Salviamo le donne dal Femmicidio

donneStudi Cattolici n.627 Maggio 2013

di Pier Giorgio Liverani

«Non ci consideriamo donne, ma cittadine». Riparleremo tra poco di questa affermazione, fatta nel Women’s Day del marzo scorso, durante un incontro femminista, a Roma, da una «giornalista blogger» araba. Come prima cosa sembra giusto annoverare la traduzione in inglese della Festa delle Donne (l’8 marzo) non solo nell’italianicidio linguistico ormai dilagante, ma anche nello scenario del «femminicidio», anzi, più correttamente del «femmicidio».

Questi due neologismi, molto vicini tra loro, sono letture diverse delle uccisioni delle donne. Il «femminicidio» è la manifestazione estrema della violenza maschile-maschilista contro le donne. Invece il «femmicidio» – secondo la definizione della «Tavola sul Femminicidio» tenutasi a Roma nel novembre dell’anno scorso — è «l’uccisione di una donna proprio perché donna, che, nella ricerca criminologica, include anche le situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito/la conseguenza di pratiche sociali misogine».

In Italia i femminicidi sembrano seguire un andamento crescente: ottantaquattro casi nel 2005, centouno nel 2006 e così via fino ai centoventi del 2012. Naturalmente è giusto condividere pienamente il severo giudizio che di entrambi se ne da e la preoccupazione per la loro frequenza e per il luogo in cui in maggioranza avvengono: la famiglia o un àmbito affettivo fra i tanti.  Lo scorso 25 novembre l’Onu ha celebrato la «Giornata Internazionale per il contrasto alla violenza sulle donne», confermando che per l’85 per cento costoro sono vittime all’interno di rapporti sentimentali.

A questi dati (che non distinguono i femminicidi dai femmicidi) è possibile, però, contrapporre l’elenco, polemicamente pubblicato su un sito web (Pontifex.it), che raccoglie novantadue casi di… «maschicidi» compiuti da donne nell’anno da poco terminato: dall’omicidio tentato da un killer assoldato da una poliziotta (Torino, 10 gennaio) per ammazzare l’ex marito, al delitto di una donna 43enne (Modena, 20 dicembre), che ha ucciso il fratello con trenta colpi di pistola. Niente male. Ma bisognerebbe mettere nel bilancio anche la donna di 35 anni che, per gelosia, ha ucciso la sua «compagna» di 34 anni con un colpo di pistola.

Quest’elenco – che quasi pareggia i conti tra le violenze reciproche dei due sessi — è stato taciuto dai media, sicuramente perché avrebbe contrastato la provocazione, ricercata, della reazione emotiva delle donne. In ogni caso esso non toglie valore alla denuncia dell’Orni e all’indignazione preoccupata di ogni persona di buon senso. In più, forse, può spiegare il basso tono del Women s Day italiano di quest’anno.

La giornata delle donne, ormai non più festosa e celebrata piuttosto sul versante della tristezza, avrebbe dovuto distinguere fra femminicidi e femmicidi, se non altro perché, come dimostra l’affermazione citata all’inizio, c’è nel mondo femminile qualche inquietudine e qualche incertezza nell’autopercezione di sé stesse, che nemmeno la Commissione Femm – in altre parole per i «Diritti della donna e l’uguaglianza di genere», che è una delle commissioni permanenti del Parlamento Europeo – è riuscita a superare quando, a metà dello scorso mese di marzo a Ginevra, si è riunita presso il Consiglio dei Diritti dell’Uomo e mentre era in corso la Conferenza annuale dell’Onu sulla violenza contro le donne.

In realtà l’interrogativo implicito in quel «Non ci consideriamo donne ma cittadine» è drammatico. Che cosa vale di più, infatti, tra «donna» e «cittadina»? E quale delle due condizioni è più rischiosa? Ed è maggiore o minore il pericolo del femmicidio rispetto al femminicidio? Chi scrive propende per la maggiore drammaticità della prima delle due figure delittuose. E questo anche perché, in ossequio ai princìpi di Yogyacarta (1) e secondo le notizie che provengono da Bruxelles come da Strasburgo, già dal 2016 nelle carte d’identità europee il termine «sesso» sarà sostituito dalla più moderna e liberale formula «IG», che significa «identità di genere», cioè il sesso (il gender) che ciascuno si sceglierà, anche contro quello di nascita. Cosa che renderà ancora più debole e leggero il valore e il peso del sesso femminile. Allora e nel caso specifico cui qui ci si è riferiti, meglio «cittadina», che non è soggetto a mutazioni sessuali.

Uccisione ideologica

II «femmicidio», si diceva, ossia quello che nelle figurazioni antropologiche del femminile non è ancora emerso e di cui nessuno parla. Eppure è quello che fa più paura, perché non è considerato un crimine nonostante ne abbia la sostanza né è soggetto alle repressioni poliziesche: il vero femmicidio è l’uccisione non fisica ma ideologica, o se volete antropologica dell’idea stessa di donna.

Un omicidio che non è previsto da alcun codice penale, anzi è autorizzato e protetto dalle leggi e dalla nuova Europa. Un delitto etico più grave, se possibile, del delitto «fisico». Lo dice la definizione stessa del neologismo «femmicidio», inteso – è la fattispecie che qui ci interessa – nel senso dell’uccisione del concetto «teleologico» della donna, ossia del perché essa esiste, opera, vive e fa la sua parte nell’esistenza del genere umano (e, per i credenti, nel disegno di Dio).

Il «femmicidio» colpisce la condizione di soggetto giuridico della donna, di persona, di cittadina titolare di una serie di diritti umani, civili e politici e di compiti e doveri, il suo essere persona sessuata, sposa, madre, membro di una famiglia con il nome nobilitante di donna, cioè di domina, signora, Signora del Creato («Dominate la Terra», cioè signoreggiatela…). Il che implica, sia ben chiaro, anche tutto l’altro che la donna già fa e farà nella famiglia e nella società oltre a ciò che di lei è esclusivo. Donna o cittadina? Soltanto femmina (umana) come desolatamente sembra dire la giornalista-blogger araba o figura di tanto alta dignità, nel progetto della creazione, da poter essere definita la «metà più una» del cielo?

È questa la risposta che non è venuta dalla Commissione Femm né dalle Nazioni Unite né dagli organismi della Grande Europa e tantomeno dalle varie organizzazioni femministe che esaltano a vuoto il nome di Donna. Eppure ci dev’essere un motivo nascosto e da riscoprire del perché il numero delle donne è sempre maggiore di quello dei maschi, perché la vita media delle donne è più lunga di quella degli uomini, perché è la donna che genera anche il maschio.

Perché già l’Antico Testamento e più ancora quello Nuovo, pur contando meno personaggi femminili di quelli maschili, rendono esplicita più volte la femminilità e la maternità del Signore Dio? Perché è alla donna che il Creatore ha affidato la «cura» dell’uomo? E perché oggi, in una società femminista, è alle donne che si vuole affidare piuttosto l’insindacabile jus vitae ac necis sulle creature che esse portano nel loro grembo, cioè la terribile potestas, che gli antichi Romani avevano riservato al paterfamilias, il padre-padrone della famiglia?

Per trovare una risposta bisogna rileggere la lettera apostolica Mulieris Dignitatem di Giovanni Paolo II, che sembra giacere, però, tra i volumi meno richiesti nella biblioteca magisteriale della Chiesa.

Un delitto antropologico

Le donne sono uccise in tanti modi anche non sanguinosi. Bisogna andare oltre la cronaca, le circostanze e le motivazioni — sempre banali – dei delitti contati e catalogati semplicemente come femminicidi. È tempo di prendere coscienza di una violenza radicalmente diversa e che va oltre l’uccisione del corpo femminile e colpisce invece la donna come tale: un delitto antropologico che chiama in causa non il codice penale, ma i cosiddetti «diritti civili», quelle nefaste caricature dei diritti dell’uomo, prive di sostanza giuridica e frutto delle mutevoli convinzioni e dei desideri «culturali» della nostra epoca e, soprattutto, di un preteso ma inesistente diritto, in questo caso femminile, all’autodeterminazione.

Essi sostanziano il caos etico della nostra era e della nostra società, trasformando il delitto in diritto come, 25 anni fa, scriveva Giovanni Paolo II nella Evangelium Vitae. I «diritti civili» sono, in realtà, «distorti civili», una distorsione del diritto, sono diritti di morte. Se non altro dopo cinque milioni e mezzo di bambini morti prima di nascere, occorre finalmente che il femminismo si chieda se l’asserito «diritto civile di abortire», ormai riconosciuto dall’ordinamento italiano, lasci indenne o piuttosto ferisca quasi mortalmente il «volto» della donna, la mulieris dignitas e, con questa, anche «la sua vocazione» di maternità e di cura, inducendola a violare il patto nuziale stretto nell’incontro coniugale con il futuro deluso padre.

La Lettera apostolica di Giovanni Paolo II appena richiamata, ricordava proprio nel suo incipit alcune parole assai esplicite di papa Montini: «Nel cristianesimo, infatti, più che in ogni altra religione, la donna ha fin dalle origini uno speciale statuto di dignità, di cui il Nuovo Testamento ci attesta non pochi e non piccoli aspetti (2)». Non si tratta, tuttavia, soltanto di aborto. Anche il divorzio è un vulnus palese alla «vocazione» femminile e alla sua dignità di donna (cioè di domina, che non può essere «usata»), che mira a un’unione coniugale perenne che solo la morte può sciogliere (e io spero che duri anche oltre, nell’altra vita).

È femmicidio la pratica dell’omosessualità femminile che, nel rifiuto dell’incontro con la diversità dell’uomo, nega (analogamente a ciò che accade nel maschio) l’essenza procreatrice della femminilità per preferirle la sterilità di una donna non più «altra», ma inutilmente «eguale». Va perduta così la ricchezza femminile, che si realizza specialmente nell’incontro-confronto con la maschilità per cui è stata creata.

Il figlio come «prodotto»

Analogamente è femmicidio la fecondazione artificiale, che non solo porta a morte milioni di figli in embrione condannati all’ergastolo nel gelo di un bidone a meno 196 gradi, ma si compie mediante l’intrusione, a volte a-dulterina, di terze persone, vale a dire trasformando in estraneità un processo di reciproca integrazione e intimità donna-uomo che maggiore non potrebbe esservi. Invece di un figlio (l’una caro), il suo esito voluto è progettato come un «prodotto», di cui spesso si esige la garanzia di qualità, pena il rifiuto.

Ancora: la contraccezione, vera negazione a priori della vocazione della donna; la «coppia di fatto», in cui la donna è ridotta a semplice «compagna»; e infine il gender, dove (come nell’uomo) l’essere donna non è un «per sempre», ma soltanto una questione di voglia, di moda, di tempo.

E, per finire, la questione delle «quote rosa» obbligatorie per legge, che accusano la donna di un’inesistente incapacità a emergere per forza propria e riducono il genere femminile a una sorta di specie protetta, quasi fosse a rischio di estinzione (reale, se si proseguirà con questi femmicidi).

Durante la conferenza ginevrina del Consiglio dei diritti dell’uomo, cui si è accennato all’inizio, una deputata olandese, Kartika Tamara Liotard, ha denunciato «l’eccessiva esposizione dei corpi, troppo spesso sessualizzati». Che riduce la donna a femmina. Cosa facilmente costatabile anche senza bisogno delle denunce Onu, ma che fa pensare a quel parroco di Lerici (La Spezia) che, alla fine del dicembre scorso, i media hanno condannato alla gogna e il Vescovo ha mandato in ferie per avere esposto un manifestino in cui si accusavano di provocazione al proprio omicidio le donne in minigonne eccessive. Don Piero non aveva tutti i torti. Andava soprattutto contro corrente.

Troppi fantasmi di donne senza volto si aggirano in Europa e nel mondo. Io credo che, piuttosto o prima che cittadine, sia molto meglio essere donne. I cittadini, infatti, non hanno sesso e perciò, se tali fossero, le donne rischierebbero di valere soltanto quanto gli uomini.

Note

1) È una città turistica dell’isola di Giava, in Indonesia, con circa 3 milioni di abitanti. I «Princìpi», elaborati nel novembre 2006, riguardano la salvaguardia dei diritti umani in relazione, però, all’orientamento sessuale e all’identità di genere.

2) Mulieris Dignitatem, 1, che richiama: Paolo VI, Discorso alle partecipanti al Convegno Nazionale del Centro Femminile Italiano (6 dicembre 1976).

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