore segno di nullità.

XIV. È grandemente degno di nota il fatto che Dio, essendosi degnato di parlare agli uomini, abbia egli stesso manifestato queste verità nelle due rivelazioni che dobbiamo alla sua bontà. Un uomo molto abile, (17) che a mio avviso segna una sorta di epoca nel nostro secolo, per la lotta a oltranza che ci mostra nei suoi scritti tra i più terribili pregiudizi di secolo, di setta, di abitudine, ecc., e le più pure intenzioni, i più retti moti del cuore, le più preziose cognizioni; quest’abile uomo, dico, ha deciso “che un insegnamento proveniente immediatamente da Dio, o dato soltanto per suo ordine, doveva in primo luogo rendere certi gli uomini dell’esistenza di questo essere“.

È precisamente il contrario, perché il primo carattere di tale insegnamento è proprio quello di non rivelare direttamente né l’esistenza di Dio né i suoi attributi, ma di supporre il tutto come anteriormente noto, senza che si sappia né perché né come. Cosi esso non dice: Non c’è, oppure voi non crederete che in un solo Dio eterno, onnipotente, ecc., ma dice (ed è questa la sua prima parola), in forma puramente narrativa: In principio Dio creò, ecc.; e cosi presuppone che il dogma sia conosciuto prima della scrittura.

XV. Passiamo al cristianesimo, che è la più grande di tutte le istituzioni immaginabili, perché interamente divina, e fatta per tutti gli uomini e per tutti i secoli: lo troveremo sottomesso alla legge generale. Certo, il suo divino autore sarebbe ben stato padrone di scrivere lui stesso o di far scrivere altri; ma non ha fatto ne l’una ne l’altra cosa, almeno in forma legislativa.

Il Nuovo Testamento, successivo alla morte del legislatore e alla stessa instaurazione della sua religione, offre una narrazione, avvertimenti, precetti morali, esortazioni, ordini, minacce, ecc., ma per nulla una raccolta di dogmi enunciati in forma imperativa. Gli evangelisti, raccontando quest’ultima cena in cui Dio ci amò fino alla fine, avevano qui una buona occasione di comandare per iscritto alla nostra credenza; invece si guardano bene dal dichiarare o ordinare nulla.

Si legge, è vero, nella loro mirabile storia: Andate, insegnate! Ma assolutamente non: insegnate questo o quest’altro. Se il dogma cade sotto la penna dello storico sacro, questi lo enuncia semplicemente, come una cosa anteriormente conosciuta (18). I simboli, che apparvero dopo, sono professioni di fede per riconoscersi, o per controbattere gli errori del tempo. Vi si legge: noi crediamo; mai: voi crederete.

Noi li recitiamo in privato e li cantiamo nei templi, sulla lira e sull’organo, (19) come vere preghiere, perché sono formule di sottomissione, di fiducia e di fede rivolte a Dio, e non già comandi rivolti agli uomini. Vorrei proprio vedere la Confessione di Augusta o i Trentanove articoli messi in musica: sarebbe davvero ameno (20).

L’idea che i primi simboli contenessero l’enunciazione di tutti i nostri dogmi è cosi lontana dal vero che i cristiani di allora avrebbero al contrario considerato come un grande crimine l’enunciarli tutti. Lo stesso avviene per le Sacre Scritture: non vi fu mai idea più fallace che di cercarvi la totalità dei dogmi cristiani: non vi è neppure una riga in questi scritti che dichiari, che lasci anche soltanto intravedere il progetto di farne un codice o una dichiarazione dogmatica di tutti gli articoli di fede.

XVI .C’è di più: se un popolo possiede uno di questi codici di credenze, si può essere sicuri di tre cose:

1.La religione di questo popolo è falsa.

2.Esso ha scritto il suo codice religioso durante un accesso di febbre.

3. Presso quella stessa nazione, ci si prenderà gioco ben presto di esso; e non potrà avere né forza né durata. Tali sono, per esempio, quei famosi articoli, che si firmano più che non si leggano e si leggono più che non si credano. (21)

Questo catalogo di dogmi non solo non è tenuto in nessuna considerazione, o quasi, nel paese che l’ha visto nascere; ma inoltre è evidente anche a un occhio straniero che questo foglio di carta mette in grave imbarazzo i suoi illustri possessori. Essi vorrebbero ben farlo sparire, perché irrita il buon senso nazionale illuminato dall’esperienza, e perché ricorda loro un’origine infelice; ma la costituzione è scritta.

XVII. Gli stessi inglesi, senza dubbio, non avrebbero mai domandato la Magna Charta se i privilegi della nazione non fossero stati violati; ma non l’avrebbero neppure mai domandata se quei privilegi non fossero esistiti prima della Carta. Ciò che vale per lo Stato, vale per la Chiesa: se il cristianesimo non fosse mai stato attaccato, non avrebbe mai scritto per fissare il dogma; ma il dogma non avrebbe mai potuto essere fissato per iscritto, se non fosse esistito anteriormente nel suo stato naturale, che è quello di parola.

I veri autori del concilio di Trento, furono i due grandi novatori del secolo sedicesimo (22). I loro discepoli, fattisi più calmi, ci hanno in seguito proposto di cancellare questa legge fondamentale, perché contiene alcune parole spinose per loro; e hanno cercato di sedurci, mostrandoci come possibile, a questo prezzo, una riunificazione che, invece di renderci amici, ci renderebbe complici; (23) ma questa richiesta non è teologica né filosofica.

Furono loro stessi a introdurre, un tempo, nella lingua religiosa quelle parole di cui ora sentono il peso. Noi desideriamo che imparino ora a pronunciarle. La fede, se la sofistica opposizione non l’avesse mai forzata a scrivere, sarebbe mille volte più angelica: essa piange su quelle decisioni che le furono strappate dalla ribellione e che furono sempre sciagure, perché tutte presuppongono il dubbio o l’attacco e non poterono nascere che tra i più pericolosi rivolgimenti.

Lo stato di guerra elevò, intorno alla verità, questi venerabili bastioni: essi indubbiamente la difendono, ma anche la nascondono; la rendono inattaccabile, ma per ciò stesso meno accessibile. Ah! non è questo ciò che domanda, essa che vorrebbe stringere tra le sue braccia il genere umano.

XVIII. Ho parlato del cristianesimo come di un sistema di credenze; passo ora considerarlo come sovranità, nella sua associazione più numerosa. Qui essa è monarchica, come tutti sanno e come è giusto che sia, perché la monarchia, per la natura stessa delle cose, diviene tanto più necessaria quanto più l’associazione diviene numerosa. Non ci si è affatto dimenticati che una bocca impura (24) si fece tuttavia approvare ai nostri giorni, quando disse che la Francia era geograficamente monarchica. Sarebbe difficile esprimere in modo più felice una verità più incontestabile.

Ma se l’estensione stessa della Francia basta da sola a respingere l’idea di ogni altra specie di governo, a maggiore ragione non poteva essere che monarchica questa sovranità che per l’essenza stessa della sua costituzione avrà sempre sudditi in tutti i punti del globo; e l’esperienza su questo punto si trova d’accordo con la teoria. Posto questo, chi mai non crederebbe che una simile monarchia si trovi più rigorosamente determinata e circoscritta di tutte le altre, quanto alla prerogativa del suo capo? È tuttavia il contrario ad accadere.

Leggete gli innumerevoli volumi partoriti dalla guerra esterna o da quella specie di guerra civile (25) che ha i suoi vantaggi e i suoi inconvenienti, e vedrete che da ogni parte non si citano che fatti; ed è soprattutto degno di nota il fatto che il tribunale supremo abbia costantemente lasciato che si disputasse sulla questione, che appare a tutti gli intelletti come la più fondamentale della costituzione, senza aver mai voluto deciderla con una legge formale; (26) e cosi doveva essere, se non mi sbaglio infinitamente, a motivo precisamente dell’importanza fondamentale della questione (27).

Alcuni uomini senza missione, e temerari per debolezza, tentarono di deciderla nei 1682, a dispetto di un grand’uomo; (28) e fu una delle più solenni imprudenze che siano mai state commesse al mondo. Il monumento che ce ne è restato è degno di condanna indubbiamente da ogni punto di vista, ma lo è soprattutto per un aspetto che non è stato notato, sebbene presti il fianco più di ogni altro a una critica illuminata. La famosa dichiarazione osò decidere per iscritto e senza necessità, neppure apparente (il che porta l’errore all’eccesso), una questione che doveva essere costantemente abbandonata a una certa saggezza pratica, illuminata dalla coscienza universale.

Questo punto di vista è il solo che si riallacci al disegno di quest’opera, ma è ben degno delle meditazioni di ogni spirito giusto e di ogni cuore retto.

XIX. Queste idee (prese nella loro generalità) non sono affatto estranee ai filosofi dell’antichità: essi hanno ben sentito la debolezza, direi quasi il nulla della scrittura nelle grandi istituzioni; ma nessuno ha visto ed espresso questa verità meglio di Platone, che si incontra sempre per primo sulla strada di tutte le grandi verità.

Secondo lui, innanzitutto, “l’uomo che deve tutta la sua istruzione alla scrittura non avrà mai altro che l’apparenza della sapienza. La parola – aggiunge – sta alla scrittura come un uomo al suo ritratto. Le produzioni della scrittura appaiono ai nostri occhi come viventi, ma se le si interroga mantengono dignitosamente il silenzio. Lo stesso avviene della scrittura, che non sa ciò che bisogna dire a un uomo né ciò che bisogna celare a un altro. Se è attaccata o insultata senza motivo, essa non può difendersi, perché suo padre non è mai presente per sostenerla. Cosi, chi si immagina di poter stabilire, grazie alla sola scrittura, una dottrina chiara e durevole, è un grande stolto. Se egli possedesse realmente i veri germi della verità, si guarderebbe bene dal credere che con un po’ di liquido nero e una penna potrà farli germogliare nell’universo, difenderli dall’inclemenza delle stagioni e comunicare loro la necessaria efficacia. Quanto a colui che intraprende a scrivere leggi o costituzioni civili, e che immagina, solo per averle scritte, di aver potuto dare loro l’evidenza e la stabilità convenienti, chiunque questi possa essere, legislatore pubblico o privato, che lo si dica o no, egli si è disonorato; perché con ciò ha provato di ignorare ugualmente che cosa siano l’ispirazione e il delirio, il giusto e l’ingiusto, il bene e il male: ora, questa ignoranza è una ignominia, anche se la massa intera del volgo applaudisse” .

Note

(1) Jéróme Bignon (1589-1656), magistrato ed erudito, autore di un’opera De l’excellence des rois et du royaume de Trance par-dessus tous les autres, Paris 1610 (N.d.T.).
(2) “L’uomo nello stato di natura aveva soltanto diritti… Entrando nella società, io rinuncio alla mia volontà particolare per conformarmi alla legge, che è la volontà generale “. Lo Spectateur français (T.I, p. 194) si è giustamente fatto beffe di questa definizione, ma avrebbe potuto inoltre osservare come essa sia tipica del secolo, e soprattutto di Locke, che ha aperto questo secolo in maniera cosi funesta.

(3) Bergier, Tratte hist. et dogm. de la Religion, in 8°, t. III, cap. IV, pp.330-331. (Tertulliano, Apolog. 45).
(4) Nicolas-Sylvestre Bergier (1718-1790) pubblicò il suo Traitè historique et dogmatique de la vraie religion, avec la refutation des erreurs qui lui ont été opposees dans les differents siecles, in dodici volumi a Parigi nel 1780 De Maistre citò spesso l’opera di questo teologo (N.d.T.).
(5) Bergier, ibidem.
(6) La Chiesa proibisce ai suoi figli, ancora più severamente delle leggi civili, di farsi giustizia da se stessi; è per il suo spirito che i re cristiani non se la fanno neppure nei più gravi delitti di lesa maestà, rimettendo i criminali nelle mani dei giudici perché siano puniti secondo le leggi e nelle forme della giustizia ” (Pascal, Provinciali, lett. XIV). Questo brano è molto importante e dovrebbe trovarsi altrove.
(7) Ho riflettuto spesso su questo passaggio di Cicerone: Leges Liviae praesertim uno versiculo senatus puncto temporis sublatae sunt (De Leg., II, 6). Con quale diritto il senato si prendeva questa libertà? E come mai il popolo lo lasciava fare? Rispondere non è certo facile, ma non c’è in ogni caso da meravigliarsi di questi interrogativi se, dopo tutto ciò che è stato scritto sulla storia e sulle antichità romane, è stato necessario ai nostri giorni scrivere dissertazioni per sapere come si reclutava il senato.
(8) This country is governed by a body not known by Legislature.
(9) Connived at. Cfr. il London Chronicle del marzo 1806. Si osservi che, dal momento che la parola Legislature comprende i tre poteri, conseguenza di questa affermazione è che il re stesso ignora il Consiglio privato. Credo tuttavia che egli ne sappia qualcosa.
(10) Jean-Louis Delolme (1740-1806), pubblicista svizzero, autore di La Costitution de l’Angleterre, Amsterdam 1771 (N.d.T.).
(11) Questa costituzione turbolenta – dice Hume – sempre ondeggiante tra la prerogativa e il privilegio, presenta una infinità di pro e di contro” (Hist. of Engl., James I, cap. XLVII, year 1621). Hume, dicendo cosi la verità, non manca affatto di rispetto al suo paese; egli dice ciò che è e ciò che deve essere.
(12) II benevolo giudizio sul Necker non è generalmente condiviso dagli autori coevi. Così per il Barruel, dopo la convocazione degli Stati generali, “La Setta […] non ha più bisogno che d’un Ministro che la diriga come lo richiedono i complotti. Questo ministro sarà precisamente quello dei congiurati, che ha aperto l’abisso. Sarà questo Necker, del quale la perfida politica ha rovinato il tesoro dello Stato; […] l’uomo dei grandi sofisti dell’empietà, de’ quali i complotti si tramavano nella sua casa ugualmente che nel Club di Holbach; l’uomo finalmente, del quale l’immagine nei suoi trionfi rivoluzionari sarà cosi degnamente portata al lato di quella d’Orléans” (Augustin Barruel, Memorie per servire alla storia del giacobinismo, tr. dal fr., Venezia 1799-1880, t. IV, parte 3, p. 103) (N.d.T.).
(13) Thomas Paine (1737-1809) è il noto libellista inglese autore, tra l’altro, di The Age of Reason, (1794-96) (N.d.T.).
(14) II che può servire di commento al celebre detto di Tacito: Pessimae Reipublicae plurimae leges.
(15) Plutarco, Convito dei sette Saggi, cap. LXX.
(16) Tacito credeva che questa forma di governo non sarebbe mai stata altro che un’ideale teoria o un’esperienza passeggera. “Il migliore di tutti i governi, dice (seguendo, come è noto. Cicerone), sarebbe quello che risultasse dalla contemperanza dei tre poteri che si bilanciassero a vicenda; ma questo governo non esisterà mai; o, se apparisse, non durerebbe” (Ann., IV, 33). Il buon senso inglese può tuttavia farlo durare anche più a lungo di quanto non si potrebbe immaginare, subordinando di continuo, ma approssimativamente, fa teoria, o ciò che si chiamano i principi, alle lezioni dell’esperienza e della moderazione: il che sarebbe impossibile se i princìpi fossero scritti
(17) II Triomphe suggerisce di identificare questo personaggio nel Saint-Martin. Claude de Saint-Martin (1743-1803) fu, come è noto, assieme a Jean-Baptiste Willermoz (1730-1824) discepolo di Martinez de Pasqually (1727-1774), il fondatore del martinismo, l’ala che si pretese ” spiritualistica ” all’interno del torbido mondo massonico. Cfr. tra l’altro Auguste Viatte, Les sources occultes du romantisme, 2 voll., Paris 1928 (1965, II ed.) e Rene Le Forestier, La Franc-Maconnerie templière et occultiste aux XVIII et XIX siècles, Paris-Louvain 1970 (N.d.T.).
(18) È interessante osservare che gli stessi evangelisti presero soltanto tardi la penna, e principalmente per controbattere false storie pubblicate a quel tempo. Anche le epistole canoniche nacquero da cause accidentali: la scrittura non entrò mai nel piano primitivo dei fondatori. Mill, anche se protestante, l’ha riconosciuto esplicitamente (Proleg. in Nov. Test. graec., p. I, n. 65). Hobbes aveva già fatto la stessa osservazione in Inghilterra (Hobbes’s Tripos, in three discourses, Disc. The IIIth, p. 265).
(19) In chordis et organo, Ps. CL, 4.
(20) La ragione non può che parlare, è l’amore che canta; ecco perché cantiamo i nostri simboli; perché la fede non è altro che una credenza d’amore: essa non risiede solo nell’intelletto, ma penetra e si radica nella volontà. Un teologo filosofo ha detto con molta verità e finezza: ” Vi è molta differenza tra credere e giudicare che si debba credere. Aliud est credere, aliud indicare esse credendum ” (Leon. Lessii, Opuscula, Lugd. 1651, in fol., p. 556, col. 2, De Praedestinatione).
(21) Gibbon, nelle sue Memorie, t. I, cap. VI, della tr. francese.
(22) Si può fare la stessa osservazione risalendo fino ad Ario; la Chiesa non ha mai cercato di scrivere i suoi dogmi; essa è sempre stata costretta a farlo.
(23) Si riferisce ai colloqui tra Bossuet, Leibnitz e il teologo luterano Molanus, tra il 1692 e il 1701, sul problema della riunificazione dei protestanti con la Chiesa cattolica (N.d.T.).
(24) Mirabeau (N.d.T.)
(25) Si riferisce al protestantismo e al gallicanismo (N.d.T.).
(26) Si riferisce all’infallibilità, oggetto poi del primo libro del Du Pape (N.d.T.)
(27) Non so se gli inglesi abbiano notato che il più dotto e il più fervido difensore della sovranità di cui qui si parla, intitola cosi’ uno dei suoi capitoli: Come la monarchia mista, temperata di democrazia e di aristocrazia, sia migliore della monarchia pura (Bellarmino, De Summo Pontefice, cap. III). Per un fanatico non c’è male!
(28) Si riferisce a Bossuet, scagionandolo dall’accusa di gallicanismo. È interessante notare che nell’Archivio degli Oblati di M.V. è conservato un manoscritto inedito del padre Pio Brunone Lanieri, animatore dell’Amicizia Cristiana, poi Amicizia Cattolica, in cui de Maistre militò, dove è sostenuta la stessa tesi. Le Osservazioni su le opere di Bossuet del Lanteri sono probabilmente del 1808 e dunque anteriori al suo incontro con il de Maistre (N.d.T.).