Discorso sulla dittatura

Donoso CortesJuan Donoso Cortés,

Marchese di Valdegamas

Discorso pronunziato in Parlamento il 4 gennaio 1849 in difesa dei poteri straordinari concessi al generale Ramón Maria Narvàez (1800-1868), che, dopo l’insurrezione del 1848 a Madrid, Barcellona e Siviglia, affrontò con impegno ed energia la situazione e riuscì a riportare la calma nel Paese. Narvàez, che nel 1820 si era pronunciato in favore dei princìpi rivoluzionari e progressisti, fu, dal 1844 al 1866, salvo alcune interruzioni, a capo del governo spagnolo. Modificando in parte la linea del suo giovanile programma liberale, divenne uno dei maggiori uomini politici della Spagna ed il maggiore sostenitore della regina Isabella.

Signori,il lungo discorso pronunziato ieri dal signor Cortina (1) ed al quale ora rispondo, se lo consideriamo nella sua essenza e non per la sua lunghezza, non è che l’epilogo di tutti gli errori del partito progressista, i quali, a loro volta, non sono altro che l’epilogo di tutti gli errori che si sono accumulati da tre secoli a questa parte, e che oggi turbano più o meno tutte le società umane. Nel dare inizio al suo discorso, il signor Cortina, con la buona fede che lo distingue e che tanto innalza il suo ingegno, ha dichiarato che egli stesso, talvolta, era giunto a sospettare che i suoi princìpi potessero essere falsi e le sue idee disastrose, vedendo che mai erano al Potere ma sempre all’opposizione. Io gli dirò che, se rifletterà un poco, il suo dubbio diverrà certezza.

Le sue idee non sono al Potere ma all’opposizione proprio perché sono idee di opposizione e non di governo. Quelle idee, signori, sono infeconde, sterili, disastrose, ed è necessario combatterle finché non cadano sotterrate qui, nel loro sepolcro naturale, sotto questa volta, ai piedi di questa tribuna. Il signor Cortina, seguendo le tradizioni del partito che dirige e rappresenta, del partito della rivoluzione di febbraio, ha pronunziato un discorso diviso in tre parti, che io chiamerò inevitabili: nella prima ha fatto l’elogio del partito e dei suoi meriti passati, nella seconda l’elenco delle sue presenti difficoltà, e infine nella terza un programma, cioè una relazione dei suoi meriti futuri.

Signori della maggioranza, io sono qui per difendere i vostri princìpi, ma non aspettatevi da me alcun elogio, voi siete i vincitori, e nulla si addice di più alla fronte del vincitore che una corona di modestia. Non vi aspettate, signori, che io parli delle offese da voi patite; non dovete vendicare offese personali, ma soltanto quelle fatte alla società e al trono dai traditori della regina e della patria. Non parlerò nemmeno dei vostri meriti. A che scopo? Perché la nazione li conosca? La nazione li conosce benissimo. Il signor Cortina ha diviso il suo discorso in due parti: prima ha parlato della politica estera del governo, considerando politica estera importante per la Spagna gli avvenimenti di Parigi, di Londra, di Roma. Anch’io tratterò tali questioni.

Poi ha parlato di politica interna che, a suo parere, presenta due aspetti: l’uno riguarda i princìpi, l’altro i fatti, l’uno il sistema, l’altro la condotta. Sui fatti ha già risposto il ministero, che ne ha la competenza e gli elementi, per mezzo dei ministri del governo, i quali hanno adempiuto a questo incarico con l’eloquenza che li distingue. A me resta la questione quasi intoccata dei princìpi; tratterò solo questa, ma la tratterò, se l’Assemblea me lo permette, compiutamente. Signori, quale è il principio del signor Cortina? II seguente, mi sembra, se analizziamo bene il suo discorso: in politica interna la legalità, tutto per la legalità, la legalità sempre, in tutte le circostanze ed in tutti i casi.

Io, signori, che considero le leggi fatte per la società e non viceversa, vi dico: la società, tutto per la società, la società sempre, in tutte le circostanze, in ogni caso. Quando la legalità basta per salvare la società, sia la legalità, quando non basta, sia la dittatura. Signori, questa tremenda parola (tremenda, è vero, ma non quanto la parola rivoluzione, che è la peggiore di tutte) questa tremenda parola è stata qui pronunziata da un uomo che tutti conoscono e che certamente non ha lo stampo del dittatore.

Io posso comprendere i dittatori, ma certo non saprei imitarli. Due cose mi sono ugualmente impossibili, condannare la dittatura e professarla. Perciò (lo dichiaro qui ad alta voce, con tutta franchezza) sono incapace di governare, in coscienza non posso accettare il governo, non potrei farlo senza porre metà di me stesso contro l’altra metà, il mio istinto in conflitto con la mia ragione, la mia ragione con il mio istinto.

Perciò, signori, e chiamo a testimoni tutti quelli che mi conoscono, nessuno qui dentro, né fuori, può dichiarare di avermi mai incontrato sulla via dell’ambizione, così affollata. Ma tutti mi hanno incontrato e mi incontreranno sulla modesta via dei buoni cittadini. Solo così, alla fine dei miei giorni, potrò scendere nella tomba senza il rimorso di aver lasciata indifesa la società barbaramente attaccata, e allo stesso tempo senza l’amarissimo dolore, per me insopportabile, di aver nuociuto ad alcuno.

Dico, signori, che la dittatura, in certe circostanze, in circostanze come la presente, è un governo legittimo, buono, utile come qualsiasi altro; è un governo razionale, che può essere difeso in teoria come in pratica. Vediamo, signori, cos’è la vita sociale. La vita sociale, come la vita umana, si compone di azione e reazione, del flusso e riflusso di forze che invadono e di altre che resistono.

Questa è la vita sociale, questa è anche la vita umana. Le forze invadenti, chiamate malattie nel corpo umano e diversamente nel corpo sociale, pur essendo sostanzialmente la stessa cosa, si presentano sotto due aspetti: nell’uno tali forze sono diffuse per tutta la società, e sono rappresentate soltanto da individui.

Nell’altro, stato acutissimo di malattia, si concentrano sempre di più e sono rappresentate dalle associazioni politiche. Ebbene, io dico che, nel corpo umano come in quello sociale, se le forze resistenti hanno ragione di essere in quanto servono a respingere le forze invadenti, è necessario che le prime si adeguino a tale necessità.

Quando le forze invadenti sono sparse, anche quelle resistenti lo sono: lo sono per il governo, per le autorità, per i tribunali, insomma per tutto il corpo sociale; ma quando le forze invadenti si concentrano in associazioni politiche, allora, necessariamente, senza che nessuno possa impedirlo, senza che nessuno abbia il diritto di impedirlo, le forze resistenti da loro stesse si concentrano in una sola persona.

Ecco la teoria chiara, luminosa, indistruttibile, della dittatura. E questa teoria, signori, che è una verità nell’ordine razionale, è un fatto nell’ordine storico. Citatemi una società che non abbia avuto dittature. Osservate ciò che accadeva nella democratica Atene e nell’aristocratica Roma. Ad Atene il potere onnipotente era nelle mani del popolo, e si chiamava ostracismo; a Roma era nelle mani del Senato, che lo conferiva ad un console, e si chiamava, come da noi, dittatura. Osservate le società moderne, signori; guardate la Francia in tutte le sue vicende.

Non parlerò della prima repubblica, che fu una dittatura gigantesca, senza fine, piena di sangue e di orrori. Parlo dell’epoca posteriore. Nella Carta della Restaurazione la dittatura si era rifugiata o nascosta nell’art.14, nella Carta del 1830 la troviamo nel preambolo 2. E nella repubblica attuale? Non ne parliamo: cos’è mai, questa, se non una dittatura camuffata da repubblica? Il signor Galvez Canero (3) ha qui citato inopportunamente la Costituzione inglese.

Signori, la Costituzione inglese è proprio l’unica al mondo (tanto saggi sono gli Inglesi) in cui la dittatura non è di diritto eccezionale, bensì di diritto comune. È chiaro il perché: il Parlamento, in tutte le occasioni, in tutte le epoche, quando lo vuole, ha il potere dittatoriale, e quindi non ha altro limite che quello di tutti i poteri umani, la prudenza. Ha tutte le facoltà, e queste costituiscono il potere dittatoriale di fare qualsiasi cosa, meno quella, come dicono i giuristi, di trasformare una donna in uomo od un uomo in donna. Ha la facoltà di sospendere l’habeas corpus, di proscrivere per mezzo di un bill d’attainder; può cambiare la Costituzione, può cambiare non solo la dinastia, ma persino la religione ed opprimere le coscienze. In una parola può tutto.

Si è mai vista, signori, una dittatura più mostruosa?

Ho dimostrato che la dittatura è una verità nell’ordine teorico, un fatto nell’ordine storico. Ma ora dirò di più: se il rispetto lo consentisse, potremmo affermare che la dittatura è un fatto anche nell’ordine divino. Signori: Dio ha lasciato agli uomini, fino ad un certo limite, il governo delle società umane, ed ha riservato esclusivamente a sé il governo dell’universo. L’universo è governato da Dio costituzionalmente, se così può dirsi, e se a cose tanto alte possono adattarsi le espressioni del linguaggio parlamentare. La cosa mi sembra molto chiara e evidente.

L’universo è governato da alcune leggi precise, indispensabili, che sono chiamate cause secondarie. Queste leggi non sono analoghe a quelle che si chiamano fondamentali nelle società umane? Ebbene, signori, se rispetto al mondo fisico Dio è il legislatore, come rispetto alle società umane lo sono i legislatori, anche se in diversa maniera, governa forse Dio sempre con quelle medesime leggi che Egli stesso, nella sua eterna saggezza, si è imposto ed alle quali ha assoggettato tutti noi?

No, signori, perché alcune volte Egli, direttamente, chiaramente, esplicitamente, manifesta la sua volontà infrangendo quelle leggi che Egli stesso si impose, deviando così il corso naturale delle cose. Ebbene, signori, quando Egli opera così, non si potrebbe dire, applicando il linguaggio umano alle cose divine, che agisce dittatorialmente?

Ciò prova, signori, quanto grande sia il delirio di un partito che crede di poter governare, con mezzi minori di quelli di Dio, togliendo a se stesso il mezzo, a volte necessario, della dittatura. Stando così le cose, la questione, ridotta ai suoi veri termini, non consiste più nell’esaminare se la dittatura sia sostenibile, se in determinate circostanze sia buona, ma nel verificare se in Spagna tali circostanze siano presenti o già superate.

Questo è il punto più importante, sul quale ora mi soffermerò. Per far questo, ricalcando le orme di tutti gli oratori che mi hanno preceduto, dovrò gettare uno sguardo sull’Europa ed un altro sulla Spagna. Signori, la rivoluzione di febbraio (4) venne come viene la morte: improvvisamente. Dio aveva condannato la monarchia francese. Invano questa istituzione si era profondamente mutata per adattarsi alle circostanze ed ai tempi; nemmeno questo le servì, la sua condanna fu inappellabile, la sua rovina inevitabile.

La monarchia di diritto divino è terminata con Luigi XVI su un patibolo, la monarchia della gloria con Napoleone in un’isola, la monarchia ereditaria con Carlo X nell’esilio, con Luigi Filippo si è conclusa l’ultima monarchia possibile, quella della prudenza. È un triste e pietoso spettacolo vedere una istituzione venerabilissima, antichissima, gloriosissima, cui non valgono né il diritto divino, né la legittimità, né la saggezza, né la gloria.

Quando giunse in Spagna la notizia di questa grande rivoluzione, restammo tutti costernati ed attoniti. Nulla era paragonabile alla nostra costernazione ed al nostro stupore, se non lo stupore e la costernazione della monarchia vinta. Dico male: vi era un maggiore stupore, una costernazione più grande di quella della monarchia vinta: quella della repubblica vittoriosa.

Anzi, ancora adesso, e sono già passati dieci mesi dal suo trionfo, domandatele come vinse, perché vinse, con quali forze, ed essa non saprà cosa rispondere. Questo significa che la repubblica non vinse, ma fu strumento di vittoria di un potere più alto. Ma questo potere, signori, una volta iniziata la sua opera, come ebbe la forza di distruggere la monarchia per una parvenza di repubblica, così potrà distruggere la repubblica per una parvenza di impero, o per una parvenza di monarchia, se sarà necessario e conveniente per i suoi fini. Questa rivoluzione è stata oggetto di molti commenti sulle sue cause e sui suoi effetti, in tutti i parlamenti europei, ed anche in quello spagnolo.

Dovunque ho ammirato la deplorevole leggerezza con la quale si discute delle profonde cause delle rivoluzioni. Signori, qui come in altre parti, si attribuiscono le rivoluzioni solamente agli errori dei governi. Quando le catastrofi sono universali, impreviste, simultanee, sono sempre cosa provvidenziale perché non altri sono i caratteri che differenziano le opere di Dio da quelle degli uomini. Quando le rivoluzioni presentano questi sintomi, allora state certi che vengono dal cielo, per colpa per castigo di tutti. Signori, volete sapere la verità, tutta la verità, sulle cause dell’ultima rivoluzione francese?

Ebbene, la verità è che in febbraio giunse il giorno della resa dei conti di tutte le classi sociali con la Provvidenza, e tutte, in quel tremendo giorno, risultarono fallite. Sì, lo ripeto, in quel giorno tutte risultarono fallite. Dico di più, signori: la stessa repubblica, nel giorno della sua vittoria dichiarò il suo fallimento. La repubblica aveva detto di sé che veniva a portare nel mondo il dominio della libertà, della fraternità, dell’uguaglianza: tre dogmi che non provengono dalla repubblica, ma dal Calvario.

Ebbene, signori, che ha fatto, dopo? In nome della libertà, ha reso necessaria, ha proclamato, ha accettato la dittatura; in nome dell’uguaglianza, con il titolo di repubblicani della vigilia, di repubblicani del giorno dopo, di repubblicani dalla nascita, ha inventato non so che specie di democrazia aristocratica, non so che specie di ridicoli blasoni; infine, in nome della fraternità, ha restaurato la fraternità pagana, quella di Eteocle e Polinice, ed i fratelli si sono divorati tra loro per le strade di Parigi, nella più gigantesca battaglia che sia stata mai combattuta nei secoli tra le mura di una città.

Io contesto a questa repubblica il diritto di definirsi “delle tre verità”; essa è la repubblica delle tre bestemmie; la repubblica delle tre menzogne. Esaminiamo ora le origini di questa rivoluzione. Il partito progressista attribuisce ad ogni evento le stesse cause. Il signor Cortina ieri ci ha detto che vi sono rivoluzioni perché vi sono illegalità, e perché l’istinto dei popoli li fa insorgere in un modo spontaneo e uniforme contro i tiranni. Il signor Ordax Avecilla (5) ci aveva detto prima: “Volete evitare le rivoluzioni?

Date da mangiare agli affamati”. Ecco, dunque, la teoria del partito progressista in tutta la sua estensione: le cause della rivoluzione sono, da una parte la miseria, dall’altra la tirannia. Signori, questa teoria è contraria, totalmente contraria alla Storia. Io chiedo che mi si citi un esempio di una rivoluzione fatta e portata a compimento da popoli schiavi o affamati. Le rivoluzioni sono malattie dei popoli ricchi, dei popoli liberi.

Nel mondo antico la maggior parte del genere umano era composto di schiavi: ditemi quale rivoluzione fu fatta da questi schiavi. Tutt’al più essi riuscirono a fomentare alcune guerre servili, ma le profonde rivoluzioni furono sempre fatte da ricchissimi aristocratici. No, signori, il germe della rivoluzione non è nella schiavitù, non è nella miseria, ma nei desideri della folla, sovraeccitati dai tribuni, che la sfruttano e ne traggono vantaggi personali.

“E sarete come i ricchi”, ecco la formula delle rivoluzioni socialiste contro le classi medie. “E sarete come i nobili”, ecco la formula delle rivoluzioni delle classi medie contro le classi nobili. “E sarete come i re”, ecco la formula delle rivoluzioni delle classi nobili contro i re. Infine, signori, “e sarete come Dio”, ecco la formula della prima ribellione del primo uomo contro Dio.

Da Adamo, il primo ribelle, fino a Proudhon, l’ultimo empio, questa è la formula di tutte le rivoluzioni. Il governo spagnolo, com’era suo dovere, non volle che questa formula si applicasse in Spagna; e tanto meno lo volle, in quanto la situazione interna non era delle più lusinghiere, ed era necessario premunirsi contro tutte le eventualità, sia interne che esterne. Per poter agire diversamente sarebbe stato necessario aver ignorato completamente il potere di queste correnti magnetiche che si staccano dai focolai di infezione rivoluzionaria e vanno infettando il mondo.

La situazione interna, in poche parole, era questa: la questione politica non era, non è mai stata, non è ancora risolta; in società così eccitata dalle passioni le questioni politiche non possono risolversi tanto facilmente.

La questione dinastica non era conclusa perché, pur essendo noi i vincitori, non avevamo la rassegnazione del vinto, che è il complemento della vittoria. La questione religiosa era in uno stato pietoso, quella dei matrimoni, lo sapete bene, era esacerbata. Io vi domando, signori: supposto, come ho già dimostrato, che in date circostanze la dittatura sia legittima e utile, eravamo noi o no, in tali condizioni?

Se non vi eravamo, ditemi quali altre più gravi siano mai apparse nel mondo. L’esperienza ci ha dimostrato che i calcoli del governo e le previsioni di questa Camera non erano infondati. Ben lo sapete, signori, ed io l’accennerò appena, perché detesto alimentare passioni, non sono fatto per queste cose.

Tutti sapete che la repubblica fu proclamata a fucilate per le vie di Madrid; che parte delle guarnigioni di Madrid e di Siviglia furono comprate; che senza l’energica, attiva resistenza del Governo, tutta la Spagna, dalle colonne d’Ercole ai Pirenei, da un mare all’altro, sarebbe stata un lago di sangue (6). E non solo la Spagna. Sapete quali mali si sarebbero propagati nel mondo, se avesse trionfato la rivoluzione?

Ah, signori!, quando si pensa a tali cose è giocoforza riconoscere che il Ministero che seppe resistere e vincere fu davvero benemerito della Patria (7). Tale situazione venne a complicarsi con la questione inglese; prima di addentrarmi in questa (e dichiaro subito che ne parlerò brevemente, perché lo ritengo conveniente ed opportuno), il Parlamento mi permetterà di esporre alcune idee generali, alle quali mi sembra bene accennare.

Signori, io ho sempre creduto che la cecità sia un segno di perdizione, negli uomini, nei governi, nelle nazioni. Io credo che Dio comincia sempre con l’accecare chi vuol perdere, e affinché non veda l’abisso che pone ai suoi piedi, comincia con l’offuscargli le idee. Applicando queste idee alla politica generale seguita da alcuni anni dall’Inghilterra e dalla Francia, vi dirò che già da molto tempo io ho predetto grandi sventure e catastrofi.

È un fatto storico, accertato, incontrovertibile, che il compito dato dalla Provvidenza alla Francia è quello di essere il suo strumento per la propagazione delle nuove idee politiche, religiose, sociali. Nei tempi moderni tre grandi idee hanno invaso l’Europa: l’idea cattolica, l’idea filosofica, l’idea rivoluzionaria.

Ebbene, signori, in questi tre periodi la Francia si è sempre fatta uomo per propagare tali idee. Carlo Magno fu la Francia fatta uomo per propagare l’idea cattolica, Voltaire fu la Francia fatta uomo per propagare l’idea filosofica, Napoleone è stato la Francia fatta uomo per propagare l’idea rivoluzionaria. Allo stesso modo credo che l’incarico dato dalla Provvidenza all’Inghilterra sia quello di mantenere il giusto equilibrio morale del mondo, in contrasto perpetuo con la Francia.

La Francia è come il flusso del mare, l’Inghilterra il riflusso. Supponete per un momento il flusso senza il riflusso: il mare invaderebbe tutti i continenti. Supponete il riflusso senza il flusso: i mari sparirebbero dalla terra. Supponete la Francia senza l’Inghilterra: il mondo non si muoverebbe se non in mezzo a convulsioni; ogni giorno si avrebbe una nuova Costituzione, ogni ora una nuova forma di governo.

Immaginate l’Inghilterra senza la Francia: il mondo vegeterebbe ancora sotto la Carta del venerabile Giovanni senza Terra, che è il tipo permanente di tutte le Costituzioni britanniche. Che significa, quindi, la coesistenza di queste due potenti nazioni? Significa il progresso limitato dalla stabilità, la stabilità vivificata dal progresso.

Ebbene, signori : da alcuni anni a questa parte, mi appello alla storia contemporanea ed ai vostri ricordi, queste due grandi nazioni hanno perso la memoria del loro passato e della loro missione provvidenziale. La Francia, invece di spargere per il mondo idee nuove, predicò ovunque lo statu quo, in Francia, in Spagna, in Italia, in Oriente.

E l’Inghilterra, invece di predicare la stabilità, predicò ovunque la rivolta; in Spagna, in Portogallo, in Francia, in Italia, in Grecia. E che ne derivò? La naturale conseguenza: che le due nazioni, assumendosi una parte che non era mai stata loro, l’hanno fatta malissimo.

La Francia volle convertirsi da diavolo in frate, l’Inghilterra da frate in diavolo. Questa è, signori, la storia contemporanea. Ma trattando solo dell’Inghilterra, perché di essa mi propongo di parlare brevemente, dirò che io prego il cielo che non calino su di essa, come sono calate sulla Francia, le catastrofi che ha meritato per i suoi errori; poiché non v’è errore paragonabile a quello dell’Inghilterra, di appoggiare completamente i partiti rivoluzionari. Sventurata!

Non sa che nel giorno del pericolo questi partiti, che hanno un istinto maggiore del suo, le volteranno le spalle? Non è già accaduto, ciò? E doveva accadere, perché tutti i rivoluzionari sanno che quando le rivoluzioni stanno per scoppiare, quando le nuvole si addensano e gli orizzonti si incupiscono, quando le onde si gonfiano, il vascello della rivoluzione non ha altro pilota che la Francia.

Signori, questa fu la politica seguita dall’Inghilterra, o, per meglio dire, dal suo governo e dai suoi rappresentanti negli ultimi tempi. Ho detto e ripeto che non voglio trattare tale questione, ma vi sono spinto da gravi considerazioni. Primo, dalla considerazione del bene pubblico, perché devo qui dichiarare solennemente che desidero l’alleanza più intima, l’unione più completa, fra la nazione spagnola e quella inglese, che ammiro e rispetto come la nazione forse più libera, più forte e più degna di essere tale sulla terra. Non vorrei poi con le mie parole esacerbare tale questione, e tanto meno pregiudicare o ostacolare futuri negoziati.

Un’altra considerazione mi trattiene dal parlare su tale argomento: per farlo dovrei parlare di un uomo di cui fui amico, più amico che il signor Cortina. Ma non posso aiutarlo come ha fatto il signor Cortina, la mia coscienza non mi permette di aiutarlo se non con il silenzio (8). Il signor Cortina, nel trattare tale questione (mi permetta di dirglielo con franchezza) fu preso da una specie di deliquio, e dimenticò chi era, dove era e a chi parlava.

Credette di essere un avvocato, mentre era un oratore del Parlamento. Credette di parlare ai giudici, ed invece parlava ai deputati; credette di parlare in un tribunale, ed invece parlava ad una Assemblea deliberante; credette di parlare di una vertenza giudiziaria mentre parlava di un argomento politico grande, nazionale, che se anche era una vertenza, lo era fra due nazioni.

Ebbene, signori: spettava al signor Cortina assumere la difesa della parte avversa alla nazione spagnola? Ma, signori, è forse questo patriottismo? Ah, no! sapete cosa vuol dire essere patriota? Significare amare, aborrire, sentire come ama, aborre e sente la nostra Patria. Dissi che appena avrei accennato a tale questione, e così ho fatto. Ma né le circostanze interne, che erano tanto gravi, né quelle esterne, così complicate e pericolose, sono sufficienti a far mutare l’opinione dei signori che siedono nei banchi dell’opposizione. “E la libertà? – ci dicono, – la libertà non deve porsi al di sopra di ogni cosa? La libertà, perlomeno quella individuale, non è stata sacrificata?”.

La libertà, signori! Coloro che pronunziano questa sacra parola sanno il principio che proclamano, la parola che pronunziano? Conoscono i tempi in cui vivono? Non è giunto sino a voi, signori, l’eco delle ultime catastrofi? Non sapete che ormai la libertà è morta? Non avete assistito, come ho assistito io, con gli occhi del mio spirito, alla sua dolorosa passione? Non l’avete vista insultata, martoriata, colpita a tradimento dai demagoghi di tutto il mondo? Non l’avete vista trascinare il suo dolore per le montagne della Svizzera, sulle sponde della Senna, sulle rive del Reno e del Danubio, sugli argini del Tevere? Non l’avete vista salire al Quirinale, che fu il suo Calvario?

Signori, la parola è tremenda, ma non dobbiamo esitare nel pronunziare parole tremende se esse non affermano che la verità, ed io sono deciso a dirla. La libertà è morta, ed essa non risusciterà né al terzo giorno, né al terzo anno, forse neppure al terzo secolo. Vi spaventa la tirannide che sopportiamo? Vi spaventate per poco, perché vedrete cose peggiori. Ora vi prego, signori, di non dimenticare le mie parole, perché ciò che sto per dire, gli avvenimenti che annuncerò, di un futuro più o meno prossimo, ma comunque non troppo lontano, si compiranno alla lettera.

La base di tutti i vostri errori, signori dell’opposizione, consiste nell’ignorare quale è la direzione della civiltà e del mondo. Voi credete che la civiltà ed il mondo avanzino, quando invece sia l’una che l’altro retrocedono. Il mondo cammina con passi rapidissimi alla costituzione di un despotismo, il più gigantesco ed assoluto che sia mai esistito a memoria d’uomo. Verso tale traguardo cammina la civiltà, cammina il mondo.

Per annunciare tali cose non mi è necessario esser profeta; mi basta considerare il pauroso insieme degli avvenimenti umani dal loro unico, vero punto di vista, dall’altezza cattolica. Signori, non vi sono che due forze possibili, una interna, l’altra esterna, una religiosa, l’altra politica. Sono di natura tale che quando il termometro religioso sale, quello politico scende; quando il termometro religioso è basso, la temperatura politica, la forza politica, la tirannia salgono. Questa è una legge dell’umanità, della storia.

Guardate, signori, cosa era il mondo, cosa era la società prima che venisse la Croce, quando non vi era forza interna, quando non vi era forza religiosa. Era una società di tirannia e di schiavitù. Citatemi un solo popolo di quell’epoca in cui non vi fossero schiavi, in cui non vi fossero tiranni. Questo è un fatto innegabile, incontrastabile, evidente; la libertà, la libertà vera, quella di tutti e per tutti, nacque solo con il Salvatore del mondo. Anche questo è un fatto incontestabile, riconosciuto dagli stessi socialisti, che lo ammettono.

I socialisti chiamano Gesù uomo divino, anzi, fanno di più, si ritengono suoi continuatori. Santo Iddio, suoi continuatori! Essi, uomini di sangue e di vendette, continuatori di Colui che nacque solo per fare il bene, di Colui che parlò solo per benedire, di Colui che compì miracoli solo per liberare i peccatori dal peccato, i morti dalla morte, di Colui che nello spazio di tre anni fece la più grande rivoluzione di tutti i secoli, e la portò a compimento senza spargere altro sangue che il suo!

Signori, vi prego di prestarmi attenzione, perché sto per esporvi il confronto più grande che la storia ci offra. Voi avete visto che nel mondo antico, quando la forza religiosa non poteva scendere più in basso perché non esisteva, la forza politica salì al massimo, cioè fino alla tirannia. Ebbene, con Gesù Cristo, da cui nasce la forza religiosa, sparisce completamente la forza politica.

Ciò è tanto certo che la società fondata da Gesù Cristo con i suoi discepoli fu l’unica che non ebbe un governo. Tra Gesù e i suoi discepoli non v’era altro governo che l’amore reciproco del Maestro e dei discepoli. Vale a dire che quando la forza interna era più salda, allora la libertà era assoluta.

Continuiamo il raffronto. Giungono i tempi apostolici, che io estenderò, perché così ora conviene al mio argomento, dai tempi apostolici propriamente detti fino all’ascesa del Cristianesimo in Campidoglio, al tempo di Costantino il Grande. In questo periodo la religione cristiana, cioè la forza religiosa interna, era al suo apogeo; eppure, nonostante ciò, avviene quello che accade in tutte le società composte di uomini; comincia a svilupparsi un germe, nulla più che un germe di licenza e libertà religiosa.

Orbene, signori, osservate cosa accade: a questo principio di discesa nel termometro religioso corrisponde un principio di salita nel termometro politico. Il governo ancora non esiste, non è ancora indispensabile, ma è già necessario un embrione di governo. Così nella società cristiana non v’erano di fatto veri magistrati, ma giudici arbitri e conciliatori, che sono l’embrione del governo. In effetti non v’era altro che questo: i cristiani dei tempi apostolici non avevano cause, non ricorrevano ai tribunali, ma componevano le loro vertenze per mezzo di arbitri.

Osservate, signori, come con la corruzione il governo vada crescendo d’importanza. Giungono i tempi feudali: la religione è ancora al suo apogeo, ma già in parte viziata dalle passioni umane. Cosa accade allora nel mondo politico? Si rende necessario un governo reale ed effettivo, ma è sufficiente il più debole di tutti; così si istituisce la monarchia feudale, la più debole di tutte le monarchie.

Continuiamo ancora il confronto. Giunge il XVI secolo, e con esso la grande riforma luterana, questo grande scandalo politico, sociale e religioso. Con questo atto di emancipazione intellettuale e morale dei popoli, coincidono le seguenti istituzioni: innanzi tutto, d’un tratto, le monarchie da feudali diventano assolute.

Voi credete, signori, che una monarchia più che assoluta non possa essere; che può essere, un governo, più che assoluto? Ma era necessario che il termometro della forza politica salisse di più, perché il termometro religioso continuava a scendere. E così avvenne. Quale nuova istituzione fu creata? Quella degli eserciti permanenti. Sapete, signori, cosa sono gli eserciti permanenti? Per saperlo basta conoscere che cosa è un soldato: egli è uno schiavo in uniforme.

Così vedete che, nel momento in cui la forza religiosa scende, quella politica sale fino all’assolutismo e va ancora oltre. Ai governi non bastava l’assolutismo, chiesero ed ottennero il privilegio di essere assoluti e di avere un milione di braccia. Ciononostante, signori, era necessario che il termometro politico salisse ancora di più, perché il termometro religioso continuava a scendere: e salì ancora.

Quale nuova istituzione fu creata allora? I governi dichiararono: “Abbiamo un milione di braccia, ma non ci bastano; abbiamo bisogno di un milione di occhi”. E crearono la polizia, e con questa un milione di occhi. Ma il termometro e la forza politica dovevano ancora salire, perché nonostante tutto il termometro religioso continuava a calare. E così avvenne.

Ai governi, signori, non bastò avere un milione di braccia, non bastò un milione di occhi; vollero pure un milione di orecchie, e le ebbero con la centralizzazione amministrativa, con la quale giungono al Governo tutti i reclami e tutte le lagnanze. Ebbene, signori, ciò non bastò, perché il termometro religioso continuava a scendere, ed era perciò necessario che quello politico salisse…

Ebbene, salì ancora! I governi dissero: “Per imporci non sono sufficienti né un milione di braccia, né un milione di occhi, né un milione di orecchie. Abbiamo bisogno di più: del privilegio di trovarci contemporaneamente in tutte le parti”. E l’ottennero, perché fu creato il telegrafo. Tale era lo stato dell’Europa e del mondo, quando il primo scoppio dell’ultima rivoluzione venne ad annunciarci che nel mondo non vi era ancora abbastanza dispotismo, perché il termometro religioso era ormai sottozero.

Orbene, signori, delle due l’una… Ho promesso di parlare francamente e lo farò. Dunque, delle due l’una: o la reazione religiosa viene, oppure no; se viene, vedrete come, risalendo il termometro religioso, comincerà a scendere, naturalmente, spontaneamente, senza alcuno sforzo da parte dei governi, né dei popoli, né degli uomini, il termometro politico, fino a segnare il giorno felice della libertà dei popoli.

Ma se al contrario, signori (e ciò è grave), non vi sarà chi richiamerà l’attenzione delle assemblee deliberanti su tali questioni, come oggi ho fatto io (ma la gravità degli avvenimenti me lo ha imposto, e di ciò chiedo scusa alla vostra benevolenza); ebbene, signori, io affermo che se il termometro religioso continua a scendere, non so dove potremo arrivare. Non lo so, signori, e tremo al pensarci.

Osservate le analogie che vi ho prospettate: se non era necessario alcun governo quando la forza religiosa era al suo apogeo, così non sarà sufficiente alcuna specie di governo quando essa non esisterà più, perché qualsiasi forma di despotismo sarà poca cosa. Questo è mettere il dito sulla piaga; questo è il problema della Spagna, dell’Europa, il problema dell’Umanità, del mondo. Considerate una cosa, signori.

Nel mondo antico la tirannide fu feroce, devastatrice, e tuttavia era limitata, perché tutti gli Stati erano piccoli, e perché le relazioni internazionali erano impossibili: di conseguenza nell’antichità poté esserci una sola, grande tirannide, quella di Roma. Ma ora, come sono mutate le cose! La via è preparata per un tiranno gigantesco, colossale, universale, immenso; tutto è preparato per lui.

Guardate, signori, già non vi sono resistenze fisiche, perché con le navi e con le ferrovie non esistono più frontiere e con il telegrafo si sono annullate le distanze; e non vi sono resistenze morali, perché tutti gli animi sono divisi e tutti i patriottismi sono morti. Ditemi quindi se ho ragione o no quando mi preoccupo del prossimo avvenire del mondo; ditemi se, parlando di questo problema, non parlo del vero problema. C’è un solo modo per evitare la catastrofe, uno soltanto: non concedere altre libertà, altre garanzie, altre costituzioni, ma cercare tutti, fino al massimo delle nostre forze, di provocare una reazione salutare, religiosa.

È possibile questa reazione? Sì, lo è. Ma è probabile? Signori, vi parlo con la più profonda tristezza: io non la credo possibile. Ho visto e conosciuto uomini che si erano allontanati dalla fede e che vi sono tornati; ma, sventuratamente, non ho mai visto un popolo tornare alla fede dopo averla perduta.

Se pure mi fosse rimasta qualche speranza, mi sarebbe venuta meno con gli ultimi fatti romani; ora dirò due parole su questa questione, di cui ha parlato anche il signor Cortina. Signori, i fatti di Roma non hanno un nome. Come li chiamereste? Deplorevoli? Tutti quelli che ho già citati sono deplorevoli, ma questi lo sono molto di più. Li chiamereste orribili? Quegli avvenimenti superano ogni orrore.

Vi era in Roma, ed ora non più, sul trono più elevato, l’uomo più giusto, più evangelico della terra. Cosa ha fatto Roma di questo uomo evangelico e giusto? Che ha fatto quella città, sulla quale hanno dominato gli eroi, i Cesari, i Pontefici? Ha barattato il trono dei pontefici con quello dei demagoghi. Ribelle a Dio, è caduta sotto l’idolatria del pugnale, questo ha fatto (9).

Il pugnale, signori, il pugnale demagogico, il pugnale insanguinato. Questo è oggi l’idolo di Roma. Questo è l’idolo che ha rovesciato Pio IX. Questo è l’idolo che turbe di selvaggi trascinano per Roma. Ho detto selvaggi? Ho detto poco, perché i selvaggi sono feroci ma non ingrati. Signori, mi sono proposto di parlare con tutta franchezza, e lo farò.

È necessario che il re di Roma torni al suo trono, o che di Roma, comunque la pensi il signor Cortina, non resti pietra su pietra. Il mondo cattolico non può consentire e non consentirà alla virtuale distruzione del Cristianesimo a causa di una sola città, presa dal turbine della pazzia. L’Europa civile non può consentire, e non consentirà mai che la cupola dell’edificio della libertà europea precipiti.

Il mondo, signori, non può consentire, e non consentirà mai che in Roma, nella città santa, si veda salire al trono una nuova, strana dinastia, quella del crimine. E non si dica, come fa il signor Cortina, e come dicono nei giornali e nei discorsi quei signori che siedono nei banchi della sinistra, che a Roma vi sono due questioni, una temporale, e l’altra spirituale; che lo scontro è stato tra il re temporale e il suo popolo e che il Pontefice siede ancora sul suo trono.

Due parole, signori, due sole parole e la questione sarà chiarita. Senza alcun dubbio il principale potere del Papa è quello spirituale, il temporale è accessorio; ma questo accessorio è necessario. Il mondo cattolico ha il diritto di esigere che l’infallibile oracolo dei suoi dogmi sia libero e indipendente; il mondo cattolico non può avere una scienza certa, come gli è necessario, se Colui che è indipendente e libero non è pure sovrano, perché solo il sovrano non dipende da alcuno.

Per conseguenza, signori, la questione della sovranità, che dappertutto è una questione politica, in Roma è anche una questione religiosa; il popolo, che ovunque può essere sovrano, non può esserlo in Roma; le assemblee costituenti, che possono esistere in ogni parte, non possono esistere in Roma; a Roma non ci può essere altro potere costituente se non quello già costituito.

Roma e gli Stati Pontifici non appartengono a Roma, signori, non appartengono al Papa, ma al mondo cattolico, che li ha riconosciuti al Papa perché fosse libero e indipendente; lo stesso Papa non può spogliarsi di questa sovranità, di questa indipendenza. Concludo, signori, perché l’Assemblea è molto stanca e anch’io lo sono.

Vi dico francamente che non posso dilungarmi di più, perché ho male alla bocca, ed è già molto che abbia potuto parlare; ma le cose principali che dovevo dire le ho già dette. Dopo aver trattato le tre questioni esterne, delle quali parlò il signor Cortina, torno, per concludere, a quelle interne. Dal principio del mondo fino ad ora si è discusso se convenisse di più, per evitare le rivoluzioni e i torbidi, il sistema della resistenza o quello delle concessioni.

Ma, fortunatamente, questo, che dal primo anno della creazione fino al 1848 è stato un problema, oggi è superato. Se il male che sento in bocca me lo permettesse, farei una rassegna di tutti gli avvenimenti dal febbraio ad oggi che provano questa mia asserzione: ma mi accontenterò di ricordarne due.

In Francia la monarchia, che non resistette, fu vinta dalla repubblica, che appena aveva forza per muoversi: e la repubblica, che appena aveva forza per muoversi, vinse il socialismo perché resistette. A Roma, che è l’altro esempio cui voglio accennare, che cosa è accaduto? Non era lì il vostro modello? Ditemi, se foste pittori e voleste dipingere il modello di un re, chi mai scegliereste se non Pio IX? Signori, Pio IX volle essere, come il suo divino Maestro, magnifico e liberale; tese la mano agli esuli e li rese alla loro patria; ai riformisti dette riforme, ai liberali la libertà; ogni sua parola fu un beneficio. Ed ora ditemi, signori, i suoi benefici non sono stati uguagliati, se non superati, dalle loro ignominie? Visto ciò, non è da considerare superato il sistema delle concessioni?

Signori, se qui si trattasse di scegliere tra la libertà, da un lato, e la dittatura dall’altro, non vi sarebbe alcun dissenso; chi, potendo abbracciare la libertà, si inginocchierebbe dinanzi alla dittatura? Ma non è questo il problema. La libertà non esiste di fatto in Europa; i governi costituzionali, che negli anni addietro la rappresentavano, non sono ormai, quasi dappertutto, che uno spettro, uno scheletro senza vita.

Ricordate una cosa, ricordate Roma imperiale. In essa esistevano tutte le istituzioni repubblicane: esistevano i dittatori onnipotenti, i tribuni inviolabili, le famiglie senatorie, i consoli eminenti. Tutto ciò esisteva, ma una sola cosa mancava: la repubblica. Così sono, in quasi tutta l’Europa, i governi costituzionali; e l’altro giorno senza pensarlo, senza saperlo, il signor Cortina ce lo ha dimostrato. Non ci ha detto, e con ragione, che preferiva ciò che dice la storia a ciò che dicono le teorie?

Ebbene, mi appello alla storia. Cosa sono, signor Cortina, quei governi con le loro legittime maggioranze, vinti sempre dalle turbolente minoranze? Con i loro ministri responsabili che non rispondono di nulla, con i loro re inviolabili sempre violati? Così, signori, come ho detto prima, la questione non è tra la libertà e la dittatura: se fosse così, io voterei per la libertà, come tutti voi.

Ma la questione è diversa, si tratta di scegliere tra la dittatura dell’insurrezione e quella del governo: in questo caso scelgo la dittatura del governo, come la meno pesante e ingiuriosa. Si tratta di scegliere tra la dittatura che viene dall’alto e quella che viene dal basso; io scelgo quella che viene dall’alto perché viene da regioni più limpide e serene; si tratta di scegliere, insomma, tra la dittatura del pugnale e quella della spada: scelgo questa, perché più nobile. Signori, nel votare saremo divisi e conseguenti a noi stessi. Voi, come sempre, voterete per ciò che è più popolare; noi, come sempre, per ciò che è più salutare.

NOTE

(1) Manuel Cortina y Arenzana (1802-1879) giureconsulto e uomo politico liberale, fu partigiano del generale Espartero. Ministro degli Interni nel 1840, fu arrestato ed esiliato nel 1843 all’avvento al potere del generale Narvàez. Nel 1846 tornò in patria e pronunciò alla Camera eloquenti discorsi contro il governo Narvàez.
(2). Nell’art.14 della Carta della Restaurazione, del 4 giugno 1814, si legge: ” Le Roi est le chef suprème de l’État, commande les forces de terre et de mer, déclare la guerre, fait les traités de paix, d’alliance et de commerce, nomme a tous les emplois d’administration publique, et fait les règlementes et ordonnances nécessaires pour l’exécution des lois et la sùreté de l’État”. Il preambolo della Carta costituzionale del 6 agosto 1830 afferma; “Louis Philippe, Roi des Francois, a tous présent et a venir, Salut. Nous avons ordonné et ordonnons que la Charte constitutionnelle 1814, telle qu’elle a été amendée per les deux Chambres le 7 aoùt et acceptée par nous le 9, sera de nouveau publiée dans les termes suivants”.
(3) Teodoro Galvez Canero (1775-1858) generale spagnolo, partecipò attivamente alle guerre di indipendenza e si distinse alla difesa di Cadice.
(4) In seguito alla politica conservatrice promossa dal Guizot, tendente a favorire gli interessi della borghesia capitalistica, ed al sopraggiungere di una crisi economica, nel 1847 si riacutizzarono in Francia i contrasti politici e sociali. L’agitazione, condotta dai gruppi democratici d’opposizione, a capo dei quali troviamo il Thiers, il Lamartine e Louis Blanc, costrinse, il 22 febbraio 1848, il gabinetto Guizot a dimettersi, mentre a Parigi aveva inizio una vera e propria insurrezione armata. Luigi Filippo abbandonava precipitosamente la Capitale, mentre veniva proclamata la II Repubblica, che si trovava costretta ad affrontare la nuova e minacciosa “questione sociale”, resa più acuta dalla grave crisi economica, che i frettolosi e confusi provvedimenti, adottati dal governo provvisorio (coalizione democratico-socialista) in favore delle masse lavoratrici, rese ancora più acuta. Il 23 aprile 1848, le elezioni diedero la maggioranza ai repubblicani moderati del Ledru-Rollin e del Lamartine e videro soccombere le correnti radicali e socialiste del Blanc e del Raspail.
(5) José Ordax Avecilla (1813-1856) giornalista e uomo politico liberale.
(6) Sulla scia della rivoluzione di Parigi, anche in Ispagna si verificarono, nel 1848, moti insurrezionali, principalmente a Madrid, Barcellona e Siviglia, e che assunsero, in alcune provincie, anche carattere “carlista”. Grazie alla energica reazione del governo, presieduto dal Narvàez, i moti furono ben presto repressi e fu ristabilita la calma nel Paese.
(7) J. Donoso Cortes allude al fermo atteggiamento assunto dal generale Narvàez di fronte ai moti rivoluzionari spagnoli del 1848.
(8) Allude all’ambasciatore inglese Sir Henry Lytton-Bulwer il quale, sospettato di aver favorito la rivolta militare del maggio 1847, fu invitato dal generale Narvàez a lasciare la Spagna.
(9) Molto probabilmente, Juan Donoso Cortes allude all’assassinio di Pellegrino Rossi (1787-1848), ministro di Pio IX, dopo essere stato ambasciatore di Luigi Filippo presso la Curia Romana, fino al crollo della Monarchia di luglio. Il Rossi, che aveva dato inizio a riforme amministrative e finanziarie e che intendeva dare allo Stato Pontificio forza ed autorità, fu ucciso a pugnalate il 15 novembre 1848. A causa delle violenze che seguirono, Pio IX lasciò Roma il 24 novembre, per rifugiarsi a Gaeta. II governo democratico, in seguito formatosi, proclamò, il 9 febbraio 1849, la Repubblica e la decadenza del potere temporale dei Papi. La repubblica romana visse pochi mesi, sino al luglio 1849, allorché avvenne la restaurazione del potere pontificio grazie all’intervento militare francese promosso da Luigi Napoleone Bonaparte che intendeva, con tale gesto, accattivarsi le simpatie delle masse cattoliche del suo Paese.