Sant’Agostino, una riscoperta fuori dai miti rivoluzionari

agostinoArticolo pubblicato su Il Corriere della Sera del 28 agosto 1

NEL SEDICESIMO CENTENARIO DELLA CONVERSIONE

di Augusto Del Noce

Ricorre quest’anno il sedicesimo centenario della conversione di Sant’Agostino che avvenne nella tarda estate del 386 a Cassiciacum, paese della Lombardia che i più identificano con Cassago in Brianza e altri, fra cui il Manzoni, con Casciago nel Varesino. Già sono annunciati due convegni, uno a Varese ai primi di ottobre in cui si parlerà dei tre scritti composti a Cassiciacum, Contro gli accademici,

La felicità, L’ordine; e un altro in primavera a Milano, nel quale il ricordo del battesimo di Sant’Agostino per mano di Sant’Ambrogio sarà occasione di più giornate di studio dedicate ad approfondire le circostanze e l’ambiente in cui avvenne: e altri certamente sono in preparazione.

Veramente a sentir parlare di convegni in occasione di centenari è difficile non sentirsi accapponare la pelle, tanti se ne verificano; e la prima parola che si affaccia è “consumismo” pensando ai tanti convegnisti che saranno inviti, e che di certo non hanno di regola il commemorato in cima ai loro pensieri. Viene in mente l’avversione che per questo tipo di feste centenarie aveva Croce; e certamente gli incontri coi grandi del passato non sono misurati dalle date e non saprei lì per lì, almeno, ricordare esempio di opera di ampio respiro su un qualche autore i cui la data centenaria sia stata l’occasione.

Però nel caso delle celebrazioni agostiniane non è affatto così, e si può dire che corrispondano ad una necessità centenaria o meno. Si tratta infatti di ricordarsi, in tante discussioni, sulla tradizione o sul rinnovamento che sempre agostiniano era rimasto fino ai tempi più recenti nella Chiesa il linguaggio della pietà, e che questo linguaggio dipende da una metafisica e da una teologia che correntemente sono indicate nelle storie della filosofia come “metafisica dell’interiorità” o come “filosofia della conversione”. La grande opera di Sant’Agostino è l’aver trasmesso alla Chiesa la scienza dell’uomo interiore.

Proprio per questo il richiamo al suo pensiero si presenta necessario nei momenti in cui la Chiesa attraversa o ha attraversato una crisi; di quale importanza sia stata questa, non ancora conclusa, dall’ultimo quarto di secolo, non è chi non sappia.

Oggi però si è sulla via di quella che il cardinale Ratzinger chiamò restaurazione, restituendo a questo termine disusato o disprezzato il suo significato autentico; e parole come “desacralizzazione”, “demitizzazione”, “secolarizzazione” e simili sono talmente logore che non c’è più pubblicista che non si trovi imbarazzato a pronunciarle, anche se non sa – o meglio se non gli è possibile – sostituirle.

Di più, l’agostinismo nel passato, in ragione stessa della ricchezza dei suoi aspetti è stato chiamato in molte occasioni quale appoggio alle varie forme del pensiero eterodosso; chi vuole vederne la storia non ha che da consultare il libro del cardinale De Lubàc su agostinismo e teologia moderna, tradotto presso Jaka Book, oggi si presenta come libero da questi fraintendimenti, se non altro perché, nella loro prosecuzione, hanno preso altra strada.

Si tratta dunque in questo centenario in qualche misura di una riscoperta se si pensa a quanto sia gravato nell’ultimo quarantennio il discredito maxiano o positivista o psicanalitico sull’idea dell’interiorità come luogo della verità; e quanto a tale discredito siano stati sensibili molti teologi.

Non che Sant’Agostino non sia stato studiato in questi ultimi decenni, che anzi è stato fatto oggetto di moltissime ricerche: ma è stato considerato soprattutto nell’aspetto della “restituzione al suo tempo”, criterio che è perfettamente valido se si allude al fato che Sant’Agostino appartiene a quei pensatori in cui la verità non può essere scissa dall’itinerario vissuto attraverso cui vi perviene (l’essersi fato “questione a se stesso”); ma tale criterio cessa di essere valido se si vuole definire il pensiero di Sant’Agostino come appartenente a un determinato e ormai lontano periodo della storia del cristianesimo. I due criteri si sono troppo spesso confusi, o li si è voluti confondere, per confinare l’agostinismo nel passato.

Certamente, l’epoca in cui visse Sant’Agostino segnò, almeno dal punto di vista ideale, la maggiore crisi dell’Occidente tra quelle che antecedono la nostra. E tuttavia non bisogna neanche eccedere nell’analogia. Crisi di valore, indubbiamente, allora e oggi. Ma allora il dato di fatto che appariva irreversibile era l’espansione del cristianesimo, pur turbato da conflitti ed eresia, e l’estinguersi senza speranze del paganesimo.

Di un paganesimo in cui le credenze religiose erano ormai spente, e le cui sopravvivenze prendevano le forme di uno scetticismo talvolta pessimistico, più spesso edonistico e opportunistico, fenomeni che inevitabilmente si riproducono nei periodi di crisi. E naturalmente si accompagnano ad essi, come avviene anche oggi per necessità di associazione, l’astrologia e l’occultismo, quale remissione alle stelle della responsabilità dei propri atti, e dall’astrologia fu tentato anche Agostino appena uscito dal manicheismo.

Oggi, se è vero che la Chiesa è ancora sulla difensiva, sembra però che per essa sia passato il periodo peggiore, e che invece sia già idealmente fallita quella rivoluzione che voleva sostituirla, almeno nell’aspetto di fede rivoluzionaria.. L’idea di un recupero di valori della tradizione cristiana e cattolica non appare più illusione utopica; anche se c’è da sgombrare il campo dalle tante macerie di una rivoluzione mondiale che è fallita, che rimangono e che inondano anche il campo avverso. Ma quel che soprattutto merita di essere osservato è che gli avversari che essa incontra sono quegli stessi, nella loro forma moderna, contro cui Sant’Agostino aveva combattuto: il manicheismo e il pelagianesimo.

Il manicheismo, o lo gnosticismo con cui già allora in parte si confondeva o si confonde oggi, è caratterizzato da un dualismo radicale: mondo del male, il presente, mondo del bene, l’aldilà; nella moderna posizione rivoluzionaria questo dualismo si è riprodotto, anche se all’aldilà si è sostituito il futuro, per la sostituzione del punto di vista antropologico al cosmologico.

Nella forma, ognuno l’intende, di quella secolaristica mistica secolarizzata che fu il comunismo. Vero è che oggi questa mistica si è spenta a tal punto che è perfino difficile evocarne il ricordo; non che il comunismo non ci sia più, non che non rappresenti pericoli, ma quel che è certo è che non è più sentito come quella religione che doveva sostituirsi al cristianesimo, di cui parlavano i Gramsci, i Lukàcs, i Bloch.

Ma a questo avversario esterno se ne aggiungeva un altro interno rappresentato non più da una religione secolare, ma da una secolarizzazione del cattolicesimo. E in questa secolarizzazione diventava necessario l’incontro con l’altro grande avversario di Agostino, Pelagio.

 Perché carattere proprio delle nuove teologie è la sufficienza della natura a se stessa; senza questo fondamento ideale non ci sarebbe quella laicità che permetterebbe il compromesso storico con le altre volontà e in particolare col comunismo. Al peccato di origine si sostituirebbe un peccato sociale o storico; e la grazia si aggiungerebbe come “un di più” a un’autosufficienza naturale, o la religione prenderebbe un aspetto vitalizzante, per cui la vita si sostituirebbe alla verità.

Il recupero delle idee di peccato e di grazia permettere di comprendere le due principali, o almeno più note, opere di Sant’Agostino, Le Confessioni e poi La Città di Dio: oggetto dell’una e dell’altra è la lotta tra il bene e il male, vista nella prima nell’individuo, nella seconda nell’intera storia del mondo. Giustamente il Cremona nel suo bel libro su Agostino d’Ipponia che ha pubblicato quest’anno presso l’editore Rusconi, mette in rilievo come Le Confessioni sia tale libro che non ha precedenti né successive imitazioni.

Esce dai generi letterari consueti: dalla memorialistica, dai testamenti spirituali, e anche dai libri di carattere religioso ed edificatorio. I protagonisti sono la miseria dell’uomo che Agostino riconosce e, per così dire, misura in se stesso, e la misericordia di Dio. Non si può non pensare, per esatta antitesi, alle Confessioni e La Città di Dio nell’idea già presente in San Paolo e svolta da Sant’Agostino soprattutto nei Sermoni, sulla Chiesa come corpo mistico di Cristo, di cui tutti nella Terra universa, così gli uomini del presente come quelli del passato e del futuro sono membra.

Occasione prossima della Città di Dio fu la conquista e il sacco di Roma, da parte dei Goti di Alarico il 24 agosto 410. Roma non era la città invincibile? Non poteva dunque la sua caduta ritorcersi nella peggiore accusa contro il cristianesimo? Verissimo, ben pochi credevano ormai più negli dei pagani. Ma c’erano ancora i rappresentanti della culturache oggi diremmo laica e razionalista: per costoro il cristianesimo era l’altra faccia ella barbarie. La ferocia dominava nei barbari, la superstizione e l’ignoranza nei cristiani, e spesso i due mali si mescolavano.

Il cristianesimo aveva fiaccato quella resistenza interna che aveva fatto del popolo romano il “principe della Terra”; e poco importa che il popolo prendesse coscienza di sé attraverso miti se questi miti portavano a un dominio che era insieme civiltà. La risposta di Sant’Agostino è che «noi quindi troviamo nella città terrena due modelli, l’uno che attesta la propria presenza, l’altro che per mezzo della sua presenza è simbolo della città celeste.

La natura corrotta per il peccato genera perciò i cittadini della città terrena, mentre la grazia che libera la natura dal peccato genera i cittadini della città celeste» (Libro XV, 2). Le due città sono confuse nella storia dal principio alla fine, e i loro confini non coincidono con la Chiesa e con lo Stato. La città terrena si fonda sulla libido dominandi, e la caduta della Roma pagana era in certo modo già iscritta nella sua origine.

Come giustamente è stato detto dal cardinale Ratzinger nella Città di Dio, «Dio precede la “civitas” mentre nella città terrena la “civitas” precede i suoi dei». Anche chi prescinda dalla parte teologica non può non essere portato a sentire l’attualità di Sant’Agostino nella considerazione di tanti e tanti aspetti della politica d’oggi.

La Città di Dio è opera di grandi dimensioni, in 22 libri, e suscita tanti e tanti problemi, così che ovviamente non è qui possibile parlarne che per minimi accenni né si riesce a trovare – o almeno io non la trovo – una frase sintetica che possa abbracciarne il significato. Rischiando il paradosso dico che tra le grandi opere di filosofia della politica è quella che oggi più consiglierei per un’attualità che è sconcertante.