Giovannino il sovversivo

Giovanni GuareschiIl Foglio 9 luglio 2005

“Non muoio neanche se mi ammazzano”. Guareschi contro tutti

di Francesco Agnoli

Alla morte di Giovannino Guare­schi (a sessant’anni, nel 1968), nes­sun messaggio giunge dalle autorità di governo, nessuno da uomini politici. Solo tante calunnie, aspre e velenose, dai giornali più diffusi e da quelli di partito. Colui che aveva creato e diret­to il settimanale più letto d’Italia, il Candido, lo scrittore italiano più tra­dotto al mondo, veniva dimenticato dall’Italia ufficiale, piena di fretta di seppellirlo, ma non dalla gente della Bassa, accorsa in massa al suo funera­le.

Nella predica il parroco apre un li­bro del defunto, e legge. “Adesso vi racconto tutto di me: ho l’età di chi è nato nel 1908, conduco una vita molto semplice, non mi piace viaggiare, non pratico nessuno sport, non credo in tante fantasticherie. Ma in compenso credo in Dio”. Poi il parroco prosegue: “Su questa terra noi piantiamo la cro­ce di Cristo, del tuo Cristo che hai sa­puto far vibrare nei cuori e nelle co­scienze degli italiani e di tanti altri mi­lioni di uomini, soprattutto nell’ora della lotta”.

La fretta di seppellire Guareschi continua ancor oggi, nel volenteroso sforzo di farlo dimenticare, ad esem­pio eliminandolo dalle antologie sco­lastiche, in cui invece trovano spazio autori noiosissimi, che non hanno mai avuto vera fortuna presso il pubblico, ma solo presso l’onnipotente giudizio della critica. Ma chi era Giovannino Guareschi? Un uomo senz’altro eccezionale, sin dalla prima giovinezza. I compagni ri­cordano il suo spirito goliardico, la sua  intraprendenza, la sua intelligenza vi­vace.

Scrive di lui Cesare Zavattini, suo istitutore in quinta ginnasio: “Troppo spiritoso. La sua verve è spesso inopportuna. Le sue mancanze sono conseguenza d’irrefrenabili doti umo­ristiche. Veramente intelligente, ottie­ne per lo studio, con i minimi mezzi, i massimi risultati”. Finita la scuola, iscrittosi all’università, più per parte­cipare alle feste studentesche che al­tro, si cimenta in una grande varietà di mestieri: elettricista, caricaturista, car­tellonista, scenografo, custode di de­positi di biciclette ecc.

Finalmente rie­sce ad approdare al mondo del gior­nalismo: lavora dapprima per alcuni quotidiani emiliani, finché nel 1936 si trasferisce a Milano, con la moglie En­nia, per lavorare al Bertoldo, insieme ad Achille Campanile, Giovanni Mosca e Cesare Zavattini. Dal 1940 collabora anche col Corriere della Sera. Fin dai primi anni di giornalismo Guareschi snobba le conventicole de­gli intellettuali e degli scrittori che si elogiano e si premiano a vicenda, e col suo stile semplice e pieno d’umorismo svillaneggia la retorica ufficiale.

L’umorismo gli appare il nemico giurato di ogni retorica di regime, di ogni men­zogna ufficializzata e consacrata: “Li­beriamoci dalla parte peggiore di noi stessi, guardiamoci allo specchio e ri­diamo della nostra tracotanza, del no­stro barocco messianismo, della nostra retorica. Guardiamoci allo specchio dell’umorismo, così come ho fatto tante volte io, cittadino-niente, che, quan­do mi specchio e vedo sul mio viso un truce cipiglio, scuoto il capo e dico: Giovannino, quanto sei fesso!”.

Nel 1942 Guareschi viene arrestato dai fascisti, “per aver comunicato al rione Gustavo Modena, Ciro Menotti, Castelmorrone ciò che in quel mo­mento pensavo di tutta la faccenda. Si tratta di un episodio poco onorevole in quanto accade che io, la notte del 14 ottobre 1942 – riempitomi di grappa fi­no agli occhi in casa di amici – per tor­nare alla mia casa di via Ciro Menotti, che è lontana non più di ottocento me­tri, impieghi due ore. E in quelle due ore urlo delle cose che poi l’indomani trovo registrate diligentemente in quattro pagine di protocollo… Gli ami­ci mettono in moto l’eterna macchina della camorra italiana in modo da sot­trarmi alle giuste sanzioni della legge, e, per prudenza, mi fanno richiamare alle armi”. Sembra insomma, chiosa Guareschi, “che per perdere la guerra ci sia assoluto bisogno della mia colla­borazione”.

Così finisce in Egitto, per alcuni mesi. Dopo l’8 settembre si tro­va di fronte alla grande decisione: col­laborare coi fascisti e coi tedeschi, di­ventare partigiano o restare fedele al giuramento fatto al re. Giovannino opta per la terza scelta, e la paga duramente, con due anni di lager, durante i quali rifiuta più volte l’opportunità di venir liberato in cambio di una colla­borazione, anche solo di penna.

Nell’atmosfera cupa e angosciante del la­ger non si dà per vinto: organizza tea­trini, inventa favole piene di speranza, promuove chiacchierate e discussioni tra internati, tenendo desto il deside­rio di vivere di chi lo circonda. Chi scrive ha conosciuto persone che de­vono alla sua vitalità e alla sua forza di non essere sprofondate nella dispera­zione e, forse, nella morte. “Non muoio neanche se mi ammazzano”, è il suo motto di quei giorni.

Ma lo sconforto prende talora il sopravvento anche in un animo fiero come il suo: “Le mie ore si annullano in questa sabbia, e ogni ora mi ruba una goccia di vita, un sorriso dei miei figli, e io vedo me stes­so scendere gradino per gradino la scala che non si risale mai più. Questa noia che sa di catrame come l’aria di questa terra ostile… Un anno è finito. Un anno comincia. La noia continua, niente di nuovo”.

* * *

Finalmente arriva la liberazione, e Guareschi può tornare a casa: “Per ventiquattro mesi ho calpestato sabbia di lager e la sabbia non dà suono, e co­sì il mio passo ha perso la sua voce. Ora ritrovo sulle lastre del porticato la voce del mio passo… Non ho notizie dei miei da troppo tempo. La guerra è passata lì vicino: li ritroverò tutti? Qualcuno? Nessuno? E proprio e solo adesso, quando l’avventura è finita, ho paura e mi sfascio sulla riva del fosso, come uno straccio… Quando arrivo da­vanti a casa mia sta schiarendo e io rimango seduto sulla sponda del fosso e aspetto che il sole si sia ben levato e intanto guardo le finestre chiuse e sof­fro come non ho mai sofferto neanche lassù. Perché lassù si aveva un po’ l’idea che tutto si fosse fermato, a casa nostra, e soltanto al nostro ritorno la vita avrebbe ripreso il suo naturale corso. Poi, a un tratto, sento una voce gridare qualcosa: ed è la mia voce e io ne sono terrorizzato e attendo con gli occhi sbarrati che tutte le finestre si aprano e conto le teste che spuntano fuori: una, due, tre, quattro. Ne manca una, la più piccola. Allora lascio il sac­co in riva al fosso e corro dentro e, sperduta in un enorme letto, trovo la signorina Carlotta che dorme. E dico ‘Cinque!’, anche se la prima cosa che vedo non è una testa, ma un sederino rosa… Ennia è più magra di me. E’ un sacchetto d’ossa tenute insieme soltanto dal desiderio di farsi ritrovare viva da me al mio ritorno”.

Ma il ritorno tanto desiderato si tin­ge presto di scuro. Non c’è, ad accoglierlo, un paese unito, desideroso di rialzarsi, di ricominciare. Non c’è uno spirito comunitario, un sentimento di fratellanza, come quello che si era creato tra compagni di lager, nell’ora del dolore, della nostalgia e della spe­ranza: “Gli italiani non hanno impara­to niente dalla guerra. E’ triste: nelle guerre imparano qualcosa soltanto i morti”. Infatti l’Italia è divisa dall’odio di classe, dal veleno di un’altra ideolo­gia, non meno terribile di quelle scon­fitte. Alla guerra mondiale si è sosti­tuita la guerra civile, il rancore e l’odio tra compaesani e connazionali.

Guare­schi ricorda soprattutto, come segno evidente di questo clima appestato, il riso di disprezzo di una ragazza seduta su una panchina: “Ogni tanto, tra una raffica e l’altra di riso, urla qualcosa sui miei baffi, sui miei capelli. E io che rido tanto degli altri e che non mi ar­rabbio se qualcuno ride di me, per quel riso non mi offendo: mi sgomen­to… La ragazza non ha nessuna ragio­ne. Non sa nemmeno chi sono: a lei non piacciono i miei baffi e i miei ca­pelli, perché un uomo che li porta di quel genere è uno degli altri. Un rap­presentante della classe odiata che bi­sogna impiccare”.

Di fronte a tutto ciò Guareschi ricorre ancora all’unica arma che conosce, la sua penna, e fonda, nel dicembre 1945, il Candido, il gior­nale che svelerà, puntualmente, le stragi comuniste, specie in Emilia Ro­magna e in Toscana; che denuncerà il passaggio in massa degli intellettuali fascisti al comunismo; che consacrerà le figure di Peppone e di don Camillo, destinate a rimanere nell’immaginario collettivo per molti anni.

Bisogna leg­gere queste storie, piene di umorismo leggero, di umanità, ma anche profon­damente storiche, per capire l’atmosfera di quegli anni: “L’ambiente in cui i miei personaggi operano è il mio pae­se. E’ la Bassa. Alla Bassa, dove il sole d’estate spacca la testa alla gente, e do­ve, d’inverno, non si capisce più quale sia il paese e quale il cimitero, basta una sciocchezza come una gallina ac­coppata a sassate o un cane bastonato per mettere due famiglie in guerra per­petua… Alla Bassa, dove le strade sono lunghe e diritte, da una parte c’è l’alba e dall’altra il tramonto, piacciono i tipi con una fisionomia precisa, facili da amare e facili da odiare”.

Candido diviene così il giornale che, insieme ai Comitati civici di Luigi Ged­da, segna la sconfitta dei comunisti e la vittoria della Dc nel 1948. Ben più di De Gasperi, col suo aspetto “secco e fu­nereo”, ben più degli uomini di partito, contano, in questa splendida campa­gna elettorale, le vignette e i manifesti elettorali di Guareschi, e l’azione so­lerte e instancabile dei ragazzi delle parrocchie. Giovannino Guareschi, mo­narchico, cattolico, destrorso, antifa­scista e reduce da due anni di lager in Germania, si trova quindi a combatte­re ancora una volta per la libertà, e lo fa, ancora una volta, senza risparmiar­si.

Ma pur risultando vincitore non re­clama alcuna prebenda, né alcun onore: vuole tenersi libero, non vuole le­garsi a nessun carro, a nessun partito, a nessun padrone. Così, pochi anni do-po, nel 1953, nel suo diario può scrive­re: “Con Candido contro lo strapotere Dc”. La Dc lo ha deluso, sotto molti aspetti: Giovannino vede già le busta­relle, il rinnegamento dei principi a vantaggio delle poltrone, i nepotismi di De Gasperi, “celeberrimo sistematore di parenti”.

Allo statista trentino dedica diverse vignette. In una di queste De Gasperi avanza, seguito da uno stuolo di parenti, con una bandiera su cui è disegnato un sole, e dentro la scritta: “Ho famiglia”. Sopra vi è scritto: “For­za Alcide, che non sei solo”. A lato al­cuni versi: “Su fratelli, su cognati/ su venite in fitta schiera:/ sulla libera ban­diera/ splende il Sol dell’avvenir”.

In poche parole Guareschi finisce per ini­micarsi, oltre a Luigi Einaudi, per una vignetta irriverente, anche Alcide De Gasperi. Il processo intentatogli da quest’ultimo è una sorta di farsa, alla fine della quale Guareschi finisce in galera: “Per rimanere liberi – scrive – bisogna a un bel momento prendere senza esitare la via della prigione”. E ancora: “Monarchico in una repubbli­ca; di destra in un paese che cammina decisamente, inflessibilmente verso si­nistra; sostenitore dell’iniziativa priva­ta in tempi di statalismo, assertore di italianità in tempi di antinazionalismo; cattolico intransigente in tempi di de­mocristianismo, io non sono stato – co­me poteva sembrare – un indipenden­te, bensì un anarchico. Non un uomo li­bero, ma un sovversivo. E perciò è giu­sto che mi venga tolta la parola e la li­bertà”.

Anche in questa occasione Gua­reschi rifiuta sconti e amnistie di sorta. Rimane in galera sino alla fine, pog­giando sulla sua incredibile fiducia nella Provvidenza: “Completa è la mia fiducia nella Provvidenza che, per essere veramente tale, non deve mai essere vincolata da scadenze. Mai preoc­cuparsi del disagio di oggi, ma aver sempre l’occhio fisso nel bene finale che verrà quando sarà giusto che ven­ga. I giorni della sofferenza non sono giorni persi: nessun istante è perso, è inutile, del tempo che Dio ci concede. Altrimenti non ce lo concederebbe”.

Lo aiuta, anche, il suo senso dell’umorismo, la sua capacità di divertirsi, almeno un po’, in ogni circostanza. In ga­lera scrive versetti simpatici, disegna, decora l’asse del cesso con un origina­le “merdometro”, costituito dalla foto­grafia dell’odiato Scelba. In un bollet­tino inviato agli amici, sulle sue condi­zioni, scrive: “Cos’ero, or son due mesi, appena entrato?/ Un fuorilegge, un po­vero spostato:/ adesso grazie alla pri­gione/ marciando sto verso la reden­zione./ La squadra è già passata/ a bat­ter l’inferiata./ I ferri sono a posto, niente buchi nel muro./ E io mi sento più sicuro”.

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Negli ultimi anni della sua vita Gua­reschi assiste al cambiamento cultura­le dell’Italia. Non gli piace affatto il nuovo mondo che sta nascendo: “Tra i grattacieli del miracolo economico sof­fia un vento caldo che sa di cadavere, di sesso e di fogna”. Sono gli ultimi an­ni, in cui, dopo tanta sofferenza, l’umore si fa, talora, acido, amaro. Per lui l’attuale generazione di italiani “più che una generazione è una degenera­zione”: si alimenta coi nuovi miti della bellezza fisica a ogni costo e a ogni età, coi divi della tv, col benessere mate­riale che ammalia anche gli uomini del passato.

Guarda sconsolato certe anziane signore di città, che non sanno più invecchiare: “Hanno gli occhi di­pinti di verde o di blu e i seni conve­nientemente sistemati: il seno destro è stato passato sulla spalla sinistra, il si­nistro sulla destra, quindi ambedue sono stati incrociati sulla schiena, co­me i tubolari dei corridori ciclisti, per venire annodati solidamente sull’uno e sull’altro fianco”.

Uno dei motori di questi cambia­menti sociali e culturali è senz’altro la televisione: “La tv col suo incessante martellare, condito con piacevoli mu­sichette e divertenti spettacoli di va­rietà, crea nelle famiglie problemi, bi­sogni, o addirittura necessità pratica­mente inesistenti. Così come crea dal nulla dei valori e degli idoli. Crea una mentalità, un costume, un linguaggio”, si insinua nelle case, interrompendo il dialogo, raffreddando il confronto, in­gessando, condizionando, omologando le personalità.

In questi anni nasce così l’ultimo ca­polavoro: “Don Camillo e i giovani d’oggi”. E’ uno sguardo, sereno, diver­tente, ma realistico, sull’evoluzione dei costumi, dei rapporti famigliari e della Chiesa. Don Camillo non è più alle prese con i veri comunisti, alla Peppone, ma col malcontento misto a noia dei giovani, dei cappelloni alla Veleno e delle ragazze emancipate co­me Cat.

Soprattutto, in questo breve romanzo, compare la figura di Don Chichì, che rappresenta il pretino standard post Concilio Vaticano II: con la sua mezza voce, i suoi mezzi termi­ni, la mania del dialogo sopra ogni cosa, lo sperimentalismo liturgico, stile “tavola calda di Lercaro”… E’ don Chi­chì il vero, ultimo “avversario” di Gua­reschi, non i giovani che stanno per scatenare il ’68.

A loro si rivolge, pa­ternamente, temendo solo che siano ingannati, che riempiano il loro vuoto di violenza spacciata per ideale: “(O giovani) diffidate di chi vi sorride e vi dà importanza eccezionale. Vuole rifi­larvi un giornale, un libro, un disco, una rivista pornografica, un intruglio gasato, una chitarra, un allucinogeno, una pillola, una scheda elettorale, un cartello, un manganello, un mitra. Pro­testo perché sono stato giovane e bug­gerato come saranno immancabilmen­te buggerati i giovani d’oggi…”.

Il 1968 è anche l’anno della morte di Guare­schi, a Cervia, nella sua amata terra.