Il gulag che esiste ancora

Kim Il SungArticolo pubblicato su Il Corriere del Sud
n. 3; 1 – 15 febbraio 2002

Una divisione transitoria che finì con il cristallizzarsi

La tragedia di un sopravvissuto all’inferno della Corea del Nord

di Roberto Cavallo

Possedimento giapponese fin dal 1905 la Corea, alla fine della 2a guerra mondiale, doveva tornare ad essere uno Stato indipendente. Al momento della resa giapponese, nell’agosto del 1945, le potenze vincitrici decisero che il disarmo dell’esercito del Sol Levante sarebbe avvenuto a sud del 38° parallelo sotto il controllo degli Stati Uniti; a nord, invece, vi avrebbero provveduto i sovietici. Quella divisione, originariamente transitoria, finì con il cristallizzarsi. Nel novembre del 1947 l’ONU istituì una Commissione con l’incarico di procedere allo svolgimento di libere elezioni in tutto il territorio coreano.

Di fatto alla Commissione ONU fu precluso anche l’accesso nel territorio della Corea del Nord, sotto il totale controllo dei comunisti. Nel Sud invece le Nazioni Unite riuscirono a garantire lo svolgimento di libere elezioni e il 15 agosto 1948 venne proclamata la Repubblica di Corea. Il Governo che ne scaturì fu riconosciuto da tutti i Paesi occidentali, ma non da quelli del blocco comunista. E difatti l’Unione Sovietica, per tutta risposta, patrocinò nel Nord delle elezioni che portarono alla nascita della Repubblica Popolare Democratica di Corea.

Dopo vari tentativi rivoluzionari condotti nel Sud da attivisti del Partito Comunista, e andati tutti a vuoto, la Corea del Nord il 25 giugno 1950 con le sue forze armate attaccò il Sud, dando così inizio al conflitto coreano. La guerra, che durò tre anni e che fece migliaia di vittime e tante distruzioni, lasciò la situazione geo-politica inalterata sulla linea del 38° parallelo.

Determinante fu l’intervento militare statunitense a fianco del piccolo esercito sud-coreano. Negli anni ’60 il governo di Pyongyang, capitale della Corea del Nord, tentò nuovamente l’arma insurrezionale interna per “liberare” il Sud ed estendere la “rivoluzione socialista” all’intera penisola coreana. Ma gli agitatori comunisti non trovarono mai il consenso popolare sufficiente per rovesciare il governo democratico di Seoul.

Così Kim Il Sung, lo Stalin della Corea del Nord, fu costretto ad affiancare alle tradizionale propaganda anti-capitalista una serie di azioni diplomatiche volte soprattutto ad usufruire, in qualche modo, della crescente ricchezza e prosperità della Corea del Sud. Oggi le truppe degli Stati Uniti presidiano ancora il Sud, in funzione di deterrenza contro la minaccia comunista di Pyongyang, inserita nella lista nera degli “Stati banditi” (rough States) o comunque degli “Stati fonte di preoccupazione”.

Nel 1998, dopo la morte di Kim Il Sung, il figlio Kim Jong-il ereditò il potere assoluto, assumendo la carica di Presidente della Commissione di Difesa nazionale. La carica ufficiale di Presidente della Repubblica è stata invece attribuita in eterno al suo defunto padre Kim Il Sung, così che fra le tante stranezze del comunismo si può annoverare anche quella di aver generato cariche istituzionali destinate ai morti e valide in eterno!

In quest’angolo di pianeta il XXI secolo sembra davvero non essere incominciato, e l’orologio della storia (come, del resto, nella vicina Cina), si è fermato all’epoca dei lager. Un sopravvissuto di questo mondo, poco conosciuto all’Occidente (ma non per questo meno drammaticamente reale!), è riuscito a fuggire da quell’inferno e ha raccontato la sua storia in un libro di recente pubblicato anche in Italia: “L’ultimo gulag” (Mondadori, pagg. 217, Euro 17.04). Il libro è scritto a due mani: dal protagonista dei fatti narrati, Kang Chol-Hwan, e dal giornalista francese Pierre Rigoulot.

Kang Chol-Hwan entra nel gulag coreano nel 1977, a nove anni; ne esce 19 anni più tardi, nel 1996. Nel momento in cui termina di scrivere le proprie memorie, molti dei suoi amici e conoscenti sono ancora là dentro, nel campo n°15 di Yodok.

Yodok, situato al centro della Corea del Nord, è un campo lungo una cinquantina di chilometri destinato ai prigionieri politici ritenuti in qualche modo “recuperabili” al socialismo. Qui ai detenuti è consentito di vivere in baracche, riuniti per gruppi familiari. Vi sono invece altri campi, per gli irrecuperabili, dove si entra solo per essere eliminati. Kang non sa più nulla dei suoi familiari; nella migliore delle ipotesi essi vivono sorvegliati a vista dalla polizia.

Nel libro egli fornisce un’esposizione asciutta delle condizioni del gulag. Uomini, donne e bambini sono ridotti dalla fame a veri fantasmi di se stessi; la principale preoccupazione è quindi cercare rane, insetti e topi per garantirsi le proteine per la sopravvivenza. Obbligati ad un lavoro ininterrotto, se proprio non vi è nulla da fare i prigionieri sono costretti a scavare e a riempire buche nel terreno, fino allo sfinimento.

Kang ricorda la cella di rigore per le punizioni: una garitta di mezzo metro di lato in cui si stava per giorni in ginocchio o seduti sui talloni; e vi si finiva per un’inezia. A Yodok i rapporti sessuali erano vietati perché rischiavano di far nascere figli di controrivoluzionari. Lo Stato nord-coreano è un fautore dell’eugenetica: la gente considerata dal regime come di discutibile origine deve sparire e in ogni caso non riprodursi. Racconta Kang: “Ho visto un agente che ha costretto una donna incinta a spogliarsi per mostrare il suo ventre ingrossato ai detenuti; poi l’ha picchiata e insultata…”. Le poverette sorprese in stato interessante sono costrette ad abortire.

Queste e altre atrocità non sono roba degli anni ’70 e ’80, periodo di apogeo del social-comunismo, ma risalgono a pochissimi anni fa; e, con tutta probabilità, continuano anche oggi.

 Scrive Kang: “…Infine, se prima di entrare a Yodok potevo credere che l’essere umano fosse diverso dalle bestie, ora non mi era più possibile pensarla così. Nel campo non vi era alcuna differenza tra l’uomo e la bestia, al punto che i genitori, accecati dalla fame, potevano rubare il cibo ai loro bambini, e non sono certo che le bestie lo facciano. Ho visto molte persone morire in dieci anni. La loro morte non mi è sembrata in alcun modo diversa da quella di un animale…”