Moralità e moralismo (*)

moralismoTrascrizione, riveduta e annotata dall’autore, dell’intervento all’incontro promosso dalla Fondazione Magna Carta che si è svolto presso la Sala del Consiglio Maggiore del Palazzo Comunale di Norcia sabato 20 e domenica 21 ottobre 2012 dedicato a “Etica e crescita nella crisi del Duemila“,

di Giovanni Formicola

Grazie per questo invito e buonasera.

Quando si parla di etica, innanzitutto, ci si deve mettere d’accordo, com’è ovvio, sul senso della parola.

C’è chi distingue – distinzione che a me sembra fondamentalmente cervellotica – tra etica e morale. Mi sembra invece più utile, al fine della necessaria chiarificazione di senso, distinguere tra morale, da intendersi come termine equipollente ad etica, quindi moralità, e moralismo. Il paradigma di questa distinzione/chiarificazione lo troviamo una volta per tutte, e dico io «come sempre» quando si vuol capire davvero, nel Vangelo, che può essere utilizzato anche come prontuario filosofico.

La differenza autentica, alla stregua della «buona notizia», è dunque fra il moralismo – «l’uomo per il sabato» –, e la moralità – «il sabato per l’uomo» (Mc., 2, 27-28). Come nei molteplici esempi narrati nel Vangelo – più e più volte il Signore Gesù scandalizza, soprattutto i farisei, perché vìola la legalità che impone di non compiere alcuna opera il sabato –, il moralismo che fa del sabato un idolo gli avrebbe impedito di guarire gli storpi, ridare la vista ai ciechi, dar da mangiare agli affamati. Dunque, se «l’uomo è per il sabato», il «sabato» fatto idolo (la legge) si ritorce contro l’uomo, contro gli uomini concreti, negando loro la possibilità di sfamarsi, di essere guariti, di conseguire il proprio bene, di conservare i propri legittimi beni.

In rapporto al tema del nostro incontro, che pone in relazione etica e crescita, la questione si pone nei medesimi termini. Se è vero che una crescita – non solo economica ma antropologicamente integrale –, cui l’uomo ha certamente diritto, di cui ha ovviamente bisogno, senza il rispetto della morale è tale solo apparentemente (come può intendersi quella dei profitti d’un’associazione criminale), è altrettanto vero che la riduzione dell’etica a moralismo legalistico e «sabatolatrico» rischia di frenarla se non d’impedirla, colpendo l’uomo, ogni uomo, nei suoi diritti e libertà più autentici e irrinunciabili.

Per esempio: è moralismo quando si pretende che, purché si soddisfi comunque la pretesa fiscale del governo, si diminuiscano il risparmio e il patrimonio personali e familiari; è moralità quando, per rimanere nel medesimo campo d’esempio, si pretende che il governo tenga conto della persona, e quindi limiti le sue imposizioni secondo giustizia. Perché anche l’imposta dev’essere giusta, e trova nella sua «giustezza» una misura non valicabile. Eppure, è stato scritto autorevolmente da economisti, politici e giuristi che la giusta imposta non esiste, essendo essa pura manifestazione del potere sovrano dello Stato (1). Il che significa passare dallo Stato di diritto al Diritto dello Stato come unica fonte etica e normativa. Ancora.

Se c’è una morale che il contribuente deve osservare, vorrei che si riconoscesse che anche sul «contribuito» grava un preciso vincolo etico. Evitandosi di predicare l’intolleranza contro gli evasori, come ha fatto il nostro Capo del Governo (2), che ha attribuito a costoro – reali o pretesi tali – le responsabilità per ogni disfunzione che incontriamo negli ospedali, nelle scuole, nelle strade del Paese, nella pubblica amministrazione, con uno spot a «reti unificate» che ricorda troppo i due minuti d’odio d’orwelliana memoria. In proposito, basterebbe anche ricordare quello che ha detto il Presidente della Corte dei Conti, quando ha parlato della terapia fiscale in atto come molto costosa, inefficace e che neppure offre certezze circa il definitivo allentamento delle tensioni finanziarie (3).

Mi sarebbe piaciuto, se il tiranno tempo fosse stato più clemente, sviluppare un pensiero di Pio XII, che riassumo: l’imposta non può mai diventare per i pubblici poteri un mezzo comodo per colmare il deficit provocato da un’amministrazione improvvida (4). Difficile imputare a Pio XII populismo e tendenze eversive, invece che un richiamo all’etica del «contribuito».

Ma vorrei sottolineare un altro aspetto. Quello relativo – come è stato ben sottolineato nel suo intervento dall’Onorevole Mantovano – al rapporto che c’è fra il matrimonio (e io non metto aggettivi, perché è uno solo, non ce ne sono altri) e la tenuta sociale.

Nel 1946-47, un tempo drammatico e di rovine, si celebrarono in Italia, tutti in Chiesa praticamente, 850 mila matrimoni. Dieci ogni mille abitanti per anno. E poi l’Italia fu ricostruita, crebbe, conobbe un boom mai più ripetuto. Nel 2010 si sono celebrati in Italia 217 mila matrimoni, vale a dire 3,6 ogni mille abitanti, circa due terzi in meno. E l’Italia è in crisi.

Il matrimonio responsabilizza, induce all’austerità, al risparmio, alla laboriosità e al sacrificio (5). È la scelta «liquida» che dissolve la società.

Lo storico Emanuele Pagano elabora i dati, e afferma che oggi si hanno 1,3 figli per donna, il che fa calcolare una perdita secca di 17 milioni di individui nel prossimo quarantennio. Se si continua così, a metà del prossimo secolo non ci sarà più la nazione italiana. Proiezione esagerata? Discutibile? Quanto volete. Ma è certo che v’è un drammatico deficit di matrimonio – non colmabile con l’invenzione di «matrimoni» del terzo tipo – e natalità.

E perché le persone non si sposano più? Perché non si fanno più figli?

Quello che manca oggi – è il commento dello stesso Emanuele Pagano che ricorda invece il boom demografico dell’Italia fra il 1500 e il 1800, quando non è che abbondassero servizi sociali, asili nido, e per converso si registrava una tragica frequenza della mortalità infantile – non sono solo i mezzi materiali. È soprattutto un’altra cosa. Tale significativo sviluppo sarebbe difficilmente spiegabile senza una duplice eredità, accumulata e trasmessa nei secoli: una ricchezza immateriale fatta di tradizioni religiose e familiari, di valori spirituali che si esprimevano in una volontà di durata, di una fiducia nella vita nonostante essa fosse molto dura, durissima (6).

Abbiamo dissipato questo patrimonio. È questo che soprattutto manca.

Ma ce n’era anche un altro, di patrimonio, anch’esso evocato dallo stesso storico (7). Una ricchezza accumulata nei secoli, grazie anche ad una capacità notevole di risparmio e capitalizzazione, di cui la famiglia era il principale se non unico fattore. Questo capitale oggi, mi spiace dirlo, quale che sia il governo, viene vessato. Si sta distruggendo la base materiale della famiglia, della fecondità e quindi della fiducia nel futuro e nella vita.

Chiudo parlando d’Europa. Sono europeo, mi sento europeo per la mia storia e la mia tradizione. Ma che Europa è questa? Proprio in questi giorni, La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha confermato il licenziamento di un’addetta al check-in di un aeroporto di Londra, motivato dal fatto che la croce che portava al collo sarebbe stata «ostentata».

E il governo di Sua Maestà Britannica, che è capo di una Chiesa cristiana, ha difeso non la licenziata, ma il licenziamento. Così esso ha avvalorato la tesi accolta dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e cioè che il cristianesimo, poiché è una religione di libertà, si debba esso adattare, lasciando spazio a ogni pretesa dell’Islam e delle altre religioni presenti e attive nel territorio dell’Unione Europea.

Signori, il vero spread è proprio fra le cose di cui parliamo. Tra le esigenze etiche, che richiedono, per un’autentica ed equilibrata crescita, un forte ricupero identitario – religioso e civile –, quindi di responsabilità e di capacità d’impegnarsi in scelte di durata e definitive, che portino ad un diverso stile di vita e ad una scossa demografica che sono gli unici antidoti alla crisi anche economica, ma fondamentalmente antropologica, che ci opprime; e una realtà all’interno della quale rischiamo di soccombere, il cui vuoto altri saprà occupare.

Grazie.

(*) Titolo redazionale

(1) Cfr., «[…] economisti e politici si dichiarano concordi nel pensare che della giustizia o ingiustizia dell’imposta debba la loro scienza disinteressarsi, mentre i giuristi vantano da parte loro come l’ultimo progresso dei loro studi l’esser giunti a definire l’imposta come pura e astratta manifestazione della sovranità finanziaria dello Stato. Ed economisti, politici e giuristi finiscono a concludere, inter se od ex cathedra, che la giusta imposta non esiste» (Luigi Vittorio Berliri, La giusta imposta. Appunti per un sistema giuridico della pubblica contribuzione. Lineamenti di riforma organica della finanza ordinaria, con Prefazione di Luigi Einaudi (1874-1961), Giuffré, Milano, 1975, 2. Il testo da cui si cita è la ristampa inalterata della edizione apparsa nella Collana della Ricostruzione dell’annuario di diritto comparato e di studi legislativi, III serie [Speciale], vol. XIX, fascicolo 3, Edizione dell’Istituto di studi legislativi, 1945). Cioè, «[…] l’imposta ha come carattere distintivo la mancanza di una causa specifica giustificatrice dell’obbligazione che non sia la soggezione alla “potestà di imperio” originaria o delegata dall’ente pubblico» (Achille Donato Giannini, Il rapporto giuridico di imposta, Giuffré, Milano, 1937, 1 e ss.). Entrambe le citazioni, in Ferdinando Francesco Leotta, Tasse: XI comandamento? Spunti per una riflessione sui rapporti tra fisco e morale, in AA. VV., A maggior gloria di Dio, anche sociale. Scritti in onore di Giovanni Cantoni nel suo settantesimo compleanno, Cantagalli, Siena 2008, pp. 133-150, (pp. 136-137).

(2) «Mi auguro che si possa un po’ per volta spostare quel fronte d’intolleranza che ha caratterizzato tanta parte della recente vita italiana. Spostarlo perché non separi chi è di destra da chi è di sinistra, anche se le differenze possono essere importanti, ma separi essenzialmente due parti: coloro che pagano le tasse, assolvendo ai loro doveri di cittadinanza, e coloro che non pagano le tasse» (Mario Monti al Forum della Cooperazione internazionale, 1 ottobre 2012).

(3) «La somministrazione di dosi crescenti di austerità e rigore al singolo paese, […] soprattutto se incentrata sull’aumento del prelievo fiscale, si rivela, alla prova dei fatti, una terapia molto costosa e inefficace e che, neppure, offre certezze circa il definitivo allentamento delle tensioni finanziarie» (Luigi Giampaolino, presidente della Corte dei conti, audizione innanzi alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato, 2 ottobre 2012).

(4) «[…] l’imposta non può mai diventare per i pubblici poteri un mezzo comodo per colmare il deficit provocato da un’amministrazione improvvida». Osservazione che mi pare assai attuale, soprattutto se integrata dalla seguente, tratta dallo stesso discorso: «Oggi gli Stati moderni tendono a moltiplicare i loro interventi e ad assicurare un numero crescente di servizi; esercitano un controllo più stretto sull’economia; intervengono preventivamente nella protezione sociale di numerose categorie di lavoratori; anche i loro bisogni di denaro crescono nella misura in cui le loro amministrazioni si gonfiano. Spesso le imposizioni troppo pesanti opprimono l’iniziativa privata, frenano lo sviluppo dell’indu-stria e del commercio, scoraggiano le buone volontà» (Pio XII, Discorso ai partecipanti al X Congresso dell’Associazione Fiscale Internazionale (I.F.A.) indetto a Roma dal 1° al 5 ottobre 1956, del 2-10-1956).

(5) Cfr., «Il matrimonio […] nobilita sia il percorso che l’approdo: il percorso, perché ha comunque trovato il modo di concludersi con una inequivocabile assunzione di responsabilità; l’approdo, perché quella assunzione di responsabilità introduce alla formazione di una nuova famiglia, con tanto di figli a seguire. «[…] Famiglie che funzionano da moltiplicatore degli sforzi individuali nella misura in cui, tutto il contrario di quel che si pensa oggi, aprono davanti agli occhi delle coppie prospettive di più lunga gettata e maggiore consistenza» (Roberto Volpi, Matrimonio senza interesse. In Italia ci si sposa sempre meno. Così stiamo perdendo uno dei fattori di crescita del nostro paese, in Il Foglio quotidiano, 16-2-2011).

(6) «Tra il 1500 e il 1800 il tasso di crescita [della popolazione degli Stati italiani] è del 113 %. E il tasso di fecondità “legittima”, all’interno cioè del matrimonio, tra il 1620 e il 1860 è stato calcolato in 8,42 figli per donna […].  «Tale significativo sviluppo sarebbe difficilmente spiegabile senza una […] eredità, accumulata e trasmessa nei secoli: una ricchezza immateriale, fatta di tradizioni familiari, religiose, di valori spirituali che si esprimevano in una volontà di durata, in una fiducia nella vita, nonostante tutto». (Emanuele Pagano, L’Italia e i suoi Stati nell’età moderna. Profilo di storia (secoli XVI-XIX), La Scuola, Brescia 2010, p. 121).

(7) «[…] un patrimonio di beni mobili e immobili, che costituiva il capitale prodotto da multiformi attività lavorative e valorizzato nei secoli, grazie anche a una capacità notevole d’investimento e di riconversione in settori differenziati» (Ibid.).