L’amore cristiano all’epoca del pansessualismo

Intervento raccolto nel corso del seminario di studio promosso nel 2004 dall’Ufficio Nazionale CEI per la Pastorale della Famiglia dal titolo “Evangelizzare nella cultura del pansessualismo”.
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Come comunicare l’insegnamento della Chiesa

sulla morale sessuale, matrimoniale e familiare .

Oggi ci troviamo a fronteggiare un’incomprensione radicale della proposta cristiana, che l’ambiente tende a presentare come culturalmente superata e inadeguata ai problemi della nostra epoca. Il timore di  essere non solo rifiutati apertamente, ma anche guardati con un sorriso di compatimento, porta molti al silenzio su questo tema e ad un adattamento surrettizio ai costumi e ai valori dominanti.Parlarne sarebbe ostacolare l’evangelizzazione.

Si preferisce rimandare il discorso a tempi migliori… che tardano poi sempre ad arrivare. Nell’evangelizzazione si finisce per non trattare mai l’argomento, sostituendo una proposta chiara ed esigente di vocazione alla santità con un ripiegamento psicologistico sulle tematiche di comunicazione della coppia oppure dando la preferenza ad altre tematiche più di moda e più attraenti per i giovani e per le famiglie: questioni importanti, certo, come la pace, l’ecologia, i diritti dell’uomo, che però spesso non mettono in gioco un personale cambiamento di mentalità e di comportamenti.

Prendere sul serio la difficoltà, come noi vogliamo fare in questi giorni, significa capire che non si tratta solo di un problema di coerenza personale e di coraggio, ma che c’è una dimensione culturale del fenomeno, che va compresa e adeguatamente affrontata. La terra su cui cade il seme è stata resa secca e sterile da una cultura ostile, che si oppone all’evangelizzazione.

Il fenomeno della “rivoluzione sessuale” da più di  quarant’anni ha segnato profondamente il costume e la mentalità, trasformandosi  in una vera e propria cultura. L’abbiamo definita come cultura del  pansessualismo.

La sessualità, separata dal matrimonio, staccata dalla  procreazione, e sradicata dall’amore e dalla persona, cioè privata del suo  contesto e dei suoi legami di senso e di responsabilità, è divenuta nelle nostre società occidentali un oggetto di consumo, pervasivo e onnipresente, ossessionante e determinante. Non è esagerato forse rilevare che la cultura del  pansessualismo, mediante il facile allettamento, riesce a condizionare a tal  punto gli individui da riuscire a determinare una configurazione alternativa  della società e delle sue istituzioni basilari, quali il matrimonio, la  famiglia, l’educazione.

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Affettività e integrazione

di JOSÉ NORIEGA BASTOS

(“Istituto Pontificio Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia”)

1. Introduzione

Ci troviamo oggi di fronte ad una certa ambiguità della ripresa del tema dell’amore all’interno della trasmissione del Vangelo sul matrimonio e la famiglia. L’ambiguità risiede proprio nel fatto che ciò che la Chiesa vuole trasmettere servendosi della categoria “amore” non è recepito affatto, o è recepito secondo un fondamentale fraintendimento. Si vuole parlare d’amore, cioè di rapporto interpersonale, di dono di sé, di intimità, di reciprocità, di irrevocabilità, di fedeltà.

Ma ciò che si recepisce è inteso come sentimento, affetto, emozione. C’è una sorta di cortocircuito che veramente impedisce alle persone di afferrare il senso di ciò che la Chiesa tenta di trasmettere e che, di conseguenza, viene ricevuto su un altro registro, producendo come risultato una sinfonia del tutto diversa.La grande scommessa fatta dal Concilio

Ecumenico Vaticano II e con esso dalla grande maggioranza della riflessione teologica e della pastorale dando grande rilievo all’amore nel rapporto uomo-donna sembra quindi fallire.

La riduzione dell’amore a sentimento ha comportato una chiusura delle persone, che vivono l’esperienza dell’amore in un fondamentale intimismo, la cui misura valoriale corrisponde all’intensità di sentimento che essa offre. Si scinde così nel soggetto una duplice dimensione: quella pubblica e quella privata, senza che si possa raggiungere nella sua esperienza un vero criterio di unità e di verifica.

Le diverse esperienze sono viste in se stesse, senza alcun riferimento alla vita della persona nella sua globalità. Inoltre, dal momento che essa non può trovare nelle proprie esperienze un autentico principio di unità, poiché si tratta di esperienze sempre diverse, fa la sua comparsa sulla scena un nuovo principio che è decisivo per la comprensione dell’attuale visione dell’amore: il principio “sincerità”.

È qui che troviamo quello che viene proposto come il vero costitutivo formale dell’identità della persona: essere sinceri con i propri sentimenti. Si può allora capire perché la predicazione della Chiesa sull’amore umano venga considerata come fondamentalmente ambigua: da una parte sembra che la Chiesa promuova l’amore, e dall’altra che lo voglia rendere impossibile, reprimendo la spontaneità che gli è implicita mediante la criminalizzazione di certe manifestazioni affettive, che dalla gente non vengono vissute come qualcosa di cattivo, anzi, proprio al contrario.

Come mai la Chiesa continua a sostenere che i rapporti prematrimoniali non sono buoni, quando sono vissuti in una pienezza d’amore? Come mai la Chiesa continua a sostenere che la contraccezione non è ammissibile, quando è proprio la contraccezione che consente di vivere un amore più spontaneo, più “responsabile”, più sincero, perché meno angoscioso? Come mai la Chiesa insiste nell’obbligare la gente a vivere nell’inferno di un rapporto ormai svuotato dell’amore, impedendo di ricostruirsi una vita? Come mai la Chiesa si oppone a che le coppie riescano a realizzare il nobile desiderio di avere un figlio con il ricorso alle varie tecniche che oggi la scienza ha reso disponibili per soddisfarlo?

In fondo, allora: la Chiesa crede o non crede nell’amore?

Ecco il cortocircuito. Che cosa c’è alla radice di una simile impostazione? Una concezione dell’amore ridotto a sentimento, ed un sentimento che acquista il ruolo di criterio d’azione all’interno di un ambito privato, intimo. L’affettività diventa l’unico criterio di condotta, purché non calpesti la libertà e i diritti dell’altro. È buono ciò che è in accordo col mio affetto. Ma è davvero l’affetto il criterio di condotta? Vorrei riprendere la domanda in tutta la sua ampiezza e darle risposta proprio nella medesima prospettiva. Sì, certo, è l’affetto il criterio di condotta, di bontà e di cattiveria morale. Di più ancora, è l’affetto che costituisce la nostra identità.

Ma come si può sfuggire ad una critica radicale di soggettivismo e di relativismo? Non è forse il singolo, e lui soltanto, a percepire i propri affetti e quindi a valutarli? È proprio qui la sfida. Non la si risolve però negando la parte di verità che implica la scoperta dell’affetto, ma proprio penetrando al suo interno e facendo luce sulla sua intrinseca profondità.

Due domande ci aiuteranno ad entrare: – davvero i nostri affetti ci chiudono in noi stessi, in un intimismo cupo e sterile, o non sarebbe meglio dire che essi ci aprono e ci indirizzano alla realtà? – davvero i nostri affetti non hanno un’altra verità interna diversa dalla loro intensità, o non sarebbe meglio dire che in essi si trova già un germe di verità che può crescere e permeare le loro diverse dimensioni fino a diventare un vero principio di unità e di condotta?

Per rispondere a queste domande due saranno le vie che percorreremo:

– in primo luogo, la via di un’adeguata interpretazione dell’esperienza affettiva che sia capace di spiegare il suo vero senso umano;

– in secondo luogo, la via di una adeguata integrazione dei dinamismi dell’amore, grazie alla quale si comprenderà la costituzione dell’identità singolare e dinamica della persona.

2. L‘interpretazione dell’esperienza affettiva

La maggiore difficoltà per un’adeguata interpretazione degli affetti ha una duplice origine. Da una parte, dalla distinzione che nella persona ha fatto Descartes tra la res cogitans, cioè la spiritualità, e la res extensa, cioè la corporeità. Il suo Trattato delle passioni avrà un influsso decisivo proprio per il fatto che priva le passioni della dimensione spirituale. Da un’altra parte, dall’impostazione del filosofo empirista David Hume che, basandosi sui principi newtoniani della scienza sperimentale, ha escluso ogni ricorso ai fini nella spiegazione della natura umana e degli affetti. Gli affetti sono visti così come qualcosa che accade nella vita, e accade perché è generato da una causa neurofisiologica che possiamo individuare: trovata la causa, abbiamo la loro spiegazione.

È certo che tanti dei nostri affetti possiamo spiegarli così: un mal di denti, o il malumore che ci provoca il cattivo tempo, hanno una causa neurofisiologica. Ma non tutti i nostri affetti si esauriscono nella causa neurofisiologica implicita. La tristezza che provo quando mi comunicano la notizia della morte di un amico, o la gioia che vivo quando riesco a superare il blocco nei rapporti con un fratello che da tanto tempo non mi parlava, indicano che ci sono in noi degli affetti che fanno riferimento non soltanto a una reazione neurofisiologica, ma piuttosto a un motivo che ci spinge verso un fine, verso una promessa.

L’originalità di questi sentimenti appare così nel fatto che implicano la necessità di comprendere il motivo da cui sono generati, il compimento che essi promettono: si tratta, allora, di un’esperienza affettiva che è in se stessa significativa e intelligibile ma nello stesso tempo intenzionale, perché ci indirizza verso un compimento nuovo di noi stessi.

I nostri sentimenti, in quanto sentimenti motivati, appaiono come la risposta a qualcosa che ci chiama. Lontano dal chiuderci in noi stessi, ciò che essi fanno è di aprirci alla realtà, che ci tocca, ci arricchisce, ci seduce, ci attira. Se seguiamo la corrente del desiderio che essi generano, riusciremo a vedere dove ci conducono, che cosa ci promettono. Ci interessa soprattutto l’affetto dell’amore, che mette la sessualità in gioco. Possiamo capire immediatamente che tale sentimento implica una causa neurofisiologica nell’eccitazione fisica, che è vissuta con una speciale intensità nell’esperienza del desiderio sessuale.

Questa esperienza è tuttavia carica di senso e richiama sempre un’adeguata interpretazione. In tale esperienza il corpo è vissuto non come qualcosa che si pone davanti al mio io, ma come mio proprio corpo: cioè, attraverso la reazione del mio corpo faccio esperienza di me stesso, come essere corporeo. Si tratta di una reazione che non è stata originariamente prodotta dalla mia volontà, ma che accade in me. Il mio corpo implica una passività intrinseca e una vulnerabilità davanti al corpo sessuato in modo differente da me. Si tratta però di una passività che appartiene al mio essere e, nel momento stesso in cui reagisce, il sentimento mi permette di personalizzarla, di vederla come mia.

La sessualità si presenta non come un qualcosa davanti alla quale l’io viene a trovarsi, una forza biologica o psicologica, ma come una dimensione della persona stessa, carica di senso. Il corpo sessuato appare allora nella sua differenza come l’occasione di un incontro singolare con l’altro dal momento che genera una singolare reazione. In questa reazione possiamo renderci conto di come la nostra esistenza corporale implica una dualità essenziale del nostro essere, sempre bisognosa e pertanto in riferimento a una complementarietà sessuale. L’uomo si può comprendere in pienezza soltanto quando è visto in riferimento all’altro.

Ma la nota più originale dell’incontro con il corpo sessuato di un’altra persona sta nel fatto che svela all’uomo la sua intimità, cioè l’universo interiore della persona, in quanto la realtà lo impatta e lo attira ed egli si rende cosciente di questo impatto e di questa attrazione. C’è un vissuto più o meno cosciente della seduzione che l’altro esercita su di noi e che ci svela la corrente interiore del nostro desiderio.

Ci sveliamo a noi stessi desiderando. Desiderando, scopriamo poi fino a che punto apparteniamo alla realtà, al flusso vitale della natura, e fino a che punto la realtà ci appartiene. Il nostro desiderio ci lega alla realtà, al mondo, alla natura. Ma lega anche la realtà, la natura, l’altro, a noi stessi, nella misura in cui li sperimentiamo in un certo modo presenti in noi, nella stessa sorgente del desiderio.

Il sentimento svela l’interiorità della persona in quanto abitata da un altro. Ecco il suo mistero più profondo. Ma si tratta di un altro che nella sua differenza è visto come qualcosa che mi arricchisce, anzi, mi promette. È il tu che svela il mio io, ma si tratta adesso di un tu che nella differenza mi chiama a qualcosa di più grande. Scopro allora in che modo si apre uno spazio interiore alla mia libertà: la presenza dell’altro in me, che mi arricchisce, chiama la mia persona a uscire da me per trovare l’altro nella sua realtà.

Ma in questa forma il sentimento svela anche una promessa di comunione nuova con l’altro. Si tratta non soltanto della presenza dell’altro dentro al soggetto, ma di come il soggetto è chiamato a trovare l’altro, a entrare in comunione reale con lui. È questo il momento in cui si svela il senso della libertà, perché la libertà trova qui non soltanto la possibilità della soddisfazione di un piacere, ma anche la possibilità di una pienezza singolare.

Si tratta della possibilità di formare una comunione in cui entrambe le persone possano essere se stesse mettendo in gioco in totalità la loro libertà. L’esperienza sessuale si presenta allora come qualcosa di drammatico poiché radicandosi nel corpo impegna anche la libertà della persona, la muove ad agire, a conseguire la promessa che lì viene fatta.

L’esperienza amorosa vissuta grazie alla sessualità apre allora un orizzonte di senso ultimo, in quanto indica all’uomo e alla donna dove si trova la loro pienezza: nella donazione reciproca di se stessi. La sessualità, che all’inizio sembrava mostrare nell’uomo una vulnerabilità originaria aprendolo alla donna, e viceversa, si manifesta come una forza che spinge la persona al dono di sé per raggiungere la comunione con l’altro, a costruirla.

Non si tratta semplicemente di una chiamata a sperimentare qualcosa, a sentire, ma a costruire qualcosa: vale a dire, una comunione di persone. Si tratta però di una comunione di persone molto originale perché, mediante il dono di se stessi nella sessualità, è capace di comunicare vita, generando persone che possano arricchirsi del dono stesso che unisce gli sposi. Si tratta allora di un dono di sé che non è vano, inutile, ma che racchiude dentro di sé una possibilità enorme di fecondità, di comunicazione, di proiezione, di apertura alla società, generandola.

La sessualità, allora, non è qualcosa che si ponga davanti alla persona e della quale essa possa usufruire a piacere. Al contrario, le permette di capire e determinare nella comunione delle persone il senso ultimo della sua vita. Si tratta di qualcosa che le è stato dato nella possibilità meravigliosa del corpo e che nasconde in sé la chiamata che un altro le fa e, in definitiva, la chiamata dell’Altro divino.

Riconoscere ciò che ci è stato dato è l’essenza della figliolanzaMa ciò che ci è stato dato ci spinge a diventare sposi, diventando noi protagonisti. Ed è diventando sposo che si arriva ad essere padre. Ecco i tre tratti caratteristici dell’identità di ogni persona, che sono resi possibili grazie alla sessualità.

Si deve però ancora chiarire il ruolo del piacere. Non per nulla nella prospettiva pansessualista la sessualità è in funzione esclusiva del piacere. È certo che la sessualità si fa interessante nel piacere che promette. Promette tanto, ma da sola raccoglie così poco. Come mai? Perché la sessualità nell’uomo è più della sola sessualità, perché il piacere nell’uomo è più del solo piacere.

L’esperienza sessuale, facendo riferimento a una promessa di comunione, comporta allora che il piacere entri all’interno di questa prospettiva e passi ad acquisire un intrinseco valore simbolico e figurativo. Simbolo, sì, ma di che cosa? Simbolo proprio della pienezza di vita che comporta una vita vissuta in comunione sponsale feconda. È qui che si trova una vita piena, riuscita, buona, degna di essere vissuta. Il piacere riflette allora la ricchezza soggettiva che questo modo di vita racchiude per le persone.

Diventerà un godimento e non un semplice piacere sensuale.

Due sono state le chiavi per cogliere il significato umano dell’esperienza sessuale: la sua intenzionalità e il modo in cui coinvolge la libertà. È così che abbiamo potuto capire il mistero che essa nasconde. In se stessa è una chiamata alla comunione, che getta piena luce sull’identità della persona e sul suo destino. Ma l’esperienza affettiva è connotata di una fragilità intrinseca: la sua instabilità. Non solo, la sua ambiguità nello svolgersi del tempo.

È vero che l’amore è sempre una risposta, ma non sempre ha lo stesso contenuto. Bisogna allora comprendere in qual modo la verità germinale dell’esperienza dell’amore possa permeare l’essere intero della persona, integrando e plasmando tutti i suoi dinamismi così da porre in condizione di guidare tutta una vita, realizzando la promessa del “per sempre” che è irrinunciabile ad ogni amore.

3. Gli affetti e la verità morale

L’esperienza affettiva non è vissuta dalla persona come qualcosa di semplice, di chiaro sin dall’inizio. Nella novità che comporta si svela la ricchezza di dimensioni che mette in gioco e nello stesso tempo la sua complessità. Nella propria reazione davanti alla persona differentemente sessuata, il soggetto può rendersi conto della sua vulnerabilità di fronte ai valori sessuali e affettivi dell’altra persona, e in qual modo essi lo attirino e gli promettano soddisfazione e piacere.

Ma, nello stesso tempo, tale reazione indica che i dinamismi che mette in gioco non sono integrati dalla natura, anzi, che tante volte sono contrapposti. Perché i valori sessuali attirano per se stessi, tentando di imporsi ai valori affettivi e forse negando i valori propriamente spirituali.

L’esperienza elementare del pudore rivela l’originalità della soggettività umana, che non vuole essere sottomessa a delle forze infraumane. Essa tuttavia svela contemporaneamente l’unicità dell’altro e come io non possa ridurlo ad oggetto d’uso o di semplice godimento. Si capisce così perché si tende ad evitare di mettere in mostra il corpo nella sua sessualità, quando questa possa essere desiderata per se stessa, indipendentemente da un riferimento intrinseco alla persona.

l pudore è dunque un richiamo a rivolgere l’attenzione alla soggettività perché i differenti dinamismi dell’amore vengano integrati nella ricerca di un’autentica comunione. Ma come possono integrarsi i differenti dinamismi dell’amore, in particolare la ragione e l’affetto? La riflessione fenomenologica ha rilevato, fin dall’antichità classica, che ci sono quattro diversi tipi d’integrazione: del continente, del virtuoso, dell’incontinente e, infine, dell’intemperante.

Il continente è colui che nella propria ragione e volontà valuta positivamente e accetta l’ideale di vita buona nel quale è stato educato ma, all’opposto, sperimenta nell’affetto e nel corpo l’attrazione dei piccoli piaceri che i valori sensuali e affettivi gli offrono. Non interpreta tuttavia questa attrazione scorgendo di che cosa è segno e promessa, qual è il suo senso, e perciò non la plasma né la integra, ma si limita a contenerla, controllarla.

Il motivo dell’agire o del non agire non sarà l’ideale di vita, ma proprio la norma morale, se la cosa è comandata o proibita, oppure il rispetto umano, se qualcuno può venire a saperlo, o ancora le conseguenze positive o negative che la cosa può avere: se non ci fossero questi condizionamenti, di sicuro seguirebbe ciò che lo attira. Nel momento in cui c’è una norma che proibisce, agisce con una grande fermezza e stabilità, contenendo l’affetto. In tal modo però non trova godimento in ciò che fa.

Il virtuoso è stato anche lui educato dentro una tradizione e valuta positivamente, accettando l’ideale di vita buona che gli è stato trasmesso. Questo ideale di vita gli serve tuttavia per interpretare la propria esperienza affettiva, riconoscendo in essa il segno e la promessa di qualcosa di più grande, di un ideale di vita degno di essere vissuto, perseguito per se stesso perché implica una comunione interpersonale.

Così, interpretando la propria esperienza affettiva, vuole plasmarla, integrarla alla luce di ciò che ha scoperto, ordinando i propri desideri. Il motivo del suo agire sarà molto diverso da quello del continente, perché agirà proprio per il senso che si nasconde nei piccoli piaceri che lo attirano. La sua reazione affettiva davanti ai valori sensuali e affettivi, trattandosi di un affetto plasmato dalla ragione, gli indicherà la chiamata che qualcuno gli fa ad entrare in una comunione. È per questo che il virtuoso potrà agire con fermezza e stabilità, trovando in ciò che fa vero godimento.

L’incontinente è stato anche lui educato all’interno di una tradizione, nella quale ha potuto capire il senso di un ideale di vita che apprezza e accetta. Al contrario del continente, egli è però debole, non ha una volontà ferma e stabile, e davanti all’attrazione dei valori sensuali e affettivi, sceglie di seguirli per il piacere che offrono, tradendo l’ideale di vita. Nel suo agire trova, certo, il piacere, ma esso dura quanto dura l’azione. Una volta che si sia esaurita l’occasione, egli si pente di ciò che ha fatto, perché sente di aver tradito qualcosa che valuta come prezioso.

L’intemperante, al contrario, non è stato educato nel contesto di una tradizione nella quale possa aver colto il senso di un ideale di vita buona degno di essere vissuto. L’attrazione dei valori sensuali e affettivi è considerata in se stessa e per se stessa, per quanto essi permettono un’esperienza di soddisfazione. Questo sarà il motivo del suo agire: la soddisfazione. E la cercherà con fermezza e stabilità, sperimentando una grande insoddisfazione di fondo sarà costretto a moltiplicare le occasioni di piacere con esperienze ogni volta più eccitanti.

Questa tipologia morale ci aiuta a capire non tanto il modo in cui una persona vive l’attrazione dei valori sensuali e affettivi, ma proprio qual è il principio di unità del comportamento delle persone: questo può essere la norma morale, come nel caso del continente, o il desiderio integrato, come per il virtuoso, o proprio non averlo come l’incontinente, o la passione, come l’intemperante. Interessa sottolineare che in tutti e quattro i tipi morali esaminati la reazione affettiva è molto differente, a seconda che sia o meno plasmata dalla ragione.

Solo nel caso del virtuoso si tratta di una reazione affettiva che è accompagnata da un elemento di razionalità, facendo sì che la persona possa reagire bene e identificarsi pienamente con la propria reazione, in quanto sia in gioco la promessa di comunione. Questo fatto ci permette di capire che per il virtuoso il plasmare l’affetto gli rende possibile non soltanto di agire bene ma, soprattutto, di reagire bene, discernendo il vero bene.

È quest’ultimo aspetto che manca nei tre tipi restanti: tutti e tre reagiscono davanti a un bene che conviene, certo, ma solo in apparenza, e per questo hanno bisogno della legge per poter discernere se è il caso di seguire o no la propria reazione. Proprio in questo consiste il dramma dell’affettività: favorisce l’esperienza del bene, ma da sola non è in grado di distinguere il vero bene dal bene apparente: bisogna che sia un’affettività virtuosa.

Che cosa è allora la virtù? Per la riflessione moderna e contemporanea la virtù, intesa sempre al singolare, è un tratto del carattere grazie al quale la volontà è inclinata ad obbedire alla norma morale. Si capisce perché essa venga rifiutata. Paul Valery ne è testimone: “La parola virtù è morta, o, al più, è morente. Neanche se ne parla, nemmeno di sfuggita… Per quanto mi riguarda, l’ho sentita soltanto di rado, e sempre usata in forma ironica”. Il disagio si fa ancora più palese con la critica di egoismo raffinato che un’etica della virtù implicherebbe.

Ma le virtù, intese al plurale, sono proprio l’estensione del vero amore a tutti i dinamismi affettivi della persona, cioè la sua integrazione nell’amore personale. A partire dal dono, che l’amore implica come presenza interiore dell’amato nell’amante, si può capire che tale presenza comporta un’originale trasformazione del soggetto ed una prima integrazione dei suoi dinamismi nel conseguimento della comunione con l’altro.

Certo, tale dono dell’amore è stato possibile perché c’era una vulnerabilità originaria, che implicava delle inclinazioni naturali. Ma queste inclinazioni naturali, che sono a loro volta i germi delle virtù, per potersi sviluppare hanno bisogno del dono dell’amore che dia luogo ad una prima integrazione sulla quale svolgere un lavoro personalizzato.

L’amore potrà allora permeare i differenti dinamismi, integrandoli, plasmandoli con il dono ricevuto e facendo sì che si configurino insieme in una risposta stabile e pienamente umana al valore che è l’altro in se stesso. Nella tradizione agostiniana le virtù erano viste come l’ordine dell’amore e la sua proiezione.

È propriamente l’amore che ordina l’anima e così si espande nelle diverse virtù, le quali costituiscono ciascuna una fattispecie dell’amore: la prudenza sarà l’amore intelligente che sa discernere il bene dell’amato, la giustizia l’amore che sa promuovere il bene per l’amato, la fortezza l’amore che lotta per l’amato e la castità l’amore che si consegna in totalità all’amato.

Le virtù hanno allora una dimensione intenzionale intrinseca che deriva dell’amore ricevuto e rivolgono la persona a diversi modi di comunione, dove trovare il vero bene comune. Lungi dal chiudere la persona in un’angosciosa ricerca di autoperfezione, la aprono alla possibilità meravigliosa di una vera comunione nel suo agire concreto e particolarizzato.

Il motivo di ciò si trova nel fatto che le virtù non soltanto conferiscono un’energia che rende possibile eseguire ciò che si è scelto, ma sono anche esse stesse luce per la scelta. Il loro influsso si situa nel momento intenzionale dell’agire, e per questo rendono possibile la scelta buona. Già Tommaso aveva indicato come non sia possibile la virtù della prudenza senza le altre virtù morali, proprio per il bisogno che nel costruire l’azione la ragion pratica ha di appoggiarsi non soltanto sulle inclinazioni naturali, perché queste sono troppo generali, ma in modo specifico sui retti desideri presenti attualmente nel soggetto.

È qui che possiamo capire perché la verità del nostro agire, cioè la vera bontà, viene determinata non soltanto né principalmente dalla conformità dell’azione alla norma morale, ma principalmente per la sua adeguazione al desiderio retto. È proprio questa l’affascinante prospettiva che apre l’Aquinate quando vuole definire che cosa si debba intendere per verità pratica: è quella verità del giudizio di scelta che corrisponde al desiderio retto, cioè al desiderio plasmato dalla ragione secondo l’ideale di vita buona intravisto nell’esperienza affettiva.

L’azione è sempre particolare, contingente, concreta, parziale. Ha bisogno di essere misurata per essere buona. Certamente è la ragione che la misura: ma secondo quale criterio? Secondo la sua adeguazione al desiderio retto. Essendo un desiderio plasmato dalla ragione, si tratta di un desiderio che è aperto alla realtà. Di più, un desiderio che apre l’uomo alla realtà, rivolgendolo intenzionalmente verso modi eccellenti d’amore che integrano in se stessi la giustizia.

È nella reazione affettiva che la persona potrà conoscere la conformità dell’azione che l’attira col suo desiderio retto. L’affettività offre allora una luce decisiva per la costruzione dell’azione, perché è radicata intenzionalmente in una comunione che è vista come qualcosa di assoluto. Essa favorisce un gusto nuovo, sano, che permette alla persona di discernere la bontà o la cattiveria dell’agire. Sono le virtù che consentono superare il grande dilemma che si nasconde nella scelta: cioè, il dilemma del “bene apparente” per giungere al bene che non soltanto appare come buono, ma che è veramente buono.

Qual è allora il ruolo delle norme morali? Di certo esse rivestono un valore essenziale nella vita morale. In primo luogo offrono un criterio pedagogico decisivo per l’acquisizione delle virtù, poiché forniscono al desiderio un criterio di oggettività che permette di superare ogni suo possibile ripiegamento su se stesso. Nello stesso tempo, indicano il limite umano della realizzazione dell’amore.

Ciò che è decisivo è proprio capire la razionalità intrinseca del desiderionon è ragionevole desiderare qualsiasi cosa. Dietro questa teoria sta una concezione antropologica di grande dinamicità. L’essere umano si mostra come un essere aperto alla realtà, vulnerabile, plasmabile, con capacità di crescita, di trasformazione. Nella propria soggettività esso trova un autentico criterio di verità dell’agire, poiché si tratta di una soggettività razionale, aperta strutturalmente al reale. È qui che l’affettività gioca un ruolo di mediazione decisivo.

4. Conclusione

La ripresa dell’amore che la teologia e la pastorale hanno operato a partire degli anni Sessanta tentava di esprimere il significato del matrimonio con concetti adatti al mondo. Ma ne abbiamo visto l’ambiguità: il mondo non ci capisce, anzi ci fraintende. Non soltanto però per il fatto che tante persone intorno a noi hanno una concezione sentimentale, anzi pansessuale, dell’amore, così che l’amore e la sessualità sono visti e vissuti come distaccati dal matrimonio, dalla fecondità e ultimamente dalla persona, riducendosi in tal modo a usufruire e fare consumo della sessualità in se stessa.

La ragione di tale fraintendimento risiede anche nel fatto che noi non riusciamo a presentare una concezione drammatica dell’amore, che riesca a mostrare come l’esperienza dell’amore contenga una verità intrinseca che costituisce la nostra identità unica e irrepetibile. Certo, siamo persone, ma questo dato si specifica nel modo in cui ogni persona determina il destino della propria vita in forza appunto dell’esperienza affettiva e dei legami irrevocabili che con essa genera. È così che si costituisce una concezione dinamica della persona, in quanto porta con sé una vocazione originaria all’amorericonoscersi cioè figlio, per diventare sposo e giungere così ad essere padre.

La domanda iniziale era: è l’affetto il criterio di verità del nostro agire? Possiamo ora capire meglio l’ipotesi di partenza. Sicuramente l’affetto è tale criterio. Ma si tratta dell’affetto che implica un vero amore, dell’amore integrato, plasmato, modellato dalla ragione, che è diventato abilità, arte, eccellenza, cioè virtù.

E la virtù dell’amore ha un nome concreto. Si chiama castità, cioè una qualificazione originale del soggetto in tutti i suoi dinamismi amorosi, a seconda del suo stato di vita in una forma che possa offrire, consegnare un amore integro, senza pieghe, capace di costruire con originalità e creatività una vera comunione di persone in una variegata e ampia gamma di azioni. È la virtù della castità che ci permette un gusto nuovo nell’esperienza dell’amore.

Spostando la nostra riflessione sul ruolo del desiderio e sulla verità interna al desiderio, che è chiamata a permeare tutti i dinamismi e ad integrarli, possiamo capire che l’ambiguità, anzi, il sospetto con il quale è accolta la predicazione sull’amore è soltanto apparente. In fondo il problema non sta nel fatto che tante persone rimproverino alla Chiesa di voler reprimere l’amore, di colpevolizzarlo. Il problema non è che la Chiesa ancora oggi continui a sostenere l’illiceità dei rapporti prematrimoniali o della contraccezione.

Il problema è un altro, ed è proprio questo: perché desidero? Cosa desidero? Come è il mio desiderio? Si tratta di un desiderio verificato, anzi, integrato? Il problema sta proprio qui. Non tutti i desideri ci conducono a una vita piena. E non sempre lo vogliamo vedere, affascinati della sua apparenza.

Si apre così davanti a noi, in questa cultura pansessuale, la sfida più radicale. Si tratta in primo luogo di aiutare le persone a guardare lontano, di mostrare l’orizzonte ampio dell’esperienza, di delineare l’autentico volto di una vita veramente riuscita, di agganciare il proprio aratro a una stella; ma anche, e soprattutto, si tratta di aiutare le persone a generare delle virtù, cioè di configurare o edificare soggetti capaci di amarsi con un amore maturo, integrato.

Proprio la Chiesa è Madre, e come Madre non solo è capace di comunicare la vita e l’amore che ha ricevuto dal suo Sposo, ma è anche capace di educare, cioè di aiutare i suoi figli a maturare l’esperienza d’amore. È questa l’affascinante missione della pastorale familiare: mostrare che i coniugi sono chiamati a una singolare santità, a una singolare perfezione del loro amore coniugale.