Viet Nam: l’altra faccia della medaglia (*)

vietnam_armytratto da © L’esperimento comunista, Ed. Ares, Milano 1991, pp. 107-19

di Eugenio Corti

Dai drammatici rapporti che giungono dal Viet Nam, dove giorno per giorno la situazione si modifica, apprendiamo che le truppe del Sud riescono sempre meno a tenere il loro fronte di difesa: il quale protegge ormai solo uno spazio ristretto, comprendente la capitale e le ultime risaie, quelle del delta del Mekong. Ciò a causa della grande sproporzione tra le forze in campo: “Venticinque divisioni nordvietnamite, senza contare i vietcong, contro sette divisioni del Sud” come ci informa il Corriere della sera.

Sapere quale percentuale della popolazione del Sud si sia rifugiata in quell’ultimo spazio difeso, non è possibile. Si può d’altra parte prevedere che il numero di tali persone – le quali fanno pensare a pesci che vanno a cercare rifugio nel fondo della rete, e vi s’infiltrano – per poco che il fronte tenga, andrà aumentando; anche se a ciò ostano sia la densità delle forze armate comuniste attaccanti (che, come sappiamo, sparano sui profughi per farli tornare indietro), sia gli appositi sbarramenti predisposti dietro le proprie linee dallo stesso governo del Sud.

Egisto Corradi de Il giornale nuovo di tali sbarramenti in filo spinato e cavalli di Frisia sulla strada che da Saigon conduce a Xuan Loc ne ha incontrati, nel suo ultimo viaggio verso il fronte, sei. Ecco come egli descrive i profughi visti sulla strada: “Qualcuno in bicicletta, qualche altro in motorino, altri stipati a grappoli su ciclomotori a tre ruote, altri ancora aggrappati su motocoltivatrici o su carri con le ruote di legno pieno; tirati da pesanti buoi.

Ma i più vengono avanti a piedi, con i cesti delle bilancelle che reggono sulle spalle occupati da bambini, pentole, teiere di latta, sacchetti di riso, misere cose… Tutti dicono che vorrebbero recarsi a Saigon”.

Una parte dei profughi visti da Corradì era costituita da cattolici in quanto, procedendo verso il fronte, egli ha poi incontrato “modeste case e modeste chiese. Sui cancelli si vedono spesso crocifissi. Questa è una zona di profughi cattolici fuggiti dal Nord Viet Nam nel 1954. Si va avanti per chilometri tra povere case di legno sulle quali si ergono crocifissi…”

I precedenti del conflitto

Il richiamo a quel primo ormai lontano esodo in massa dal Nord, ci riporta alle precedenti vicende di questo infelice popolo, che occorre riassumere almeno per grandi linee, se si vuole capire ciò che sta ora verificandosi.

Nel 1946, come è noto, il fronte della guerriglia antifrancese in Viet Nam si è spezzato sul problema se dovesse esistere un unico comando politico e militare in mano ai comunisti – come appunto i comunisti pretendevano – oppure una pluralità sia politica che di forze armate. Tra i comunisti e gli altri si arrivò a scontri armati, finché i non comunisti s’intimorirono a tal punto del crescente prevalere comunista, da schierarsi addirittura con gli avversari francesi, contro i quali avevano fino allora combattuto.

Nel 1954, in seguito alla pace di Ginevra, che segnò l’abbandono dell’Indocina da parte dei francesi, il territorio del Viet Nam fu provvisoriamente diviso in due al diciassettesimo parallelo: erano previste per il giugno ’56 “elezioni generali libere e democratiche” aventi come scopo la riunificazione del paese. Frattanto erano consentiti spostamenti di popolazioni tra il Nord (in mano comunista) e il Sud (in mano ai non comunisti) e viceversa.

Fu appunto questo che consenti nel ’54-’55 il grande esodo di un milione e centomila non comunisti (in maggioranza cattolici) dal Nord verso il Sud. L’esodo sarebbe stato di proporzioni maggiori, se le forze armate comuniste non fossero intervenute a troncarlo con la forza. Spostamenti di popolazioni verso il Nord non se ne verificarono.

Nel 1956 le elezioni non vennero tenute, in quanto il Nord – tra l’altro più popoloso – aveva nel frattempo “scelto il socialismo”, e nello stesso Sud – per dichiarazione dei suoi governanti di allora – c’erano in molti luoghi formazioni armate comuniste che le avrebbero influenzate. (Viene spontaneo, per noi italiani pensare a Giacomo Matteotti il quale, come si sa fu assassinato proprio perché si opponeva alle elezioni non libere che i fascisti volevano tenere nel 1924, e che in effetti tennero e stravinsero.

Certo nel Sud Viet Nam i vietcong non erano totalmente padroni della situazione come i fascisti in Italia, ma le testimonianze concordano nel dire che, a quel tempo, essi dove potevano giungere, uccidevano implacabilmente i capi villaggio, i maestri elementari, e insomma ogni pur piccolo funzionario fedele al governo; è da allora che le popolazioni cominciarono a essere raccolte nei cosidetti ‘villaggi fortificati’.) Non essendosi tenute le elezioni, la lotta armata riprese.

Nel giugno ’63 il presidente Kennedy inviò nel paese le prime truppe americane in appoggio a quelle del Sud. Le vicende successive sono note: a dieci anni di distanza, nel marzo ’73, dopo gli accordi di Parigi, gli ultimi reparti armati americani hanno lasciato il paese, mentre il conflitto si è nuovamente ‘vietnamizzato’.

Anche gli accordi di Parigi – che avevano, come vero fine di consentire agli americani lo sganciamento dall’Indocina salvando un minimo di faccia – prevedevano elezioni pluralistiche, ma soltanto nel Sud (nel Nord ‘socialista’ venivano ovviamente considerate inconcepibili): tali elezioni avrebbero dovuto portare a un governo formato da nazionalisti, comunisti e neutralisti; in un secondo tempo si sarebbe dovuti giungere alla riunificazione del paese mediante accordi tra questo governo e quello del Nord… In pratica tra Nord e Sud non si arrivò mai neppure alla cessazione delle ostilità, neanche per un giorno.

Perché i civili fuggono al Sud?

Perché i civili da anni – e tanto più ultimamente – abbandonano case, campi e ogni loro povero avere, e fuggono in massa verso le ultime zone difese dall’esercito del Sud, anziché attendere l’arrivo dei comunisti?

Pietro Gheddo, direttore di una rivista missionaria milanese (è il maggior studioso italiano del mondo vietnamita, sul quale ha scritto anche dei libri molto letti nello stesso Viet Nam), riferisce: “Nel viaggio che ho fatto nel dicembre ’73 ho potuto visitare numerosi campi di profughi e ovunque ho sentito la stessa storia: gente che era scappata da villaggi e città della zona vietcong dopo uno, due, tre anni di vita sotto quel regime; tutti ripetevano che la vita era durissima, il controllo politico soffocante, l’eliminazione degli avversari politici sicura, la libertà religiosa quasi inesistente”.

Anche tra i militari nordvietnamiti e vietcong prigionieri, quando Thieu, in base agli accordi di Parigi “voleva consegnarli ai vietcong, molti non volevano assolutamente acconsentire”. Ancora: “Un padre di sette figli fuggito dopo alcuni anni di esperienza comunista, mi diceva: ‘La vita è impossibile: controlli continui, lavoro gratuito per l’esercito nordvietnamita, tutto è proprietà dello stato, una serie di divieti che soffocano, lunghe serate di riunioni politiche in cui bisogna fare l’autocritica e accusare gli altri… Sì instaura un clima di terrore, quelli che osano protestare, o anche solo fare domande indiscrete, scompaiono senza lasciare traccia. Dopo qualche mese la gente non pensa che a scappare a qualunque costo'”. É il noto quadro del comunismo staliniano.

Sempre nel dicembre ’73 Gheddo ha visitato Hué, dove un sacerdote cattolico (di cui taciamo il nome, perché ora la città è nuovamente in mano comunista) gli ha detto: “Prima del 1968 la città di Hué era la più contraria a Thieu e la più favorevole a un dialogo col F.L.N. Poi siamo rimasti una ventina di giorni ‘liberati’ dai vietcong e dai nordvietnamiti durante l’offensiva del Tet del febbraio-marzo 1968.

In quell’occasione i comunisti fecero di tutto per alienarsi le simpatie della gente, fino a compiere massacri di civili – 3.000 cadaveri scoperti nelle fosse comuni – mai visti in precedenza. Dopo di allora, anche i capi dei movimenti studenteschi dell’università, che si erano pronunziati in favore d’un regime socialista, dichiararono che preferivano una dittatura nazionalista a una dittatura comunista”.

Sempre a Hué un altro religioso, il gesuita padre Urrutia, direttore del centro studentesco cattolico, gli riferì che in seguito a quell’esperienza del ’68, quando nel ’72 i comunisti, durante una nuova offensiva, giunsero a circa quaranta chilometri dalla città “Hué si svuotò quasi completamente dei suoi abitanti: fuggirono tutti verso il Sud, verso Danang, e tornarono solo mesi dopo, quando ogni pericolo era scomparso.

In città non era rimasto che il 10% dei suoi trecentomila abitanti… All’ospedale su trenta medici ne rimasero tre, tutti stranieri. L’università si svuotò completamente, gli uffici e le fabbriche erano deserti, di bonzi non c’era più traccia. Siamo rimasti, con l’Arcivescovo, una ventina di sacerdoti su più di cento. Sembrava una città di morti… Poi” concluse padre Urrutia “mesi dopo, quando tornai in Europa, lessi su riviste cattoliche che in quel tempo la popolazione di Hué aspettava con ansia l’arrivo dei liberatori…”

In realtà sta qui, a giudizio di chi scrive, la più grande vittoria comunista: nel fatto che gli uomini liberi d’Europa e d’America siano sempre meno disposti ad agire in difesa della libertà, e che molti di loro, per tranquillizzarsi, accettino ad occhi chiusi la propaganda comunista.

Al Nord non si può parlare con il popolo

Diversi intellettuali e giornalisti più o meno progressisti sono stati negli ultimi anni invitati a visitare il Viet Nam del Nord e le zone occupate: tutti hanno potuto parlare soltanto con interlocutori a ciò deputati (funzionari e simili), nessuno ha mai potuto parlare liberamente con la popolazione.

Così, per fare un esempio, padre Paolo Trentini, inviato nel Nord Viet Nam dall’organizzazione catto-comunista Pax Christi, richiesto al suo ritorno direttamente dall’estensore di queste note se avesse potuto parlare con i cattolici nordvietnamiti, o se avesse almeno potuto constatare che ne sopravvivono, rispose d’avere sì cercato di incontrarsi con loro, ma che le autorità gli avevano dichiarato con dispiacere che un incontro era impossibile, in quanto “c’erano state inondazioni” che impedivano l’accesso alle zone in cui i cattolici vivevano.

Altri visitatori, come Goffredo Parise il quale fu più volte nel Nord e nella zona vietcong, riconoscono in modo aperto che “con la popolazione semplicemente non si parlava” (Corriere della sera del 13.4.’75). Dopo di che l’osservatore tuttora determinato a usare il proprio senso critico, non riesce a spiegarsi come questi intellettuali (al pari di quelli che visitavano la Russia al tempo dei massacri staliniani, che causarono decine di milioni di morti) al loro ritorno abbiano potuto farsi portavoce delle tesi di ‘liberatori’ che avevano loro puntigliosamente impedito di sentire il parere dei ‘liberati’. Tanto più se, come Parise avverte, “Ad Hanoi […] si ha la sensazione di un diaframma che si frappone d’obbligo tra chi parla [ossia il funzionario, n.d.r.] e chi ascolta [ossia il visitatore, n.d.r.]. Si ha cioè la sensazione che chi parla debba venire soltanto ascoltato e mai interrogato”.

Una tale disponibilità alla prepotenza rossa ha talmente preso piede in Occidente tra i giornalisti, e in genere tra i diffusori d’opinione, (1) che l’osservatore non può fare a meno di chiedersi se non solo nel Viet Nam, ma nell’intero mondo democratico la libertà abbia ancora un futuro.

Come si sia arrivati a questo – in sostanza al progressivo schieramento dell’intera cultura laicista sulle posizioni del marxismo – e come si sia in pari tempo arrivati all’incredibile autoliquidazione della cultura cattolica, non può essere oggetto del presente articolo. Tutto ciò accade mentre in Russia assolutamente più nessuno crede nel comunismo e nel marxismo (si veda in merito la fondamentale testimonianza di Jurij Malcev, già professore di letteratura italiana all’Università dì Mosca).

Nella lotta incessante tra la ‘città terrena’ e la ‘città celeste’ – che secondo la visione di sant’Agostino durerà quanto durerà la storia – è indubbiamente in atto nel nostro tempo una grande sconfitta della ‘città celeste’, sconfitta la cui responsabilità va in parte fatta risalire ai falsi profeti e ai dimissionari di tutte le specie che da un decennio nella ‘città celeste’ pullulano.

Intanto noi europei, che per la libertà dei vietnamiti non abbiamo mai fatto nulla, biasimiamo gli americani per il loro intervento nel Viet Nam. Al di là di tutte le possibili critiche su singoli aspetti dell’intervento, chi scrive non vede proprio come l’azione americana in appoggio al Sud sia da disapprovare.

Al contrario: questa gli sembra l’ultima delle grandi imprese altruiste (sogghigni pure chi vuole) di un’America generosa che sta probabilmente per scomparire, per dar luogo ancora non sappiamo a cosa. L’America ingenua e missionaria della guerra al nazismo, quella che ha salvato la libertà dell’Europa e di altri continenti, che non solo ha prestato aiuto ai propri alleati, ma anche agli ex nemici: sotto tale aspetto cristiana.

Dice bene Jonesco: “Negli americani, nel loro modo di agire, ci sono interessi economici, ma questi sono mescolati a una certa generosità, a un vero idealismo che nessun altro popolo ha mai manifestato nella storia”. (Preciseremo meglio: nella storia degli ultimi secoli. Perché quel loro spirito d’adesione spontanea alla causa della libertà e del bene in genere, quel sopra ricordato tendere la mano all’ex nemico, è già stato a suo tempo lo spirito della cavalleria medievale. Tenendo presente questo, possiamo convenire col Maritain di ‘Man and the State, che indicava come realizzato di fatto nell’ideologia politica della costituzione americana l’ ‘umanesimo integrale’ cristiano.)

Scrive ancora Jonesco: “[Gli americani] criticati, detestati, scacciati da quelli che loro stessi hanno aiutato, sconfessati costantemente, metodicamente, isolati moralmente, oppressi dalla cattiva coscienza che gli intellettuali [inclusi certi intellettuali che si pretendono cristiani, n.d.r.] hanno fatto nascere in loro, hanno ceduto sotto gli insulti del mondo intero”.

É verosimile che il disastro del Viet Nam segni anche la fine di quell’America generosa: ciò che le potrebbe succedere è anzi già oggetto di qualche previsione. Così nel settimanale News-week sir Robert Thompson, “specialista in guerriglia rivoluzionaria”, afferma che la politica americana fa il paio con la ritirata di Russia: “Penso che la conclusione di tutto questo sarà la capitolazione degli Stati Uniti.

É un’eventualità che può effettivamente verificarsi nello spazio dei prossimi dieci anni”. Tale opinione-limite non tiene conto, secondo noi, dell’enorme potenziale nucleare americano, che al tempo della ritirata di Russia i tedeschi non avevano, e presuppone che la linea di dirigenza dell’America praticamente non muti in futuro. Cosa accadrà però quando a decidere saranno gli individui delle nuove generazioni, educate dai vari dottor Spock, cioè individui ribelli a ogni freno, e non più cultori della libertà ma dell’arbitrio?

S’è visto che la sconfitta dei nazionalisti cinesi di Ciang Kai Scek ha impensatamente dato origine, in America, al ‘maccarthismo’: cosa nascerà da questa nuova sconfitta tanto più diretta e cocente, subita in Viet Nam?

La figura di Van Thieu

Se la lotta disperata del popolo vietnamita per la libertà è oggi tanto impopolare, più di ogni altro è impopolare l’uomo che, commettendo anche inevitabili errori, l’ha guidata nell’ultimo decennio, il dimissionano capo del Sud Van Thieu, contro cui da sempre si sono accaniti nel mondo intero gli strali della propaganda “progressista”. Per molto tempo fu definito “fantoccio degli americani”: l’insistenza però con cui nelle trattative di Parigi i negoziatori comunisti chiesero il suo allontanamentocostituisce un riconoscimento implicito delle sue doti di lottatore.

Contro la strapotente propaganda avversaria egli non aveva e non ha mezzi per difendersi. Cattolico per conversione, di carattere inflessibile, non ha mai avuta altra possibilità che continuare a lottare. Il già citato specialista del Vìet Nam Pietro Gheddo ci avverte che la popolarità di Thieu non era molto diffusa neppure tra i suoi, i quali lo criticavano sopratutto – e anche liberamente sui giornali – per il suo scarso impegno nella lotta alla corruzione diffusa nel Sud. Resta da vedere se egli abbia avuto la possibilità di procedere a repulisti più radicali di quelli che pure ha tentato.

In uno scritto di alcuni anni fa, che ora non abbiamo sotto mano, il già citato Goffredo Parise descriveva molto bene la differenza tra le due retrovie, quella del Nord e quella del Sud: severa, perfettamente ordinata e tutta tesa al conseguimento della vittoria la prima, con intrallazzi individuali, gente che si faceva anche i propri affari, e presenza varia di “segnorine” (i miserandi sottoprodotti della libertà), la seconda.

Non si rendeva conto, Parise, di descrivere anche, punto per punto, la situazione esistente nel corso dell’ultima guerra mondiale al di là e al di qua dei contrapposti fronti tedesco e angloamericano. E tuttavia il fronte angloamericano era quello della libertà. Poteva il cosidetto dittatore sudvietnamita cambiare tale pur deplorevole situazione?

Di lui va inoltre detto che, se anche duro come il suo ruolo comportava, non è sembrato essere del tutto privo d’umanità: abbiamo letto infatti che in occasione dell’ultimo rimpasto governativo del 14 aprile, dopo che il nuovo premier Can aveva affermato nel discorso di presentazione del gabinetto: “È meglio morire che accettare il comunismo”, Thieu “a un certo punto del proprio discorso – nell’accomiatarsi dal prernier uscente Khiem – non è riuscito a trattenere le lacrime”.

Come si spiega la confusa ritirata

Per individuare le origini delle attuali difficoltà e del tracollo militare sud-vietnamita, dobbiamo riportarci alla situazione “a pelle di leopardo” (con zone cioè d’occupazione comuniste inserite un po’ dovunque nel territorio del Sud) esistente fino a pochi mesi fa: situazione dei cui effetti “la maggior parte dei giornalisti e visitatori stranieri” non si rendeva ben conto, in quanto, come Pietro Gheddo avvertiva, “stanno a Saigon, e conoscono solo la situazione politica e umana della capitale”.

Già nel dicembre ’73, nella sua visita provincia per provincia, questo giornalista ebbe modo di constatare che ai comunisti sottostava – ben al di là delle mappe degli accordi di Parigi – “circa il 75% del territorio del Sud”, non tanto per gli insediamenti stabili dei guerriglieri, quanto per le loro sistematiche, temute incursioni.

Si trattava però soltanto di territorio, non di popolazione, perché “il popolo – egli riferiva – è scappato e continua a scappare dal loro territorio, per rifugiarsi in quello sempre più ristretto controllato dall’esercito di Saigon. Praticamente la maggior parte del popolo sudvietnamita vive ora nelle città e lungo le strade nazionali tenute dall’esercito, coltivando un po’ di terra ai lati della strada, per la profondità di 100 metri al massimo: più in là non vanno per paura dei vietcong”. Ne derivava tra l’altro un’acuta mancanza di terre da coltivare: “La gente comincia a soffrire la fame per la mancanza di terre da coltivare”.

Tale essendo la situazione, ed essendo inoltre, come è noto, programmata dopo gli accordi di Parigi una riduzione progressiva degli aiuti americani, quando nel febbraio-marzo scorsi il presidente degli USA Ford incontrò seri ostacoli presso il Congresso nella sua richiesta di fondi, il presidente Thieu pensò bene di appoggiarlo davanti all’opinione pubblica americana e mondiale materializzando, per così dire, le proprie difficoltà: abbandonando cioè le zone meno difendibili del Paese, zone che, col diminuire degli aiuti americani, l’esercito del Sud non avrebbe comunque potuto tenere ancora per molto tempo.

Egli ordinò pertanto lo sgombero d’una decina di province situate sugli Altipiani Centrali verso la Cambogia, e nel settentrione del paese. Ma si verificarono due imprevisti. Sugli Altipiani Centrali vive una popolazione non vietnamita; i cosidetti ‘Montagnards, gente povera ma attaccatissima alla libertà e quindi da sempre in lotta coi comunisti, la quale forniva al Sud soldati tra i più fedeli: questi soldati non solo si rifiutarono d’abbandonare la propria gente, ma aprirono il fuoco sugli altri soldati sudvietnamiti, scompaginandoli.

Dove la popolazione era vietnamita, ebbe invece inizio un immediato esodo in massa dei civili: verso Saigon dapprima, poi – tagliata tale strada dai comunisti – verso la costa. Ancora una volta le testimonianze concordano nel riferire d’un dieci per cento circa di gente disposta a rimanere coi comunisti, mentre tutti gli altri fuggivano (si sono per tanto tempo chieste elezioni “veramente libere e democratiche”: ci domandiamo se si possa immaginare un consenso più plebiscitario di questo).

Paurosi intasamenti sulle poche strade disponibili resero impossibile alle divisioni del Sud una ritirata ordinata. Già di per sé la ritirata di un esercito moderno è molto difficile (ne sanno qualche cosa gli italiani che hanno partecipato alle ritirate d’Africa e di Russia); tanto più doveva esserlo per questo esercito, molto ‘sofisticato’ in quanto organizzato alla maniera americana.

Non bisogna poi dimenticare lo stato d’ animo del singolo soldato, che non ignorava la propria sorte – magari a lungo termine – se fosse caduto in mano al nemico (nella confinante Cina i soldati e i militanti nazionalisti, dopo ripetute e anche solenni assicurazioni di ‘perdono’ da parte comunista, furono – finita la guerra civile – tutti liquidati fisicamente: Richard L. Walker dà in merito un numero di giustiziati che va dai 15 ai 30 milioni).

Tutto questo ci sembra spiegare a sufficienza la dissoluzione delle divisioni in ritirata, la corsa di molti soldati verso il mare, i loro disordinati tentativi di salire sulle poche navi disponibili in concorrenza coi civili, i grappoli di uomini appesi invano agli aerei in partenza.

Nel terribile caso rientra anche l’episodio descritto nella lettera di padre Hoang Van Tiem a questo giornale, pubblicata il 13 aprile: “Io sono potuto salire su una piccola barca passando 21 ore in mare prima di arrivare a Saigon. Un’altra barca su cui erano salite venti suore della Carità, si è rovesciata e sono tutte annegate”.

Dove speravano mai di fuggire le piccole suore della Carità sudvietnamite? La loro morte è stata probabilmente un atto di misericordia di Dio: ha evitato loro altre settimane e forse mesi di angoscia nel fondo della rete crudele in cui il loro popolo si dibatte invano.

(*) dal settimanale Il nostro tempo, 4 maggio 1975.

(1) Vedasi la nota 5 di p. 293

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