Discorso sull’Europa

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Juan Donoso Cortés,

Marchese di Valdegamas

(Pronunziato al Parlamento il 30 gennaio 1850 in sede di discussione su questioni finanziarie)

Cortes_Spagna

Signori,

essendomi ritirato dalla scena politica per motivi che i miei amici conoscono e che ciascuno può indovinare, non era mia intenzione prendere parte a questa discussione, né ad alcun’altra. Se rompo oggi questo silenzio, è per compiere un dovere, che stimo sacro, come tutti i miei doveri. Certamente, il profondo sconforto che ha determinato la mia decisione di ritirarmi dalla vita pubblica è oggi molto più grande di ieri, ieri più grande del giorno innanzi. Le mie tristi previsioni avevano allora per oggetto l’Europa in generale; oggi, purtroppo, riguardano anche la nazione spagnola.

Io credo, signori, e lo credo con la più profonda convinzione, che stiamo entrando in un periodo tremendo; i sintomi premonitori ci si presentano tutti insieme: l’accecamento degli intelletti, il rancore degli animi, le discussioni senza oggetto, le lotte senza motivi; e soprattutto (e ciò stupirà più di ogni altra cosa il Parlamento) il furore per le riforme economiche che si impadronisce di tutti. Questo furore che vi agita tutti per simili questioni non si presenta mai così evidente se non è sicuro presagio di grandi catastrofi e di grandi rovine.

Incaricato dalla Commissione di riassumere questo lungo, importantissimo e tristissimo dibattito, sarò tuttavia relativamente breve, e per varie ragioni: primo, perché la questione è stata affidata a me dopo essere già stata esaurita; secondo perché non stiamo qui, io per parlare, ne il Parlamento per starmi a sentire; terzo, perché tolti di mezzo gli episodi drammatici, terribilmente drammatici, tolte le allusioni personali, gli attacchi diretti ai ministri, e da questi ribattuti, tolte infine, le mozioni oratorie, restano da riassumere soltanto tre o quattro argomenti.

In questa discussione, signori, si sono dette a volte parole aspre e dure. Io non sarò nè aspro nè duro: piuttosto che mettermi su quella strada preferisco che la mia lingua si attacchi al palato e che la voce mi si spenga in gola. Il signor San Miguel (Evaristo San Miguel y Valledor) ha dichiarato di non approvare quella tattica che pone gli uomini in contraddizione con se stessi, o con il proprio partito, o i partiti in contraddizione con i propri princìpi.

Nemmeno io adotterò questa tattica; non parlerò di quelle cose alle quali personalmente non attribuisco alcuna importanza. Come potrei meravigliarmi che in casi speciali vi siano divergenze tra uomini di uno stesso partito, se da quando sono nato sto cercando un uomo che sia d’accordo con se stesso, e ancora non l’ho trovato?

Signori, la natura umana è disarmonica, antitetica, contraddittoria; l’uomo è condannato a trascinarsi fino alla tomba la catena di tutte le sue contraddizioni. Non parlerò nemmeno dei cambiamenti e delle modificazioni dei partiti. Perché stupirsi che i partiti cambino, che i partiti si modifichino? Forse la vita, la vita umana come quella dell’universo, non è una perpetua trasformazione? Cosa è mai la giovinezza se non la trasformazione dell’infanzia? E la vecchiaia non è forse una trasformazione della giovinezza? Cos’è la stessa morte, per un cristiano, se non una trasformazione della vita?

Parlerò, signori, dei principali argomenti, di null’altro, e con la maggiore brevità possibile. La prima questione che tratterò è quella della costituzionalità delle deleghe al governo in materia di imposte. Essa è stata trattata da tutti gli oratori che si sono levati a parlare in favore o contro. Su tale argomento ci sono due teorie, e soltanto due.

La prima afferma che la discussione parlamentare è un diritto, si può quindi rinunciare ad esso ogni volta che Io si giudichi conveniente e opportuno: questa è la teoria monarchica. L’altra teoria, quella democratica, afferma che: “Ogni discussione è un obbligo, un dovere” come dice il signor San Miguel; ed essendo un obbligo, un dovere, il Parlamento non vi può rinunciare.

Ma gli argomenti usati qui contro la costituzionalità delle deleghe non sono né monarchici né democratici: non i sono argomenti di nessuna specie. Perché i signori deputati, sia di destra che di sinistra, i quali hanno attaccato il principio delle deleghe, hanno concluso col dire: “La discussione è un obbligo dei deputati”, ed hanno soggiunto: “Però le deleghe sono lecite in alcune circostanze”, la qual cosa è una contraddizione.

E perché ciò sia chiaro, riduciamo queste teorie a tre sillogismi. Sillogismo monarchico: i diritti per loro stessa natura sono rinunciabili, la discussione è un diritto del Parlamento, quindi il Parlamento può rinunciarvi ogni volta che lo voglia. Sillogismo democratico: la discussione è un dovere per il Parlamento, ai doveri non si può rinunciare, quindi il Parlamento non può mai rinunciare alla discussione. Io comprendo queste due tesi: quello che non riesco a comprendere è invece il sillogismo delle due opposizioni, e basterà presentarlo per dimostrarne il punto debole. Eccolo: la discussione è un dovere, ai doveri non si può rinunziare, quindi ci si può rinunziare qualche volta.

Questo è il sillogismo delle opposizioni. Cosa vuol dire ciò? Vuoi dire che le opposizioni con le premesse negano la monarchia, con le conclusioni la democrazia. Sono esse una negazione perpetua, e, come tutte le negazioni, condannate alla sterilità.

Però si è aggiunto: “Se pure le deleghe possono essere ammesse per altri affari, non possono ne debbono esserlo in materia di imposizione fiscale”. E perché, signori? Ammetto argomenti del genere in una scuola, dove si crede che i Parlamenti siano stati costituiti solo per discutere i bilanci e che i bilanci siano fatti soltanto per essere discussi nelle Assemblee.

Però i popoli che adottano la monarchia costituzionale, così come è da noi e nel resto d’Europa, devono riconoscere che i deputati della nazione, che vengono qui per discutere e votare, hanno lo stesso diritto di esaminare tutte le leggi che qui gli vengono presentate, siano esse leggi di bilancio, o politiche, o economiche; siano anche, fino a un certo limite, religiose. Di conseguenza, essendo uno solo il diritto e uno il dovere, gli stessi princìpi devono applicarsi alla discussione di tutte le leggi.

Un deputato che siede in questi banchi ha fatto una domanda alla quale non si è ancora risposto come avrei desiderato. Egli ha detto: “Se queste deleghe non cessano, non si discuterà mai in materia fiscale. C’è qualche deputato che osi dire che non si debbano discutere?”. Accetto questa domanda e mi affretto a rispondere, ma prima devo precisare una cosa. Il deputato al quale alludo ci dice, statistiche alla mano, che qui la discussione sulle imposte sarebbe durata ordinariamente cinque o sei mesi.

E allora, ammesso ciò, io faccio questa domanda: le Cortes hanno oppure no il diritto di discutere altre leggi, oltre quelle sulle imposte? Sì o no? Se mi si risponde che non hanno il diritto di discutere altre leggi, io dirò: ma allora voi uscite fuori dalle istituzioni, cadete in un sistema semiassolutista e semidemocratico, nato ai nostri giorni, che consiste nel porre in un solo punto, nel concedere ad un solo uomo, col titolo di Presidente del Consiglio dei Ministri, tutti i poteri della società, fino al potere assoluto; nell’accentrare in questo uomo la tirannia, e nello stesso tempo nel porre la democrazia in una Assemblea che non ha alcun potere, salvo quello di uccidere il tiranno con una pugnalata, negandogli i mezzi finanziari.

Questa è la teoria semiassolutista e semidemocratica nata da poco nella Repubblica francese. E invece, signori, se mi si risponde che le Cortes hanno il diritto di discutere tutte le leggi così come hanno il diritto di discutere quella delle imposte, allora farò un’altra domanda. Credono i signori deputati che le Cortes debbano sedere in permanenza, o che debbano esserci degli intervalli tra le sessioni?

Se mi si risponde che le Cortes debbono essere permanenti io rispondo: voi uscite fuori dallo spirito delle nostre istituzioni, perché le Cortes costituzionali non sono mai permanenti, come sono invece quelle repubblicane. Dite che non debbono essere permanenti? che debbono esserci degli intervalli? Ma allora volete l’impossibile, perché è impossibile discutere di imposte per sei mesi, e poi esaminare le altre leggi che interessano lo Stato: di conseguenza, vi ponete tra due scogli. Ed ora, dopo aver fatto questa domanda, a quella che mi era stata rivolta rispondo: sì, le imposte devono essere discusse, ma non nella forma che voi volete.

Signori, tutti gli affari che si discutono nei Parlamenti e altrove presentano molti aspetti, ma uno soltanto è il principale. La questione principale da esaminare è l’economia considerata sotto l’aspetto politico. Se la considero sotto questo aspetto, devo ribattere tre gravissimi errori nei quali sono incorsi tutti: la opposizione progressista, l’opposizione conservatrice, e, fino ad un certo punto, lo stesso Ministero e l’opinione pubblica. Io, signori, che combatto l’errore ovunque lo trovo, lo combatterò là dove l’ho incontrato.

Ecco i tre errori che vi addito e che combatto.

Primo: le questioni economiche sono per la loro natura le più importanti. Secondo: è venuto il momento che in Spagna si attribuisca a tali questioni l’importanza che hanno. Terzo: le riforme economiche sono non soltanto possibili, ma anche facili. Tutti sono incorsi in questi tre errori, ed io ho preso qui la parola unicamente per combattere tutti su questo terreno, per combattere questi errori.

In appoggio al primo errore, si è ricorso all’autorità degli uomini di Stato. Se si parla degli uomini di Stato dei nostri giorni, non lo nego; però se si parla di quegli uomini di statura colossale che con il nome di fondatori di imperi, di civilizzatori di monarchie e di popoli, ricevettero un mandato dalla Provvidenza con diversi titoli, in epoche diverse e con diversi fini; se si parla di questi uomini immortali, che sono come il patrimonio e la gloria delle generazioni umane; se si parla, in una parola, di quella magnifica razza che parte da Mosè e passando per Carlo Magno termina a Napoleone; se si tratta di questi uomini immortali, allora io nego ciò, lo nego risolutamente.

Nessun uomo che ha raggiunto l’immortalità ha fondato la propria gloria sulla verità economica; ma tutti hanno fondato le nazioni sulla base della verità sociale, della verità religiosa. Ciò non significa (prevedo le opposizioni e le prevengo), non significa che io creda che i governi debbano trascurare la questione economica e che i popoli debbano essere male amministrati.

Signori, sono forse tanto sprovvisto di senno e di cuore da farmi trascinare da un simile errore? Non intendo dire questo, però affermo che ogni questione deve essere collocata al suo posto, ed il posto delle questioni economiche è il terzo o il quarto, non il primo; questo dico.

Si è affermato che discutere qui su tali questioni è il mezzo per vincere il socialismo. Ah, signori, il mezzo per vincere il socialismo! Ma che cosa è il socialismo se non una setta economica? Il socialismo è figlio dell’economia politica, come la viperetta è figlia della vipera, che, appena nata, divora sua madre.

Discutete tali questioni economiche, date loro il primo posto, ed io vi assicuro che entro due anni, avrete tutte le questioni socialiste in Parlamento e per le strade. Si vuole combattere il socialismo? II socialismo non si combatte; questa affermazione, che fino a qualche tempo fa avrebbe fatto ridere gli spiriti forti, oggi non causa più ilarità in Europa e nel mondo. Se si vuole combattere il socialismo, occorre rivolgersi a quella religione che insegna la carità ai ricchi e la pazienza ai poveri; a questi la rassegnazione, a quelli la misericordia.

Eccomi, signori, al secondo errore, che consiste nell’affermare che per noi è giunto il momento di occuparci delle questioni economiche con tutta l’importanza che esse richiedono. Questa idea nacque nella scorsa estate. Vinta la rivoluzione sociale per le strade di Madrid, risolta la questione dinastica sui campi della Catalogna, l’opinione pubblica, cieca allora come sempre, cieca qui come altrove, credette che fossimo tanto sicuri della vita da poterci occupare esclusivamente delle questioni finanziarie.

Grande errore, ma scusabile, tuttavia, in quel tempo: oggi però non lo sarebbe più, né per l’opinione pubblica, né per il Governo, né per la opposizione conservatrice. Chi oggi ardirebbe dire che stiamo sicuri? Chi non vede le dense nuvole sull’oscuro orizzonte?

Ebbene, se oggi vacilliamo così, come è possibile che ieri fossimo tanto saldi? E se ieri eravamo saldi, come mai oggi barcolliamo tanto? Ve la dirò io, la verità, signori. La verità è che oggi non siamo tanto saldi perché nemmeno ieri lo eravamo, perché dopo la rivoluzione di febbraio non lo siamo più stati.

Dopo questa rivoluzione, di tremenda memoria, non c’è più niente di stabile né di sicuro, in Europa. La Spagna è la più salda: e voi vedete bene che cosa è la Spagna! Questa Assemblea è la migliore, e voi vedete che cosa è questa Assemblea. La Spagna, signori, è in Europa quello che un’oasi è nel deserto del Sahara. Io ho discusso con i saggi, e so quanto poco conti in queste circostanze la saggezza: ho conversato con i valorosi, e so quanto poco valga in queste circostanze il valore; ho conversato con gli uomini più prudenti, e so quanto vana sia la prudenza in questi momenti.

Guardate, signori, lo stato dell’Europa. Sembra che tutti gli uomini di Stato abbiamo perduto il dono dell’intelletto; la ragione umana si eclissa, le istituzioni vacillano, e le grandi nazioni precipitano improvvisamente. Spingete lo sguardo con me, signori, dalla Polonia al Portogallo, e ditemi in buona fede, con la mano sul cuore, se vedete una sola società che possa dire: “sto salda sulle mie fondamenta”; ditemi se vedete un solo governo che possa dire: “sto sicuro sulle mie basi”.

E non si dica, signori, che la rivoluzione è stata vinta in Spagna, in Italia, in Francia, in Ungheria: no, signori, non è vero. La verità è che tutte le forze sociali, concentrate ed elevate al massimo grado, sono bastate appena, e sono riuscite solamente a trattenere momentaneamente il mostro.

Non è qui, ma in Francia, che si conoscono i progressi del socialismo. Ebbene, sappiate che il socialismo ha tre grandi teatri. In Francia stanno i discepoli, e solo i discepoli; in Italia stanno gli sbirri, solo gli sbirri; in Germania stanno i pontefici ed i maestri. La verità è che nonostante queste vittorie, che di vittorie hanno soltanto il nome, la terribile sfinge sta davanti ai vostri occhi, senza che sia sorto finora un Edipo a decifrarne l’enigma. La verità è che il terribile problema esiste, e l’Europa non sa ne può risolverlo.

Questa è la verità. Tutto preannuncia, tutto – e l’uomo che ha sana ragione, buon senso e mente perspicace lo vede – tutto preannuncia una crisi imminente e funesta; tutto preannuncia un cataclisma mai veduto a memoria d’uomo. Ecco, signori, pensate a questi sintomi che non si presentano mai, soprattutto così riuniti, senza esser seguiti da paurose catastrofi. Oggi in Europa tutte le strade, anche le più opposte, conducono alla rovina. Alcuni si perdono perché cedono, gli altri perché resistono.

Dove la debolezza deve essere causa di morte, lì si trovano prìncipi deboli; dove l’ambizione deve provocare rovina, lì stanno prìncipi ambiziosi; dove lo stesso ingegno deve essere causa di perdizione, lì pone Dio prìncipi dotti.

E ciò che accade con i prìncipi avviene con le idee. Tutte le idee, le più orribili come le più nobili, producono risultati identici. Posate uno sguardo su Parigi, e su Venezia, e vedrete il risultato dell’idea demagogica e dell’idea nobilissima dell’indipendenza italiana. E quel che succede con i prìncipi e con le idee, succede anche con gli uomini.

Signori, dove un solo uomo basterebbe per salvare la Società, quest’uomo non esiste; o se esiste, Dio scioglie per lui un po’ di veleno nell’aria. Al contrario, quando un solo uomo può perdere la società, quest’uomo si presenta, quest’uomo viene portato in trionfo dai popoli e trova spianate tutte le strade. Se volete vedere questo contrasto, guardate la tomba del maresciallo Bugeaud e il trono di Mazzini. E ciò che avviene con i prìncipi, con le idee, con gli uomini, accade pure con i partiti.

A questo punto, signori, vi prego di prestarmi la maggiore attenzione, perché ciò che vi dirò ha una immediata applicazione ai nostri casi. Ove la salvezza della società dipende dallo scioglimento di tutti i vecchi partiti e dalla formazione di uno nuovo, derivato dalla loro fusione, ivi i partiti si impegnano a non sciogliersi e non si sciolgono. Così succede in Francia; la salvezza della Francia sarebbe nello scioglimento del partito bonapartista, del partito legittimista, del partito orleanista e nella formazione di un solo partito monarchico.

Ebbene, là dove lo scioglimento dei partiti produrrebbe la salvezza della società, i bonapartisti pensano a Bonaparte, gli orleanisti al conte di Parigi, i legittimisti a Enrico V; e, al contrario, dove la salvezza della società vorrebbe che i partiti fossero fedeli alle loro antiche bandiere, che non si accanissero tra loro, per poter combattere uniti gloriose battaglie, ebbene, dove ciò sarebbe necessario per la salvezza della società, come in Spagna, qui i partiti si sciolgono.

E per questa malattia le riforme economiche non sono un rimedio sufficiente; no, la caduta di un governo ed il sorgere di un altro non è un rimedio.

L’errore fondamentale in questa materia consiste nel credere che i mali da cui l’Europa è afflitta siano causati dai governi. Io non negherò l’influenza del governo sui governati. Come potrei negarla? Chi l’ha mai negata? Però il male è molto più profondo, molto più grave. Il male non sta nei governi, ma nei governati, che sono diventati ingovernabili.

Signori, la vera causa del male grave e profondo; che corrode l’Europa è che è venuta meno l’idea dell’autorità divina e umana. Questo è il male che strazia l’Europa, questo è il male che strazia la società, il mondo; ecco perché i popoli sono ingovernabili. Ciò serve a spiegare un fenomeno che non ho ancora sentito chiarire da nessuno, e che tuttavia ha una spiegazione soddisfacente.

Tutti coloro che hanno viaggiato per la Francia convengono nel dire che non si incontra un francese che sia repubblicano. Io stesso posso affermare tale verità, perché ho percorso tutta la Francia. Però si domanda: se in Francia non ci sono repubblicani, come mai esiste la repubblica? E nessuno sa darne il motivo; ma io lo dirò. La repubblica esiste in Francia, e dico di più, la repubblica resisterà in Francia, perché è la forma di governo necessaria per i popoli che sono ingovernabili.

Presso questi popoli il governo assume necessariamente la forma repubblicana. Ed ecco perché la Repubblica esiste ed esisterà in Francia. Poco importa che sia, come ora, combattuta dalla volontà degli uomini, se è sorretta, come è, dalla forza stessa delle cose. Questa è la spiegazione della durata della Repubblica Francese.

Nel sentirmi parlare contemporaneamente dell’autorità divina e dell’autorità umana, mi si potrà chiedere: cosa hanno a che vedere le questioni politiche con le questioni religiose?

Signori, non so se fra noi c’è qualche deputato che creda che non ci sia una relazione tra le cose religiose e quelle politiche: ma se ce n’è qualcuno, io gli dimostrerò che questa relazione è necessaria, in maniera tale che la veda con i suoi stessi occhi e la tocchi con le sue stesse mani.

La civiltà ha due fasi; una che chiamerò affermativa, perché in essa la civiltà riposa su affermazioni, e progressiva, perché queste affermazioni sulle quali si fonda sono verità, e infine chiamerò cattolica, perché il cattolicesimo abbraccia in tutta la sua pienezza queste verità e queste affermazioni. Al contrario, c’è un’altra fase della civiltà, che io chiamerò negativa, perché si fonda esclusivamente su negazioni, e decadente, perché queste negazioni sono errori, e rivoluzionaria, perché questi errori si convertono infine in rivoluzioni che sconvolgono gli Stati.

Ebbene, signori, quali sono nell’ordine religioso, le tre affermazioni di questa civiltà che io chiamo affermativa, progressiva e cattolica? Prima affermazione: esiste un Dio, e questo Dio è in ogni luogo. Seconda affermazione: questo Dio personale, che è in ogni luogo, regna in cielo ed in terra. Terza affermazione; questo Dio che regna in cielo ed in terra, governa da sovrano assoluto le cose divine e umane.

Ora, signori, là dove vedrete ammesse queste tre affermazioni nell’ordine religioso, troverete anche analoghe affermazioni nell’ordine politico: c’è un re che sta ovunque per mezzo dei suoi rappresentanti; questo re, che è presente ovunque, regna sopra i suoi sudditi; regnando sopra i suoi sudditi, li governa tutti.

Di modo che l’affermazione politica non è che la conseguenza dell’affermazione religiosa. Le istituzioni politiche nelle quali vengono simbolizzate queste tre affermazioni sono due: le monarchie assolute e le monarchie costituzionali, come le intendono i moderati di tutti i paesi, perché nessun partito moderato ha mai negato al re né l’esistenza, né il regno, né il governo. Perciò la monarchia costituzionale può con gli stessi titoli della monarchia assoluta simboleggiare queste tre affermazioni politiche, che sono l’eco, diciamo così, delle tre affermazioni religiose.

Signori, in queste tre affermazioni è contenuto quel periodo della civiltà che ho chiamato affermativo, progressivo, cattolico. Ora entriamo nel secondo periodo, che ho chiamato negativo e rivoluzionario. In questo secondo periodo ci sono tre negazioni, che corrispondono alle tre affermazioni precedenti. Prima negazione, o come io la chiamerò, negazione di primo grado nell’ordine religioso: “Dio esiste, Dio regna, ma è troppo in alto per governare le cose umane”.

Questa è la prima negazione, la negazione di primo grado, in questo periodo negativo della civiltà. A questa negazione della Provvidenza di Dio, quale altra corrisponde nell’ordine politico? Nell’ordine politico viene avanti il partito progressista, facendo eco al deista che nega la Provvidenza, e dice: “II re esiste, il re regna, però non governa”. Così la monarchia costituzionale progressista appartiene in primo grado alla civiltà negativa.

Seconda negazione: il deista nega la Provvidenza; i fautori della monarchia costituzionale, come la intendono i progressisti, negano il governo. Allora viene avanti nell’ordine religioso il panteista, e dice: “Dio esiste, ma non ha una esistenza personale; Dio non è persona, e quindi non regna né governa; Dio è tutto ciò che vediamo, tutto ciò che vive e che si muove; Dio è l’umanità “. Così afferma il panteista; di modo che, pur non negando Resistenza assoluta di Dio, ne nega resistenza personale, il regno, la Provvidenza.

Poi viene il repubblicano, e dice: “II potere esiste, ma non è persona, non regna né governa; il potere è tutto ciò che vive, che esiste, che si muove, cioè la moltitudine; quindi non c’è altro mezzo di governo se non il suffragio universale, né altro governo che la repubblica”.

Così, signori, il panteismo nell’ordine religioso corrisponde al repubblicanesimo nell’ordine politico. C’è ancora un’altra negazione, l’ultima: in fatto di negazioni non si può andare più oltre. Dopo il deista, e il panteista, viene l’ateo e dice: “Dio non regna, né governa, non è persona né moltitudine; non esiste”.

E viene avanti Proudhon a dirci: “Non esiste il governo “. Così una negazione ne chiama un’altra. Come un abisso chiama un altro abisso. Al di là di questa negazione, che è l’abisso, non c’è nulla, nulla se non tenebre, e tenebre palpabili.

Ora, signori, sapete qual è lo stato dell’Europa? Tutta l’Europa sta entrando nella seconda negazione e cammina verso la terza, che è l’ultima; non lo dimenticate. Se volete che io tratti più a fondo dei pericoli che minacciano la società. Io farò, seppure con una certa prudenza. Tutti sanno quale sia la mia posizione ufficiale: non posso parlare dell’Europa senza parlare della Germania, né della Germania senza parlare della Prussia, che la rappresenta; non posso parlare della Prussia senza parlare del suo re, che, sia detto di sfuggita, per le sue nobili doti posso chiamare l’Augusto germanico.

L’Assemblea vorrà perdonarmi se, nel trattare la questione, manterrò un certo riserbo che riguarda l’Europa, e un riserbo quasi assoluto che riguarda la Prussia; ma dirò comunque quanto basta per chiarire quali sono le mie idee concrete sui pericoli altrettanto concreti che minacciano l’Europa.

Si è parlato qui dei pericoli che corre l’Europa a causa della Russia ed io credo di poter tranquillizzare l’Assemblea, per adesso e per molto tempo ancora, rassicurandola che da quella parte non può temere alcun pericolo.

Signori, l’influenza che la Russia esercitava in Europa, la esercitava per mezzo della Confederazione germanica. La Confederazione germanica fu costituita contro Parigi, che era la città rivoluzionaria, la città maledetta, e in favore di Pietroburgo, che era allora la città santa, la città del governo, la città delle tradizioni restauratrici.

Cosa ne nacque? Che la Confederazione non fu un impero, come avrebbe potuto essere allora, e non lo fu perché alla Russia non poteva piacere avere di fronte a sé un impero tedesco, e tutte le razze tedesche riunite. Così la Confederazione fu composta di principati microscopici e di due grandi monarchie.

Che cosa conveniva alla Russia in caso di guerra contro la Francia? Che queste monarchie fossero assolute; e furono tali. E così avvenne che l’influenza della Russia, dalla formazione della Confederazione tedesca fino alla rivoluzione di febbraio, si è estesa da Pietroburgo a Parigi. Però, signori, dalla rivoluzione di febbraio tutte le cose hanno mutato aspetto; l’uragano rivoluzionario ha abbattuto i troni, ha gettato nella polvere le corone, ha umiliato i re. La Confederazione tedesca non esiste più, la Germania oggi è un caos. Ciò vuol dire che all’influenza russa, che si estendeva da Pietroburgo a Parigi, è subentrata ora l’influenza demagogica che da Parigi dilaga fino alla Polonia.

Eccone la ragione: la Russia contava su due alleati potenti, l’Austria e la Prussia. Oggi è chiaro che non può contare che sull’Austria; ma l’Austria deve lottare, e lottare disperatamente contro lo spirito demagogico, che esiste colà come ovunque; contro lo spirito di razza, presente in quel paese più che altrove; ed infine deve conservare tutte le sue forze per una possibile lotta contro la Prussia.

Perciò, signori, essendo l’Austria neutralizzata, la Confederazione tedesca disciolta, la Russia non può contare ormai che sulle sue forze, oggi. E sapete di quali forze può disporre la Russia per una guerra offensiva? Di meno di 300.000 uomini. E sapete contro chi devono combattere questi 300.000 uomini? Contro tutte le razze tedesche rappresentate dalla Prussia, contro tutte le razze latine rappresentate dalla Francia, contro la nobilissima e potentissima razza anglosassone, rappresentata dall’Inghilterra.

Questa lotta da parte della Russia sarebbe insensata e assurda. In caso di guerra generale, il risultato certo, inevitabile, sarebbe che la Russia cesserebbe di essere una potenza europea per restare soltanto una potenza asiatica. Ecco perché la Russia rifugge dalla guerra, e perché l’Inghilterra la cerca. La guerra sarebbe già scoppiata se non fosse stato per la debolezza cronica della Francia, che non ha voluto seguire l’Inghilterra, per la prudenza austriaca e per la abilissima diplomazia russa. Ecco perché la Russia non ha voluto, non ha potuto desiderare la guerra; ecco perché la guerra non è scoppiata per la questione dei rifugiati in Turchia.

Non si creda con ciò che io pensi che l’Europa non abbia nulla da temere dalla Russia; anzi, credo tutto il contrario. Ma perché la Russia accetti una guerra generale, perché si impadronisca dell’Europa, è necessario che prima si realizzino i tre avvenimenti che vi dirò, e che, signori, ponetevelo bene in mente, sono non soltanto possibili, ma probabili.

È necessario: primo, che la rivoluzione, dopo aver distrutta la società, distrugga gli eserciti permanenti. Secondo, che il socialismo, spogliando i proprietari, uccida il patriottismo, perché un proprietario spogliato non è più patriota, non può esserlo, e quando la questione viene posta in questi termini estremi e angosciosi non può esserci patriottismo nell’uomo. Terzo, che si compia la potente unione di tutti i popoli slavi sotto l’influenza ed il protettorato della Russia.

Le nazioni slave, signori, contano ottanta milioni di uomini. Ebbene, quando in Europa non ci saranno più eserciti permanenti, distrutti dalla rivoluzione, quando in Europa non ci sarà più patriottismo, spento dalle rivoluzioni socialiste, quando nell’oriente d’Europa si sarà formata la grande confederazione dei popoli slavi, quando in occidente non ci saranno più che due grandi eserciti, l’esercito degli spogliati e quello degli spogliatori, allora, signori, suonerà all’orologio dei tempi l’ora della Russia.

Allora la Russia potrà passeggiare tranquilla, e con le armi al braccio, per la nostra patria. Allora, signori, il mondo assisterà al più grande castigo di cui sia memoria nella storia, al castigo dell’Inghilterra. A niente le serviranno le sue navi contro l’impero colossale che con un braccio afferrerà l’Europa e con l’altro l’India; a niente serviranno le sue navi, e il suo vasto impero cadrà prostrato, in frantumi, e il suo lugubre rantolo ed il suo doloroso lamento echeggeranno fino ai poli.

Non crediate, signori, non crediate che le catastrofi finiscano qui; le razze slave non sono per i popoli dell’occidente quello che le razze tedesche furono per il popolo romano. No, le razze slave stanno da molto tempo a contatto con la civiltà, sono razze semicivilizzate; l’amministrazione russa è corrotta quanto la più civilizzata d’Europa e l’aristocrazia russa è civilizzata quanto la più corrotta aristocrazia d’Europa.

Ebbene, quando la Russia si troverà in mezzo all’Europa conquistata e prosternata ai suoi piedi, essa stessa assorbirà attraverso tutte le vene la civiltà che questa ha bevuto e che l’uccide. La Russia non tarderà a cadere in putrefazione, e allora non so quale Universale cauterio Dio avrà preparato per quell’universale dissolvimento.

Contro ciò, signori, non c’è che un rimedio, uno solo: il nodo dell’avvenire è nell’Inghilterra. In primo luogo, signori, la razza anglosassone è la più generosa, la più nobile, la più coraggiosa nel mondo. In secondo luogo la razza anglosassone è la meno esposta all’impeto delle rivoluzioni. Io credo più facile una rivoluzione a Pietroburgo che a Londra. Che cosa deve fare l’Inghilterra per impedire la conquista inevitabile di tutta l’Europa da parte della Russia? Cosa deve fare?

È necessario che eviti ciò che la perderebbe : e cioè la dissoluzione degli eserciti permanenti per mezzo della rivoluzione; la spoliazione dei proprietari in Europa per mezzo del socialismo, vale a dire, avere una politica estera monarchica e conservatrice, e pure questo non sarebbe che un palliativo. L’Inghilterra, monarchica e conservatrice, può impedire la dissoluzione della società europea ma fino a un certo punto e fino a un certo tempo: perché l’Inghilterra non è abbastanza potente, non è abbastanza forte per distruggere, come è necessario, la forza dissolvente delle dottrine propagate nel mondo.

Perché al palliativo si aggiungesse il rimedio sarebbe necessario che l’Inghilterra, già conservatrice e monarchica, divenisse cattolica. Io affermo questo, signori, perché il rimedio radicale contro la rivoluzione e il socialismo non è che il cattolicesimo, perché questo è l’unica dottrina che sia la contraddizione assoluta di quell’altra. Che cosa è il cattolicesimo? Sapienza e umiltà. Che è il socialismo? Orgoglio e barbarie. Il socialismo, signori, è come quel re babilonese, re e bestia a un tempo.

Signori, l’Assemblea si sarà meravigliata che io, nel parlare dei pericoli che minacciano la società e il mondo, non abbia nominato la Francia. C’è una ragione. La Francia era fino a poco tempo fa una grande nazione; oggi, signori, non è neppure una nazione, essa è il club centrale dell’Europa.

Così, signori, è dimostrato: primo, che le questioni economiche non sono, né debbono, né possono essere le più importanti di tutte. Secondo; che noi non siamo in un tale stato di tranquillità e di sicurezza da poterci dedicare ad esse esclusivamente. Mi accingo ora a combattere il terzo e ultimo errore che consiste nell’affermare che le riforme economiche sono non soltanto possibili, ma persino facili.

L’Assemblea mi permetterà che ora, come prima, dica la verità, tutta la verità, e con la franchezza e la buona fede che mi sono abituali. Non ci sarà alcun deputato che porrà in dubbio questo assioma: che i governi, anche quelli che offrono maggiori vantaggi, hanno in cambio anche taluni inconvenienti; e così anche i governi che presentano maggiori inconvenienti, offrono anche taluni vantaggi; e infine ammetterete che non ci sono governi immortali.

Da questo seggio io posso parlare in piena libertà dei vantaggi e degli inconvenienti, e persino della morte dei governi, perché tutti hanno i loro inconvenienti, i loro vantaggi, e tutti muoiono.

Ebbene, signori, io dico che se i governi assoluti hanno grandissimi inconvenienti, hanno in compenso un grande vantaggio, quello di essere relativamente a miglior prezzo; e affermo pure che se i governi costituzionali hanno grandi vantaggi, hanno anche il gravissimo inconveniente d’esser carissimi. Io non conosco nessun governo più caro del repubblicano.

E, ragionando per analogia, è facile prevedere la sorte di ognuno di questi governi. Io dico che la cosa più probabile è che tutti i governi assoluti, ovunque esistano, finiranno col perire per la discussione; e che tutti i governi costituzionali, ovunque esistano, periranno per bancarotta. Questa è la mia profonda convinzione, e faccio i signori deputati depositari delle mie convinzioni.

C’è solo un mezzo di fare riforme, grandi riforme economiche: il licenziamento totale o quasi degli eserciti permanenti. Questo, signori, potrebbe salvare i governi per qualche tempo dalla bancarotta, ma equivarrebbe alla bancarotta dell’intera società; perché, e qui richiamo la vostra attenzione, gli eserciti permanenti sono oggi l’unico ostacolo che impedisce alla civiltà di perdersi nella barbarie. Oggi assistiamo a uno spettacolo nuovo nella storia, nuovo nel mondo: quando mai, sino ad ora, si è visto il mondo andare verso la civiltà per mezzo delle armi, e verso la barbarie per mezzo delle idee? Ebbene, questo sta succedendo mentre io parlo.

Questo fenomeno, signori, è così grande, così strano che esige una spiegazione. Ogni vera civiltà proviene dal cristianesimo. E ciò è così vero, che la civiltà tutta si è concentrata nella zona cristiana; fuori di questa zona non c’è civiltà, tutto è barbarie. Prima del cristianesimo non c’è stato al mondo alcun popolo civilizzato, neppure uno.

Neppure uno, signori; ripeto che non ci sono stati popoli civilizzati, perché i Romani e i Greci non furono civili, ma soltanto colti, il che è ben diverso. La cultura è la vernice, null’altro che la vernice delle civiltà. Il cristianesimo ha civilizzato e civilizza il mondo con tre mezzi: facendo dell’autorità una cosa inviolabile, dell’obbedienza una cosa santa, e della abnegazione e del sacrificio, o per meglio dire, della carità, una cosa divina. In questa maniera il cristianesimo ha civilizzato le nazioni.

Ebbene, (e qui sta la soluzione di questo grande problema) le idee della inviolabilità dell’autorità, della santità dell’obbedienza, e della divinità dell’abnegazione, queste idee non ci sono più, oggi, nella società civile; stanno nei templi dove si adora il Dio della Giustizia e della Misericordia, o negli accampamenti dove si adora il Dio forte, il Dio delle battaglie, sotto i simboli della gloria.

Per questo, perché la Chiesa e l’Esercito sono le uniche che conservano intatte le idee sulla inviolabilità dell’autorità, sulla santità dell’obbedienza, e sulla divinità della carità, per questo la Chiesa e l’Esercito sono oggi i due rappresentanti della civiltà europea.

Non so, signori, se la vostra attenzione è stata colpita, come la mia, dalla somiglianza, quasi identità tra due persone che sembrano le più diverse e contrarie; la somiglianza, cioè tra il sacerdote e il soldato. Nessuno dei due vive per sé, né per la sua famiglia; per ambedue la gloria sta nel sacrificio e nella abnegazione. Compito del soldato è di vegliare sull’indipendenza della società civile, compito del sacerdote è di vegliare sull’indipendenza della società religiosa.

Il dovere del sacerdote è di dare la vita come il buon pastore per i suoi agnelli; il dovere del soldato, da buon fratello, è di dare la vita per i suoi fratelli. Se considerate la durezza della vita sacerdotale; il sacerdozio vi sembrerà, come infatti è, una vera milizia. Se considerate la santità dei doveri militari, la milizia vi sembrerà quasi un vero sacerdozio. Che sarebbe del mondo, della civiltà, dell’Europa, se non ci fossero sacerdoti e soldati?

Ed ora, Signori, se c’è qualcuno che, dopo quanto ho esposto, continua a credere che gli eserciti debbono essere congedati, si alzi in piedi e lo dica. Se nessuno vuole questo, io me la rido di tutte le vostre economie, esse non sono che utopie. Sapete ciò che pretendete di fare quando volete salvare la società con le vostre economie senza congedare l’esercito?

Ebbene, pretendete di estinguere l’incendio della nazione con un bicchiere di acqua, ecco quel che pretendete. È dimostrato, quindi, come mi ero proposto, che le questioni economiche non sono le più importanti: che l’occasione di trattarle esclusivamente qui non è giunta, e che le riforme economiche non sono facili, e anzi, fino a un certo punto, non sono possibili.

E ora, signori, poiché alcuni oratori hanno detto all’Assemblea che votando per questa delega si vota contro il governo rappresentativo, io mi rivolgerò a questi signori e dirò loro: volete votare per il Governo rappresentativo? Ebbene, votate per la delega che vi si chiede per il Governo, votatela; perché se i governi rappresentativi vivono di discussioni sagge, essi muoiono anche per le discussioni interminabili.

La Germania vi offre un grande esempio, seppure l’esperienza e gli esempi debbono servire a qualcosa. La Germania ha avuto tre Assemblee costituenti allo stesso tempo, una a Vienna, l’altra a Berlino, la terza a Francoforte. La prima è morta per un decreto imperiale; un decreto reale ha ucciso la seconda; quanto all’Assemblea di Francoforte, composta dei più grandi saggi, dei più grandi patrizi, dei filosofi più profondi, che ne è stato? Cosa è diventata? Mai il mondo vide un senato più augusto e una fine più triste. Una acclamazione universale le dette vita, un fischio universale l’ha uccisa.

La Germania la pose come una divinità in un tempio, e questa stessa Germania la lasciò morire come una prostituta in una taverna.

Questa, signori, è la storia delle Assemblee tedesche. E sapete perché morirono in tale maniera? Ve lo dirò io. Morirono così perché né governarono né lasciarono governare; perché, dopo oltre un anno, nulla è venuto fuori dalle loro interminabili discussioni, se non un poco di fumo.

Signori, esse aspirarono alla dignità di regine, e Dio le rese sterili, e tolse loro persino la dignità di madri. Deputati della Nazione, vegliate per la vita delle Assemblee spagnole! E voi, signori dell’opposizione conservatrice, ve ne prego, vegliate per il vostro avvenire e per l’avvenire del vostro partito.

Abbiamo sempre combattuto uniti, seguitiamo a combattere ancora uniti. Il vostro divorzio è sacrilego: la Patria ve ne chiederà conto nel giorno delle sue grandi sventure. Forse questo giorno non è lontano, e chi non lo vede possibile, soffre di una cecità incurabile. Se siete bellicosi, se volete combattere, serbate per quel giorno le vostre armi.

Non affrettate, non precipitate i conflitti. Signori, non basta ad ogni ora la sua pena, ad ogni giorno la sua angoscia, ad ogni mese la sua fatica? Quando sarà giunto il giorno della tribolazione, l’angoscia sarà tanta, che chiameremo fratelli anche coloro che sono nostri avversari politici; e allora voi vi pentirete, ma forse sarà troppo tardi, di aver chiamato nemici coloro che sono vostri fratelli.