Trasmettere le «regole» in democrazia

comizioStudi cattolici n.633 – novembre 2013

Con la modernità si è imposta l’idea scientifica dell’universo quale spazio infinito, omogeneo, retto dalla sola geometria. Il mondo non è più una società gerarchicamente ordinata in cui ciascuno è più o meno obbligato a occupare il posto che gli è assegnato, ma una società democratica di cittadini eguali in diritto, in cui i posti sono per principio offerti a tutti.

La tesi di Olivier Rey, docente di Filosofia all’Università Panthéon-Sorbonne, è che l’àmbito in cui il principio democratico pone i problemi più acuti è l’educazione. La partecipazione al processo democratico suppone il rispetto di certe regole che devono essere ricevute dall’esterno. V’è una tensione tra la parte di eteronomia non democratica che comporta l’educazione alla democrazia e il dispiegarsi della democrazia a cui questa educazione mira.

La tentazione è di rinunciare all’autorità e di fare affidamento sulla natura, che, tuttavia, lasciata a sé stessa non dà per nulla la libertà individuale: «L’impulso del solo appetito è schiavitù», ha scritto Rousseau. Inoltre, soggiunge Rey, l’autorità per esercitarsi ha bisogno di incarnarsi nelle istituzioni, mentre durante il mezzo secolo trascorso si è spesso ritenuto che l’individuo debba strappare la libertà alle istituzioni che cercano di sottrargliela, ma credere che la libertà arrivi solo con la scomparsa dell’autorità è cedere all’illusione della colomba che si immagina di volare più in fretta nel vuoto, senza la resistenza dell’aria, mentre non potrebbe neanche decollare.

Olivier Rey

Lo storico Fernand Braudel ha detto che la modernità cominciava da qualche parte tra il 1400 e il 1800. Non bisogna stupirsi di una forbice temporale così larga: infatti, un avvenimento così considerevole – come l’avvento di quel che chiamiamo modernità – non ha potuto compiersi in un giorno, e neanche in un secolo. Galileo ha parlato, sul piano scientifico, di un «rifacimento del cervello degli uomini». Di fatto, il passaggio dall’epoca medievale all’epoca moderna va di pari passo con un cambiamento molto profondo nei modi di pensare: un passaggio dal pensiero «analogico» al pensiero «naturalista».

Gli europei hanno progressivamente smesso, man mano che entravano nella modernità, di abitare un kosmos – spazio finito, differenziato, gerarchicamente ordinato – per vivere nell’universo moderno – spazio infinito, omogeneo, retto dalla sola geometria. Il kosmos degli Antichi era, per definizione, ben ordinato: nell’Iliade, la parola designava una messa in ordine, l’eleganza nata da una buona disposizione; solo alcuni secoli più tardi il termine giunse a essere utilizzato per designare la totalità che noi chiamiamo mondo (il cosmo si opponeva al caos).

L’Occidente medievale ha ripreso dall’Antichità l’idea di cosmo, concepito ormai come creazione divina. Il cambiamento introdotto dal Dio creatore è immenso, ma, sia nella prospettiva antica sia in quella medievale, il mondo si trovava senza difficoltà provvisto di un’unità e di un senso, percorso da analogie o da corrispondenze.

È questo carattere comune tra il cosmo antico e il cosmo medievale che ha permesso al Medioevo cristiano di stringere alleanza con la fisica di Aristotele, per il quale ogni cosa aveva il suo posto «naturale» nello spazio, diviso tra mondo celeste, regolare e perfetto, e mondo terrestre, «sublunare», luogo di cambiamenti, di cose che nascono e muoiono.L’epoca moderna ha rotto con simili rappresentazioni.

Per spiegare che gli astri seguono traiettorie cicliche, mentre gli oggetti che noi conosciamo cadono a terra, la fisica aristotelica immaginava che, se nel nostro mondo tutto è composto di aria, di fuoco, di terra e di acqua, quel che si estende al di là della luna è fatto da un quinto elemento, «quintessenza», di proprietà differenti. La fisica del Rinascimento ha abolito questa frontiera tra il sublunare e il sopralunare, e Newton ha mostrato che quel che fa muovere gli astri nel cielo e cadere gli oggetti a terra è della stessa natura.

Lungo la scia della separazione terrestre-celeste, tutte le antiche divisioni cosmiche sono state cancellate, insieme alle nozioni di ordine prestabilito, di gerarchie, di rapporti analogici, di armonia che erano legate a esse, per lasciare posto a uno spazio uniforme, senza luoghi privilegiati né senso intrinseco, retto in ogni parte da leggi identiche, che si applicano a oggetti formati nella stessa maniera sotto forme diverse, e che hanno tutti lo stesso statuto ontologico.

All’interno di un kosmos l’ordine è di tipo analogico. L’analogia non è una rassomiglianza qualsiasi: essa non apparenta due termini, ma due serie di termini. Essa concerne non degli oggetti, ma delle relazioni tra oggetti, spesso secondo un’idea di proporzionalità: A è per B quel che C è per D. Un esempio tipico è l’astrologia: mentre il mondo terrestre e il mondo celeste erano chiaramente distinti, l’astrologia stabiliva un livello di rapporti analogici tra i fenomeni celesti e i fenomeni terrestri. Rapporti di questo tipo costituivano nel Medioevo un modello ideale di apprendimento della realtà. E giocavano un ruolo eminente nel modo che la società aveva di pensarsi e di organizzarsi.

Al microcosmo rispondeva il macrocosmo; alla società nel suo insieme, la famiglia patriarcale organizzata secondo gli stessi princìpi. Lo Stato era paragonato a un corpo di cui il Re era la testa, e i sudditi le membra. Il rapporto del bambino con i suoi genitori, in seno alla monarchia paterna, era omologo al rapporto del Re con Dio; ugualmente la relazione della sposa con il marito, modellata sul contratto vassallatico che dominava la società e le rappresentazioni, o la relazione tra il prete e i suoi parrocchiani, immagine di quella di Cristo con la Chiesa. Il padre, in seno alla famiglia, aveva l’onere delle anime, secondo il doppio modello: feudale del Re o del signore con le persone loro soggette e religioso del pastore con le pecore ecc.

Con il passaggio dal kosmos all’universo omogeneo e infinito, la situazione cambia completamente. La modernità rompe con le strutture a priori del mondo. Le strutture continuano a esistere, ma ormai non possono più essere pensate se non come risultato dei processi di cui il mondo è costituito, tanto sul piano materiale quanto sul piano umano.

Le differenze non sono più ciò che spiega il mondo, ma al contrario ciò che è sempre da spiegare, sullo sfondo di un’indifferenziazione originale. Tutti i fenomeni naturali sono riferiti, in ultima analisi, a interazioni tra particelle. Quanto al mondo umano, esso è il prodotto esclusivo degli uomini, della loro attività, dei loro scambi, dei loro confronti. In un contesto simile, l’autorità diventa problematica.

L’autorità, infatti, supera sempre il suo detentore, essa si esercita solo in virtù di un qualcosa di indisponibile che fino a quel momento risiedeva nella religione e nella tradizione. Ragione per la quale Hannah Arendt considerava che religione, tradizione, autorità fossero legate da un destino comune. Religione, certamente, significa un legame tra gli uomini. Ma poco importa il tipo di legame: la religione riunisce in virtù di un riferimento comune a un punto esterno. Essa perde la sua aura quando la divinità è considerata come una creazione umana.

Ugualmente, la tradizione si spoglia di ogni sacralità, non ingloba più in sé una parte dell’esteriorità religiosa, ed è soltanto inerzia del passato: ciò che gli uomini hanno fatto, possono disfarlo. Non restano, come ciò che indisponibile, se non le leggi scientifiche. Ma queste sono, per principio, perfettamente neutre su quel che conviene fare, esse indicano delle possibilità o delle impossibilità, e restano mute in merito agli orientamenti generali che gli uomini devono dare alle loro azioni.

La scienza moderna, situandosi fuori dal bene e dal male, non saprebbe informare su quel che è buono o cattivo da perseguire. Perciò, l’autorità che essa fonda è molto parziale, non potendo dispiegarsi se non quando siano stati fissati degli scopi, che non sono di sua competenza. Occorre rinunciare completamente e definitivamente all’autorità?

Un nuovo contesto educativo

Il progressivo indietreggiare dell’analogismo (indietreggiamento più che cancellazione: le forme di pensiero non sono mai così nette nella realtà come, invece, nelle classificazioni sul foglio), a profitto del naturalismo, ha portato con sé i regimi politici che giustificava e l’avvento della democrazia. Rispetto alla democrazia, gli altri regimi soffrono del loro illusionismo, della finzione che sostiene la loro legittimità, o soffrono della loro illegittimità che solo la forza oppressiva è in grado di compensare. Il paragone torna a loro svantaggio e li rende fragili. Tuttavia, anche la democrazia non è esente da fragilità.

L’àmbito in cui il principio democratico pone i problemi più acuti non è il funzionamento politico, ma l’educazione. La situazione antica, se così si può dire, era semplice. L’autorità era sia ciò che presiede va alla formazione di un soggetto, lo faceva soggetto alle leggi, e un principio che strutturava la società nel suo insieme. La situazione moderna è più complessa: fine della continuità, dell’«armonia prestabilita» tra lo strumento dell’educazione e il mondo al quale educa.

Il mondo non è più una società gerarchicamente ordinata secondo princìpi ereditati, in cui ciascuno è più o meno obbligato a occupare il posto che gli è assegnato, ma una società di cittadini eguali in diritto, in cui i posti sono per principio offerti a tutti; non si tratta più di stabilirsi in un quadro prestabilito, ma di riconoscere questo quadro come un’opera comune in perpetuo rinnovamento, a seconda dei dibattiti ai quali ciascuno è invitato a prender parte.

Stante ciò, il rifiuto dell’eteronomia a livello della società – che significa che questa si dà da sé stessa le sue regole – non significa che le regole siano alla mercé dell’individuo. Quest’ultimo non ha presa su di esse se non attraverso la partecipazione al processo democratico, partecipazione che suppone il rispetto preliminare di certe regole che nessuno porta con sé nascendo e che devono dunque essere inculcate.

I fondatori della democrazia, che hanno emanato le prime leggi, non sono essi stessi sfuggiti a questa necessità, non hanno compiuto la loro opera dopo un’anomia originale, ma a partire dai princìpi che avevano ricevuto dalla loro educazione. I Rivoluzionari non erano figli della natura, ma figli dell’Ancien Régime, delle sue leggi, dei suoi filosofi. E per quanto «naturali» si volessero i loro princìpi, nessun bambino li trae dal suo fondo.

In altri termini, prima di poter partecipare all’autonomia democratica – che, del resto, suppone una parte perdurante e inerente di eteronomia – c’è sempre dell’Altro nella legge –, l’individuo deve passare da una fase in cui riceve dall’esterno le leggi a cui sarà invitato, successivamente, ad appropriarsi, nella misura in cui precisamente comincia a rispettarle.

Qui appare una tensione tra quel che impone l’educazione per compiere la sua missione – una fase di dipendenza, di assegnazione al ruolo di chi sa, di eteronomia – e lo stato al quale deve iniziare a condurre – quello di adulto autonomo, senza posto assegnato, libero dal suo destino. Tensione tra i principi che ispirano l’azione educativa e il loro regno differito nel corso di quest’azione, tra la parte non democratica che comporta l’educazione alla democrazia e il dispiegarsi della democrazia, a cui questa educazione mira.

Se la legge viene inculcata in modo autoritario, il rischio è che la legge sia meno trasmessa dei rapporti di autorità, l’abitudine a sottomettersi o, come reazione, atteggiamenti tirannici in contraddizione con lo scopo perseguito. La tentazione è, per contro, di rinunciare all’autorità, che, del resto, manca di riferimenti ai quali appoggiarsi: né la scienza né i diritti dell’uomo fondano la posizione dell’educatore.

Al punto tale che nei testi dell’Unione europea, ogni menzione all’autorità parentale è stata soppressa, sostituita dalla sola «responsabilità parentale». Poiché l’autorità fa problema, la si sopprime. Ma il problema che l’autorità è obbligata a regolare, l’incontro con la legge, come viene trattato?

La proposta della Sfinge

Kant ha riconosciuto nell’educazione «il più grande e più difficile problema che possa essere proposto all’uomo». Perché questa difficoltà? Per la stessa ragione che, più tardi, condusse Freud a includere l’educazione tra i compiti impossibili. A causa di questo paradosso: non c’è educazione senza discipline imposte dal di fuori, senza obblighi – coloro che li negano o non educano o fanno pressione senza accorgersene – e, al tempo stesso l’educazione, in senso a una società moderna e democratica, ha per vocazione di formare degli esseri liberi.

La tentazione, per evitare la tensione, è di fare affidamento sulla natura. Tuttavia la natura, lasciata a sé stessa, non dà per nulla la libertà individuale e la democrazia: non è un caso se queste ultime abbiano necessitato di tempo per imporsi! Affidandosi alla natura, non ci si libera dalle tare del passato, ci si vota piuttosto al loro violento risorgere (un fenomeno estremamente ben illustrato dal romanzo di William Golding, Il signore delle mosche: una banda di bambini abbandonati a sé stessi su un isolotto paradisiaco del Pacifico non costruisce, liberata dalla tutela degli adulti, la società ideale di cui sognavano le avventure alla Robinson Crusoe del XIX secolo, ma si organizza per mezzo della violenza e reinventa una proto-religione fondata sul sacrificio umano).

Hannah Arendt aveva scorto la difficoltà principale con cui dobbiamo confrontarci: «Nel mondo moderno, il problema dell’educazione sta nel fatto che, per sua natura, non può disdegnare l’autorità, né la tradizione e, tuttavia, deve esercitarsi in un mondo che non è strutturato dall’autorità, né basato sulla tradizione». Per preservare il principio d’autorità nell’educazione Hannah Arendt faceva appello alla semplice differenza generazionale. «È proprio degli adulti adottare [verso i bambini e i giovani] un atteggiamento radicalmente diverso da quello che adottano gli uni verso gli altri. Dobbiamo fermamente separare l’àmbito dell’educazione dagli altri àmbiti, soprattutto quello della vita politica e pubblica.

Ed è al solo àmbito dell’educazione che dobbiamo applicare una nozione di autorità e un atteggiamento verso il passato che loro convengono, ma che non hanno un valore generale e non devono pretendere di detenere un valore generale nel mon do degli adulti». Una differenza di atteggiamento così marcata, verso bambini e adulti, è perfettamente giustificabile.

Trattare un bambino come individuo non autonomo non è un diniego, ma un riconoscimento di umanità. Il lungo periodo dell’infanzia è una specificità della specie umana, la cultura esiste solo in virtù di questa insufficienza che dura, che richiede molte cure e permette in cambio la trasmissione e l’accumulazione dei dati acquisiti da una generazione all’altra.

Ci si ricorda l’enigma posto dalla Sfinge a Edipo: «Qual è l’essere che cammina sia con due zampe, sia con tre, sia con quattro, che è il più debole quando ha più zampe?». La risposta  è l’uomo, colto come colui che compie un percorso – bambino, adulto, vecchio (la vecchiaia è anch’essa un’età specificamente umana, permessa dalla civiltà, un’età strappata alla natura e che strappa da essa). La tragedia di Edipo sta nel fatto che occupa i tre posti simultaneamente: l’età adulta che è la sua, ma anche la vecchiaia (prende il posto di suo padre), e l’infanzia (è fratello dei suoi figli).

La definizione proposta dalla Sfinge si distingue da quelle, statiche, che cercano di cogliere l’umanità da una qualità particolare: il linguaggio, la ragione, l’atteggiamento politico, ecc. Essa è profonda perché è attraverso questo percorso che le qualità umane sono rese possibili. La tendenza a cancellare il percorso, proclamando autonomo il bambino e volendo il vecchio sempre giovane, avvicina bizzarramente l’umanità all’animalità.

Educare significa accettare la tensione

Un elemento nuovo è sopraggiunto dall’epoca in cui Hannah Arendt scriveva. Il grande progresso nel controllo delle nascite, con mezzi sicuri di contraccezione e la liberalizzazione dell’aborto, fa sì che ormai in Occidente il bambino esca da un «progetto parentale». La ripercussione sui rapporti in seno alla famiglia è considerevole. «Che il bambino sia frutto del “desiderio del bambino” ha provocato e provoca enormi conseguenze psicologiche e sociali.

Da un certo punto di vista, si può dire che il bambino non smette di voler interrogare, nella relazione educativa ma anche nella relazione quotidiana, su tutto e niente, i suoi genitori per verificare che è proprio un bambino di “desiderio del bambino”: “Perché ti opponi a quel che voglio fare, al mio desiderio, dal momento che mi hai desiderato?”», tale è l’interrogativo subliminale che percorre e domina l’insieme delle relazioni figlio-genitori, mentre i genitori, da parte loro (la madre più in particolare), si pongono senza sosta la domanda contraria: «Ma perché mi oppongo al suo desiderio dal momento che l’ho desiderato?».

In nome di che cosa i genitori reprimerebbero i desideri dei loro figli, quando hanno obbedito ai loro per averli? Agenti della vita, i genitori erano inscritti in un ordine che li superava, e, in cambio, legittimava la loro autorità. Dispensatori della vita, sono lasciati a sé stessi, senza appoggio esteriore.

I figli percepiscono questa fragilità dei genitori nei loro riguardi, rafforzata dal restringersi delle famiglie e, all’occorrenza, attraverso la concorrenza dei genitori separati per farsi amare, o la vulnerabilità di alcune madri sole. Il registro affettivo comincia a escludere tutti gli altri. Tanto che, nei confronti della società trasformata in giganteschi campi di competizione tra gli individui, in tutti gli àmbiti, corrispondenti ai dissesti economici e sociali, la famiglia assume sempre più l’aspetto di un rifugio, di un’oasi di pace, di un’enclave preservata.

Ogni specie di tensione appare allora contraddittoria con quel che si attende da essa – che si tratti di rapporti di coppia o di genitore-bambino. La dottrina del bambino autonomo, cittadino, costruttore di sé stesso ha guadagnato una nuova seduzione: dispensando dall’autorità che è ripugnante esercitare, autorizzando a limitarsi senza rimorsi alle effusioni, ad «approfittare» dei bambini, padri e madri cedono interamente il posto ai papà e alle mamme.

D’altra parte la domanda «che cosa trasmettere» non ha una facile risposta. Il Vangelo di Matteo riporta la parabola del padre che domanda ai suoi due figli di andare a lavorare la vigna. L’uno accetta e non ci va; l’altro rifiuta, ma poi si ravvede e ci va. Nel primo caso si ha a che fare con un’educazione mancata: dietro l’acquiescenza, l’obbedienza di facciata, la necessità di lavorare la vigna è rimasta lettera morta. Nel secondo caso, l’educazione è riuscita: la preoccupazione della vigna è stata trasmessa. Ma questa trasmissione, per essere effettiva, ha un prezzo: a un certo punto c’è il «no» del figlio al padre. Non è aneddotico, sussidiario.

Quel che viene appreso, lo è veramente solo se è oggetto di un’appropriazione. Per questo la legge, o il sapere, devono poter essere staccati da coloro che lo trasmettono – il che suppone una possibilità di opporsi ai maestri, e una possibilità che deve, a un certo punto, verificarsi nei fatti. L’episodio evangelico riprende, a modo suo, quel che era già avvenuto con le tavole della Legge: le prime, scritte dal dito di Dio, sono state rotte dalla collera di Mosè davanti al popolo che adorava il vitello d’oro. Sono solo le seconde, in cui Mosè ha consegnato di nuovo l’insegnamento divino, che sono state ricevute e seguite.

Nella parabola della vigna, il rifiuto ha permesso al figlio di separare quel che ha ricevuto dall’autorità. Educare significa accettare la tensione, trasmettere sostenendo questo paradosso: che un’educazione riuscita deve passare da un momento di negazione. Un rifiuto non è mai facile da assumere. In nome di che cosa esporsi? In nome del fatto che colui che lo subisce costata, in fin dei conti, che la vigna è coltivata. Questo punto fa misurare i limiti della parabola evangelica riguardo alla situazione odierna.

Certamente, la cura della vigna non è che un esempio, al quale si potrebbe sostituire qualsiasi altro elemento. Occorre anche che gli elementi in questione siano chiaramente identificabili. Questo era il caso nelle società tradizionali, in cui le generazioni si succedevano con lente variazioni. Non è più così nelle società che evolvono rapidamente.

L’industrializzazione ha sradicato gli uomini, li ha votati a un lavoro fuori dalla famiglia, ha rotto le filiazioni professionali; lo sviluppo tecnico non smette di svalutare il saper fare e la società cambia volto più in fretta del rinnovarsi delle generazioni. Quale dev’essere l’oggetto della trasmissione? Come saperlo, quando non si è più molto sicuri su di sé e di ciò a cui si tiene?

E anche qualora lo si sapesse individualmente, ciò non basterebbe. Infatti, quel che fa la differenza tra l’autorità e la tirannia è il fatto che l’autorità non si esercita in nome proprio, ma in nome di un certo ordine al quale si è noi stessi sottomessi. Ma è assolutamente indispensabile che quest’ordine sia socialmente sostenuto per esistere in quanto tale.

L’umanità non è ereditaria

Giungiamo dunque a queste costatazioni, che si ha un po’ di fastidio a formulare tanto sono semplici. L’umanità non è ereditaria, solo l’attitudine all’umanità lo è. Si diventa umani solo in virtù di un’educazione. Con le parole di Kant: «La disciplina trasforma l’animalità in umanità. Con il suo istinto un animale è tutto quel che può essere: una ragione esterna a lui si è già presa cura di tutto. Ma l’uomo deve far uso della sua ragione. Non ha istinto e deve elaborare da sé stesso il piano della sua condotta.

Ora, dal momento che non è immediatamente capace di farselo, ma invece viene al mondo allo stato bruto, bisogna che altri lo facciano per lui. La specie umana deve, a poco a poco, col proprio sforzo, trarre da sé stessa tutte le qualità naturali dell’umanità. Una generazione educa l’altra». Ed essa non può farlo senza far ricorso al principio di autorità. Esso è indispensabile per l’educazione di esseri che hanno la vocazione alla libertà (non si nasce liberi – «l’impulso del solo appetito è schiavitù» ha scritto Rousseau –, lo si diventa eventualmente, fino a un certo punto, in virtù di un’educazione).

Poiché l’autorità non ha senso senza una dimensione sociale, che la differenzia dalla tirannia individuale, essa ha bisogno per esercitarsi di incarnarsi nelle istituzioni. Troppo spesso, durante il mezzo secolo trascorso, il rapporto tra l’individuo e le istituzioni è stato concepito come un duello: l’individuo deve strappare la sua libertà alle istituzioni che cercano di portargliela via. Questo succede. Ma concludere, a causa della malattia che può strappare un organo, che si vivrebbe meglio senza quest’organo è un’assurdità: prima di far ammalare, l’organo permette di vivere. Così le istituzioni, prima di costringere l’individuo, talvolta abusivamente, lo formano.

Credere che il regno della libertà arriverà solo il giorno in cui l’autorità sarà scomparsa è cedere all’illusione della colomba di cui parlava Kant, che si immaginava, provando la resistenza dell’aria che frenava il suo volo, che nel vuoto sarebbe andata più in fretta. Ma nel vuoto, non sarebbe neanche decollata. La democrazia e la libertà hanno delle condizioni di esercizio. Che l’educazione non deve considerare come acquisite in partenza, mentre le spetta precisamente metterle in gioco.