I cattolici americani e la postmodernità

UsaVita e pensiero n.2 marzo-aprile 2014

Stiamo assistendo all’affermarsi di un’America sempre più estranea per i cattolici? Alcuni fatti recenti sembrano confermare il rischio di una messa in sordina della libertà religiosa, proprio nel Paese che ne è stato storicamente il grande paladino.

George Weigel

(Traduzione di Roberto Prestila)

 

Vorrei scavare sotto la superficie della vita pubblica americana per esplorarne le dinamiche profonde, per esaminare il modo in cui tali dinamiche danno forma alle controversie e alle discussioni quotidiane, e suggerire come questo abbia effetto sui cattolici e altri uomini e donne, le cui coscienze sono formate dalla cristianità della “grande tradizione” negli Stati Uniti all’inizio del XXI secolo.

Come introduzione, vorrei partire da un inno che a volte viene cantato anche alla fine della Messa. Per quale ragione? Perché la seconda strofa di America the Beautiful – che raramente viene cantata – mi sembra particolarmente adatta come introduzione all’argomento:

Bella per i piedi pellegrini

il cui austero sforzo appassionato

batte un passaggio per la libertà

attraverso le terre selvagge!

America! America!

Dio rimedi ogni tuo difetto,

confermi la tua anima nell’autocontrollo,

la tua libertà nel diritto.

Un cattolico esperto di storia della Chiesa non può che essere colpito dall’ironia della situazione: cattolici che cantano con gusto questa strofa. I “piedi pellegrini” nelle terre selvagge del Nuovo Mondo stavano fuggendo il più lontano possibile da Roma: in effetti, essendo una delle incarnazioni di ciò che gli studiosi chiamano la “riforma radicale”, i Pellegrini scappavano da quelle che consideravano forme “romanizzate” di protestantesimo. E quando coloro che camminavano nelle “terre selvagge” con “piedi pellegrini” presero il potere, insieme ai loro eredi spesso lo usarono per rendere la vita difficile ai cattolici, come accadde nella mia terra natia, il Maryland, dove il primo esperimento di tolleranza religiosa nelle colonie inglesi fu terminato dall’immigrazione di bellicosi protestanti della Virginia con una mentalità cromwelliana.

Eppure i cattolici stanno qui a cantare e celebrare i risultati di coloro che camminarono con piedi pellegrini attraverso le terre selvagge; e lo fanno a ragione, dato che i legami costruiti dagli antenati Pellegrini e Puritani dell’America – tra libertà e legge, tra libertà e compostezza morale, tra libertà e nobiltà morale – si raccomandano tutti a una sensibilità autenticamente cattolica.

Padre John Courtney Murray, il grande teorico gesuita dell’esperimento democratico americano, colse nel segno quando scrisse (in Noi crediamo in queste verità, 1965) che «la partecipazione cattolica all’opinione generale americana è stata piena e libera, senza riserve né imbarazzi, perché i contenuti di questa opinione generale – i principi etici e politici tratti dalla tradizione della legge naturale – sono approvati dall’intelligenza e dalla coscienza cattolica. Quando viene parlato questo tipo di linguaggio, il cattolico si unisce alla conversazione con assoluta facilità: è il suo linguaggio. Le idee espresse sono native nel suo universo di discorso. Persine l’accento, essendo americano, si adatta alla sua lingua».

Oggi, però, gli americani – o almeno le élite culturali e politiche americane – sembrano parlare un linguaggio differente. La natura del cambiamento è stata brillantemente colta dal filosofo Alasdair Maclntyre nell’influente libro Dopo la virtù, che comincia con un esperimento mentale interessante. Immaginate, scrive Maclntyre, che una serie di catastrofi naturali venga attribuita agli scienziati, che sono quindi perseguitati, persino giustiziati, dai seguaci di un movimento politico dell’Ignoranza che cerca di distruggere non solo gli scienziati, ma anche i loro libri e i loro strumenti. Nelle scuole l’insegnamento scientifico viene abolito e ha luogo una grande damnatio memoriae.

In seguito, una volta che la gente si è calmata, si tenta di far rivivere la scienza – ma coloro che compiono questo tentativo non sanno che cosa sia la “scienza”. Tutto ciò che hanno sono frammenti di libri, pagine bruciacchiate di articoli, strumenti rotti, rapporti su esperimenti, nessuno dei quali è inserito nel contesto nel quale avevano un senso. Nondimeno le persone raccolgono simili frammenti di un’eredità perduta e parlano di “fisica”, “biologia” e “chimica”, discutendo della “teoria dell’evoluzione” e della “teoria della relatività”, mentre i loro figli imparano pezzetti e rimasugli della tavola periodica e recitano teoremi euclidei come fossero inni.

Pochissime persone si rendono conto che tutto questo non è “scienza” in senso proprio. La gente usa i termini della scienza – “massa”, “gravita specifica”, “neutrino” e così via – ma in modi non collegati alle credenze che quelle espressioni un tempo presupponevano. Così emergerebbe un certo grado di arbitrarietà, persino un elemento di “scelta” nell’uso di questi termini. Si moltiplicherebbero premesse nascoste o incommensurabili che non possono essere dimostrate: alcuni proporrebbero teorie soggettivistiche della scienza, mentre altri sosterrebbero che non c’è compatibilità tra la “scienza” e il soggettivismo.

Guardando un mondo siffatto, da parte nostra diremmo che, anche se viene usato il linguaggio delle scienze naturali, esso è in un grave stato di disordine. E questo, concludeva trent’anni fa Maclntyre, è il punto: «Nel mondo effettuale in cui viviamo, il linguaggio della morale è nello stesso stato di grave disordine in cui si trova il linguaggio della scienza naturale nel mondo immaginario che ho descritto. Ciò che possediamo sono i frammenti di uno schema concettuale, parti ormai prive di quei contesti da cui derivava il loro significato. Abbiamo, è vero, dei simulacri di morale, continuiamo a usare molte delle espressioni fondamentali. Ma abbiamo perduto, in grandissima parte se non del tutto, la nostra comprensione, sia teoretica sia pratica, della morale».

Il mio amico Rèmi Brague, eminente filosofo francese, sarebbe probabilmente d’accordo con Alasdair Maclntyre, ma condurrebbe l’analisi del nostro malcontento attuale ancora più a fondo. Infatti nel 2006 Brague ha avanzato una proposta suggestiva circa la periodizzazione della storia politica moderna dell’Occidente. Egli sostiene che il XIX secolo è stato centrato su Bene e Male: il paesaggio pubblico è stato modellato dalla “questione sociale”, sollevata dalla rivoluzione industriale, dall’urbanizzazione, dall’istruzione di massa e dalla dismissione della società tradizionale.

Quanto al XX secolo, è stato il secolo di Vero e Falso: le ideologie totalitarie, costruite sulla base di idee disperatamente sbagliate circa gli esseri umani e le loro origini, comunità e destini, definirono il contesto del futuro umano, che guidò la storia dai postumi della Prima guerra mondiale (l’evento che inaugurò il XX secolo come “epoca”) fino alla disintegrazione sovietica del 1991 (l’evento che ha concluso il secolo come periodo storico-politico distinto).

E il XXI secolo? Questo – ha proposto Rèmi Brague – sarà il secolo di Essere e Nulla, l’epoca della questione metafisica. Potrebbe sembrare una proposta piuttosto astratta, se confrontata con le descrizioni del XIX e del XX secolo. Tuttavia Brague, con il suo stile francese, è molto pratico e concreto nel definire il nostro tempo in questi termini. Se nessuna “grammatica dell’umano” viene accolta e prediletta dalla nostra cultura, se non ci sono le-cose-come-stanno-in-realtà, se tutto è plastico, malleabile e soggetto al cambiamento dall’ostinazione umana, allora tutto è a disposizione di tutti, la cacofonia annega le discussioni intelligenti e la politica è semplicemente volontà di potenza.

Avendo speso decenni nello studio della filosofia e del diritto islamici, Rèmi Brague è certo consapevole della minaccia, sia esterna sia interna, che all’Occidente viene dal jihadismo. Ma nel 2006 ha sostenuto che c’è un nemico entro le nostre porte, un nemico costruito da noi stessi: il nichilismo, sorta di cinismo inacidito circa il mistero stesso dell’Essere e della sua bontà. Tale cinismo ha privato la vita di significato, accorciato gli orizzonti delle aspettative e reso risibili i sacrifici per il bene comune.

Brague trova un precursore del nichilismo postmoderno in un intellettuale illuminista, che disse che non aveva figli perché aver figli era un atto criminoso, un modo per condannare un altro essere umano alla morte. Un nichilismo simile si nasconde dietro il declino della cultura del matrimonio in America (e in effetti in tutto l’Occidente), nel trattare i figli come accessori per le proprie scelte di vita, nella banalizzazione della sessualità nella pubblicità e nello spettacolo, e in così tante altre manifestazioni della rivoluzione sessuale e dell’ideologia gnostica del gender.

Questa è una lettura non isterica della cultura americana di oggi, anzi una lettura altamente plausibile. E se ci si sente un po’ scomodi ed estranei a esser seriamente cattolici oggi in America, ciò accade perché la cultura pubblica circostante spesso nega le verità fondamentali su cui – secondo J.C. Murray – l’America è stata costruita, verità che i cattolici affermavano prontamente e gioiosamente anche quando dei bigotti protestanti mettevano in dubbio la capacità dei cattolici di essere buoni cittadini della democrazia americana.

Gli americani un tempo capivano che Dio ha inscritto delle verità morali nel mondo, verità conoscibili dalla ragione. Oggi il quotidiano principale della nazione, il «Washington Post», in un editoriale descrive un appello a quelle verità come un esempio di un nuovo «linguaggio del razzismo, del pregiudizio e dell’intolleranza», e lo fa a sostegno dell’affermazione che il governo dovrebbe sancire che Adam può “sposare” Steve.

Gli americani un tempo capivano che i nostri “diritti” vanno legati a una legge morale più alta, che un governo giusto dipende dal consenso dei governati e che il processo decisionale in democrazia dovrebbe essere compiuto, salvo che per circostanze eccezionali, dai rappresentanti del popolo eletti nei corpi legislativi. Oggi siamo sempre di più governati da giudici della Corte Suprema non eletti e da regolatori che non devono rispondere a nessuno, molti dei quali sembrano trarre il loro concetto di libertà e diritti umani dal grande filosofo morale Frank Sinatra: «Ho fatto a modo mio».

Gli americani un tempo capivano che lo Stato esiste a servizio della società e non il contrario. Oggi siamo governati da un’amministrazione federale che sembra determinata a limitare la sfera della società civile e ad ampliare grandemente lo spazio del potere statale, come ha fatto con l’ingiunzione del Dipartimento della Sanità a tutte le strutture pubbliche (anche quelle cattoliche) di fornire contraccettivi, pillole abortive e sterilizzazione nelle loro assicurazioni sanitarie.

Gli americani un tempo capivano che – come ebbe a dire padre Murray – «solo un popolo virtuoso può essere libero». Oggi la libertà è troppo spesso ridotta al mantra della “scelta” e l’urgente domanda morale – che cosa scegliere? – è raramente affrontata; in effetti è assiduamente evitata dalla lobby abortista all’indomani del processo Gosnell [il medico condannato all’ergastolo per aver ucciso bambini nati vivi dopo tentativi di aborto, NdT] ed è stata semplicemente ignorata dal presidente degli Stati Uniti in un discorso del 2013 all’organizzazione Planned Parenthood [la principale organizzazione per il controllo delle nascite, fondata da Margaret Sanger, NdT].

Tutto questo, e altro ancora, ci porta verso un’America estranea per i cattolici. Ci porta anche verso un grande voltafaccia nella considerazione della storia cattolica, e del presente e del futuro cattolici, negli Stati Uniti.

Per decenni gli storici classici del cattolicesimo americano – John Gilmary Shea, Peter Guilday, Thomas McAvoy, John Tracy Ellis – hanno strutturato la storia del cattolicesimo in America intorno alle questioni dell’assimilazione e dell’accettazione: il problema posto da coloro che, camminando su “piedi pellegrini” attraverso il territorio della nuova repubblica, spesso resero le cose difficili per i cattolici. E certamente leggere la storia della Chiesa cattolica negli Stati Uniti come una lotta secolare per l’assimilazione e l’accettazione fa luce su una dinamica dello sviluppo della Chiesa in America.

Tuttavia focalizzarsi troppo strettamente sulla domanda se sia possibile essere un buon cattolico e un buon americano significa giocare sul terreno dell’altro. Un tempo l’ “altro” che metteva in dubbio le credenziali patriottiche dei cattolici era il protestantesimo militante; oggi l’ “altro” è il laicismo militante. In entrambi i casi giocare sul terreno dell’altro equivale a permettergli da subito di fissare i termini del dibattito: noi (protestanti/laicisti militanti) sappiamo in che cosa consiste essere un buon americano; voi (cattolici) dovete provarci che lo siete.

Ma non è questo il gioco. Non era il gioco, in realtà, nemmeno durante il periodo dal 1776 alla campagna presidenziale del 1960 -quando il protestantesimo militante era l’aggressore – e certamente non lo è oggi, quando è il laicismo militante ad aggredirci. Il gioco vero implica domande differenti, più profonde: «Chi capisce meglio la natura dell’esperimento americano circa una libertà ordinata?». «Chi riesce a dare una difesa persuasiva della libertà prima, la libertà di religione?».

I vescovi e gli intellettuali cattolici americani del XIX secolo – il cui entusiasmo per la democrazia americana fu a volte esagerato – azzeccarono comunque un punto cruciale: i Padri Fondatori «costruirono meglio di quanto fossero consapevoli» [citazione del terzo concilio di Baltimora, 1884, NdT]; cioè i Padri Fondatori progettarono una repubblica democratica per la quale non potevano offrire una difesa morale e filosofica solida. Ma i cattolici a lungo disprezzati (oggi di nuovo disprezzati) erano in grado di farlo: i cattolici erano e sono in grado di dar conto in modo robusto e convincente della democrazia americana e dei suoi impegni per la dignità umana, per i diritti umani e per la libertà ordinata.

Gli studiosi cattolici attorno alla metà del secolo scorso, come John Courtney Murray e lo storico Theodore Maynard, hanno messo questo tema al centro della loro lettura della storia cattolica degli Stati Uniti. Con un tocco di prescienza Murray sentenziò che, se il cattolicesimo non riempiva il vuoto culturale creato dal morente protestantesimo tradizionale, il «nobile palazzo della democrazia [avrebbe potuto] essere smantellato, livellato fino alle dimensioni di un piatto maggioritarismo, che non è un palazzo ma un fienile, forse un capanno degli attrezzi nel quale forgiare le armi della tirannia».

È questo l’argomento che i vescovi degli Stati Uniti hanno cavalcato nella loro sfida alla decostruzione della società civile perpetrata dall’amministrazione Obama attraverso l’ingiunzione del Dipartimento della Sanità su contraccettivi, pillole abortive e sterilizzazione: qual è la natura della democrazia americana e delle libertà fondamentali che il governo deve proteggere? Chi sono i veri patrioti, gli uomini e le donne che sono in grado di dar conto della tempra morale della nazione e di sostenere una democrazia genuina contro una crescente dittatura del relativismo nella quale «forgiare le armi della tirannia»?

La discussione oggi non riguarda l’assimilazione: piuttosto riguarda chi sia in grado di “cogliere” l’America, di capire davvero il carattere americano e la natura della libertà. E questo mette in una posizione impegnativa i cattolici e gli alleati tra i protestanti evangelici, i mormoni e gli ebrei tradizionali che, con i cattolici seri, ancora aderiscono a quelle che secondo Murray sono le verità fondamentali della democrazia americana.

La sfida ora è dare all’America una rinascita della libertà rettamente intesa, basata su quelle verità: una rinascita della libertà di nuovo innestata su fondamenta di verità morali trascendenti sulla persona umana, sul principio del governo-basato-sul-consenso, sul riconoscimento della priorità della società civile rispetto allo Stato, e sull’affermazione esistenziale del legame tra la virtù personale e civica e la libertà vissuta nobilmente.

Questa sfida non può essere accolta dai “cattolici adulti” [Catholic Lite, i “cattolici leggeri”, da un’espressione che richiama le bibite gassate, NdT]. In effetti, uno degli indicatori più significativi della fine del progetto del “cattolicesimo adulto” è stata l’inutilità del cattolicesimo “progressista” nella battaglia per la libertà religiosa, una battaglia la cui importanza è manifestamente sfuggita alla maggior parte dei cattolici “progressisti”. La sfida non verrà raccolta nemmeno dai cattolici tradizionalisti che si ritirano nelle catacombe che si sono costruiti da sé.

La sfida può essere raccolta solo da un cattolicesimo robustamente evangelico, in grado di proclamare audacemente che Gesù Cristo è la risposta alla domanda in cui consiste ogni vita umana; un cattolicesimo capace di ciò perché la conversione è stata approfondita da una predicazione, una catechesi e una formazione efficaci. Quella sfida può essere raccolta solo da un cattolicesimo esigente, a tempo pieno, evangelicamente appassionato, che modelli comunità di compassione e nobiltà, le cui vite segnalino un netto contrasto all’individualismo radicale e alla solitudine della postmodernità, descritta in modo così pungente da papa Francesco negli ultimi mesi.

Quella sfida può essere raccolta solo da un cattolicesimo pubblico in grado di articolare in modo convincente le verità su cui poggia ogni società civilizzata, come la verità del diritto inalienabile alla vita dal concepimento alla morte naturale, la verità sul matrimonio, la verità che la libertà religiosa sia la prima libertà, e la verità che ciascuno di noi è chiamato a vivere la propria libertà in modi che servano il bene comune e gli ultimi tra i fratelli del Signore.

Questo genere di cattolicesimo evangelico può aiutare a rivivificare la società civile in America. Questo genere di cattolicesimo evangelico può aiutare l’America del XXI secolo a rispondere positivamente alla domanda di Francis Scott Key (1814), se la “bandiera adorna di stelle” [Star-Spangled Banner, titolo dell’inno degli Stati Uniti, NdT] ancora si agiti sopra una terra di libertà e una patria di coraggio.

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George Weigel è titolare della cattedra di Studi cattolici intitolata a William E.Simon, presso l’Ethics and Public Policy Center (Washington, D.C.). Autore di una famosa biografia di Giovanni Paolo II (Testimone della speranza, 2005), ha pubblicato diversi volumi tradotti in varie lingue: La cattedrale e il cubo (2006), Benedetto XVI. La scelta di Dio (2006), La Chiesa spiegata a chi non crede (2008), Lettere a un giovane cattolico (2009).